25 giugno 2017

Spagna, Effetto Sánchez: Psoe e Podemos (forse) più vicini



Pedro Sánchez ha rivendicato proprio quel 15M tanto bistrattato prima e ha evocato una maggioranza tra le forze del cambio per chiudere con la fase nera del PP. Platea entusiasta, pugni chiusi e Internazionale in coro, mesto abbandono della sala congressuale dei baroni del partito tra cui Diaz e Zapatero. Gonzáles assente giustificato per un viaggio in Colombia. Nomina di una direzione blindata contro di loro e coesa con il segretario. Cambio di linea politica e di facce, discontinuità con il vecchio partito

di Michele Serafini, Marina Turi    *
             
Forse è stato il caldo torrido che ha colpito la Spagna e non il disinteresse a impedire il presidio annunciato, la settimana scorsa, durante la discussione parlamentare sulla mozione di sfiducia a Rajoy, presentata da Unidos Podemos. Certo i 40 gradi raggiunti consigliavano di esprimere la propria indignazione per la corruzione del Partito Popolare in luoghi ben refrigerati, ma la consapevolezza che alla fine la mozione non sarebbe passata e che il governo delle destre avrebbe continuato a fare danni, ha fatto desistere anche i più temerari.
Le obiezioni del Psoe a Unidos-Podemos, sull’opportunità di presentare la sfiducia senza ricercare prima le alleanze necessarie e sufficienti per evitare l’esito negativo, hanno un loro perché, ma comunque un piccolo risultato sembra esserci stato lo stesso. Si intravede una possibilità di intesa fra i due principali partiti della sinistra spagnola, una disponibilità reciproca. Il muro eretto nel 2011 dal governo Zapatero e dall’allora gruppo dirigente socialista contro l’indignazione del movimento 15M, che dichiarò non sentirsi rappresentato da quel Psoe che sposava l’austerità a senso unico dei liberisti europei, sembra accusare dei cedimenti strutturali. I mattoni aggiunti con l’astensione del Psoe, grazie alla quale Rajoy e le destre hanno nuovamente avuto il via libera alla guida della Spagna, sono stati rimossi dalle primarie socialiste che hanno nominato Pedro Sánchez, e la sua idea di smantellare il governo delle destre, alla guida del partito socialista. Ancora qualche picconata a quel muro è stata data questo fine settimana durante il 39° congresso federale del Psoe a Madrid. Un congresso algido con la vecchia guardia del partito, in cui si è resa ufficiale la svolta a sinistra. Pedro Sánchez ha rivendicato proprio quel 15M tanto bistrattato prima e ha evocato una maggioranza tra le forze del cambio per chiudere con la fase nera del PP. Platea entusiasta, pugni chiusi e Internazionale in coro, mesto abbandono della sala congressuale dei baroni del partito tra cui Diaz e Zapatero. Gonzáles assente giustificato per un viaggio in Colombia. Nomina di una direzione blindata contro di loro e coesa con il segretario. Cambio di linea politica e di facce, discontinuità con il vecchio partito, tentativo di fare del Psoe il punto di riferimento sociale della maggioranza alternativa alle destre.

Certo il muro inizia a crollare, ma lascia in giro macerie che intralciano l’idea che da subito Podemos e Psoe possano costruire una unità e lavorare per realizzare il cambiamento. La maceria principale che potrebbe far ripartire diffidenze e divisioni è rappresentata proprio da quel cordone sanitario che Sánchez vorrebbe istituire per bloccare Rajoy e mandarlo a casa, quello spazio di coordinamento parlamentare con Podemos e Ciudadanos per smontare le politiche del Pp. È irrealistico pensare di staccare Ciudadanos da Rajoy e dal suo governo, visto che quel partito è stato pensato e costruito solo per impedire che un’alleanza fra Podemos e Psoe portasse al governo la Spagna che si espresse nel 2011 con il 15M. Ma Ciudadanos non è l’unica massa di detriti; c’è anche il rifiuto da parte del partito anche solo di discutere una posizione sulla regolamentazione della gestazione per altri, rifiuto che accontenta alcuni femminismi, ma scontenta la Gioventù Socialista e la comunità Lgbti. Come c’è la mancata uguaglianza tra donne e uomini nell’esecutivo appena eletto o nessuna idea di sostenere un referendum contro la monarchia a favore della terza repubblica, come chiesto dai giovani. Non c’è una presa di posizione formale sulle riforme costituzionali necessarie per l’abolizione del pareggio di bilancio o per una riforma federale per avviare il riconoscimento della plurinazionalità della Spagna come vorrebbe la Catalogna con l’annunciato referendum per l’indipendenza. Rimuovere tutte le macerie per convergere sulla scelta comune di mettere al centro la lotta al cambio climatico e l’urgenza di definire un nuovo modello energetico per il paese, per il rilancio della democrazia e dei diritti chiedendo di abolire subito la legge di sicurezza cittadina – la ley mordaza – che impedisce semplici espressioni di antagonismo e protesta, per una opposizione alla legge di bilancio del governo delle destre che taglia finanziamenti all’occupazione, al welfare, all’istruzione e alla sanità pubblica e al piano contro la violenza machista. Un vento che soffia in direzione contraria a quello sollevato in Francia da Macron, che non cambia la sostanza liberista. Un vento fresco, in un’estate rovente, come quello che ha spinto Corbyn in Gran Bretagna.

 * da il manifesto 24 giugno 2017

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Primarie Psoe, la rivincita di Pedro Sánchez
Spagna. 74mila militanti, più del 50%, ha votato per l’ex segretario. Affluenza record all’80%
Un solo risultato poteva buttare all’aria lo scacchiere politico: che l’ex segretario socialista Pedro Sánchez, defenestrato dai baroni del partito sei mesi fa, vincesse le primarie. E contro ogni pronostico, contro la quasi totalità dei maggiorenti del Psoe, contro gli editorialisti dei principali giornali, in primis l’ex filosocialista El País, contro i desiderata di Pp e Podemos, la maggioranza dei militanti socilisti, su 150mila che si sono recati a votare in urne fisiche (uno straordinario 80% del censo), ha scelto l’outsider, l’ex segretario ed ex deputato Sánchez.
Lo scontro è stato cruento. Susana Díaz, che tutti davano per vincente, contava sull’appoggio della potentissima federazione andalusa (dove è presidente regionale) e di tutti i quadri regionali, con l’eccezione della Catalogna e delle Baleari. La appoggiavano tutti gli ex segretari ed ex presidenti socialisti del governo. Il terzo candidato, l’ex presidente basco e presidente del Congresso nella breve legislatura precedente, Patxi López, ed ex alleato di Sánchez, era appoggiato dalla federazione basca. Il trattamento che i nemici di Sánchez gli hanno riservato in questi mesi, alla fine si è rivelato un regalo. I militanti socialisti hanno scelto la vittima degli intrighi dei burocrati di partito, l’eroico deputato che pur di non votare il Sì a Rajoy si era dimesso, l’unico che, contro il suo stesso curriculum centrista, avrebbe potuto salvare l’anima a sinistra del partito. 74mila militanti, più del 50%, ha votato per lui. Meno del 40% ha votato per Díaz e quasi il 10% ha sostenuto il terzo incomodo López. Ma il dato più sorprendente, e significativo del clima che si respira nel partito, è che Díaz è stata l’unica votata da meno persone di quelle che ne avevano sostenuto, con nome e firma, la candidatura (e soprattutto in Andalusia). Non basta: tutti i presidenti regionali socialisti in carica pro Díaz (fatto salvo il caso andaluso, dove la leader si è imposta) sono stati sconfessati dai propri militanti. Le ferite saranno difficili da rimarginare. Tra un mese si celebrerà il congresso che formalmente incoronerà Sánchez, stavolta molto più forte, e rinnoverà le cariche. Ma tutti sanno che Díaz è pronta a schierare le truppe.
Il Pp non ha mai nascosto di preferire Díaz come avversaria, percepita come assai più malleabile. Anche se fra i parlamentari, i sanchisti sono una minoranza, il Psoe ora sarà meno disponibile a scendere a patti con Rajoy, che potrebbe essere tentato da elezioni anticipate. Anche Podemos sperava in Díaz: per certificare di essere l’unica vera sinistra. Ma i viola hanno incassato abilmente la vittoria sanchista: la prima mossa è stata mostrarsi disponibili a ritirare la mozione di sfiducia contro il Pp su cui Podemos e alleati stanno costruendo tutta la strategia politica di queste settimane: «sempre che il Psoe ne presenti un’altra». Lo aveva promesso Sánchez, vincolandola però a una «reale possibilità di successo». Sabato Izquierda Unida e Podemos avevano riunito nell’emblematica Puerta del Sol di Madrid una grande folla a sostegno della mozione. Senza Ciutadanos è difficile (ma non impossibile) rovesciare il governo Rajoy. Ma ora la palla è nel campo di Sánchez. Anche i catalani sono pronti a riscuotere l’appoggio massiccio che gli hanno garantito: più dell’80% di loro hanno sostenuto il leader madrileño, più che in qualsiasi altra comunità. Ieri è trapelata una versione della legge di «transitorietà giuridica», a cui stanno lavorando segretamente alcuni parlamentari catalani, che ha l’obiettivo di mettere le basi per un nuovo stato: gli indipendentisti sembrano fare sul serio e, dice il testo, sono pronti a dichiarare unilateralmente l’indipendenza se non otterranno presto un referendum. Urge qualche azione politica da Madrid. A parte Unidos Podemos, l’unico politico che aveva aperto qualche timido spiraglio era stato proprio Sánchez. ( Luca Tancredi Barone, il manifesto 23 maggio 2017 ) 

L’ottobre catalano, un referendum deja vu
Spagna/Catalunya. A novembre del 2014, i catalani vennero chiamati a votare in quello che doveva essere «un referendum», ma che, a colpi di ricorsi al Tribunale Costituzionale del governo di Mariano Rajoy, era stato derubricato alla fine a un «processo partecipativo»
Tra 114 giorni, il primo ottobre, i catalani saranno chiamati a rispondere alla domanda: Volete che la Catalogna sia uno stato indipendente nella forma di una repubblica? O, almeno, questo sostiene il governo catalano. L’annuncio l’ha dato ieri mattina, con fare solenne, il presidente catalano Carles Puigdemont, circondato da tutti i 72 parlamentari indipendentisti, compresa la presidente del parlamento Carme Forcadell, e da tutti i membri del suo governo. La sensazione del deja vu è molto forte. A novembre del 2014, i catalani vennero chiamati a votare in quello che doveva essere «un referendum», ma che, a colpi di ricorsi al Tribunale Costituzionale del governo di Mariano Rajoy, era stato derubricato alla fine a un «processo partecipativo». Due milioni di persone (sui circa 7 e mezzo aventi diritto; ma potevano votare anche i sedicenni e gli stranieri residenti) si erano recati alle urne in seggi più o meno ufficiali per rispondere quella volta a due domande: volete che la Catalogna sia uno stato? volete che sia indipendente? L’80% per cento aveva detto Sì – Sì, e il 10% Sì – No. La differenza rispetto ad allora è che Rajoy è molto più debole, anche se il «nuovo» Psoe di Sánchez ha già ribadito che lo appoggerà contro l’autodeterminazione catalana. La seconda differenza è il partito di Ada Colau, il più grande in Catalogna nelle ultime politiche: da sempre a favore di un referendum, ma contrario a farlo senza un quadro giuridico chiaro e concordato. Conseguenza dello pseudo-referendum de 2014? Elezioni anticipate in Catalogna nel 2015, anche loro «plebiscitarie», dove gli indipendentisti sono arrivati a poco meno del 50% dei voti, ma a 72 seggi su 135. Seconda conseguenza, i dirigenti politici di allora trascinati alla sbarra (il presidente Artur Mas e tre suoi ministri sono stati inabilitati a ricoprire cariche pubbliche). Terza conseguenza: un governo catalano debole, guidato da uno scialbo Puigdemont, formato da partiti eterogenei, uniti solo dalla narrativa indipendentista. Uno dei partiti che esprimono il governo, l’ex Convergència che oggi si chiama Partito Demòcrata, è immerso in processi di corruzione quasi quanto il Pp a Madrid e, nonostante sia stata la destra egemonica catalana, è oggi molto indebolito. Senza l’ombrello di Junts pel Sí (che unisce Partito Demòcrata a Esquerra Republicana) sarebbero destinati alla marginalità. Quarta conseguenza, la più grave.
Dato che l’unica risposta del governo di Madrid alla questione catalana è quella giudiziaria, i 62 deputati di Junts pel Sì e i 10 indipendentisti movimentisti della Cup, che danno appoggio esterno a Puigdemont, stanno discutendo in segreto una legge fondamentale per il futuro dei catalani. Battezzata «legge di disconnessione», è in sostanza quella che garantirà copertura giuridica al referendum, alla successiva dichiarazione di indipendenza, e alla transizione «da una legalità all’altra». Grazie a una modifica del regolamento del Parlament imposta dalla maggioranza dei 72, gli indipendentisti approveranno questa legge in una seduta blitz senza neppure che i 63 deputati dell’opposizione l’abbiano potuta leggere prima. Regnano incertezza e preoccupazione: si è parlato di un sistema giudiziario che sarà asservito all’esecutivo, di dati fiscali rubati al ministero delle finanze (fiscalità e pensioni sono fra i temi più spinosi), di un esercito preparato di nascosto, di partite segrete nel budget catalano per le spese per il referendum, di funzionari (che devono rispondere alla legge spagnola) che saranno costretti ad accettare la futura «legalità catalana», di uno «stato straniero solvente» che si sarebbe detto disposto a prestare soldi al futuro stato catalano.Tutto questo, unito al fatto che l’annuncio del referendum non è stato formalizzato da nessun documento (per paura che venga impugnato da Madrid) dà un’aria inquietante a tutta la faccenda. Nutrire per anni le aspettative di una buona parte dei catalani senza che poi, come è molto possibile, si arrivi mai a nulla, potrebbe facilmente sfociare nella disaffezione. Per ora l’unico scenario realista è che quando Madrid fermerà il referendum vengano convocate le ennesime elezioni «plebiscitarie» in Catalogna. ( Luca Tancredi Barone, il manifesto 10 giugno 2017 )


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