di Samuele
Mazzolini (da ilfattoquotidiano.it,
13 maggio 2017 ) *
In un’intervista rilasciata a Radio Popolare qualche giorno fa,
il leader di DiEM25 Italia Lorenzo Marsili ha concesso il beneficio del
dubbio al neoeletto presidente francese Emmanuel Macron: “Se,
invece, Macron riuscirà a mettere in campo politiche di rottura, a
coinvolgere anche un establishment tedesco sempre restio ad ipotesi di
trasformazione della zona euro, allora si aprirà senz’altro un’altra
fase”. Certo, Marsili è scettico che ciò accada, ma è in particolare il
fatto che Macron abbia messo l’Europa al centro (“una cosa positiva”) a
fargli nutrire qualche speranza.
Vorrei qui
esprimere un pensiero critico e tuttavia rispettoso nei confronti di
questa posizione e ciò che la ispira. Lo ammetto, anche a me piacerebbe che le
annose questioni che ci attanagliano oggigiorno potessero trovare una risposta
continentale decente. Perché è certamente vero che, sulla carta, l’unione fa la
forza e che di fronte a sfide sempre più globali la dimensione da cui ci si
attrezza per darvi risposta non è un fattore indifferente. Accade però che le
istituzioni europee abbiano smesso già da molto tempo di incarnare quei
valori di democrazia, pace e giustizia sociale che avevano portato alla
loro costituzione, e questo Lorenzo lo sa molto bene.
La questione
spinosa e problematica, piuttosto, mi sembra quella di anteporre una
visione europeista rispetto al contenuto che essa incarna. Macron vuole più
Europa. Ma quale Europa vuole? Vuole un’Europa di ulteriore tagli allo
Stato sociale, di licenziamenti di decine di migliaia di lavoratori pubblici,
di più mercato sregolato, di un nuovo diritto del lavoro per flessibilizzare
ulteriormente le già precarie esistenze di giovani e meno giovani. Macron
è un estremista di centro: un difensore acerrimo dello status quo
che sostiene il diritto delle élite di arricchirsi a dismisura a costo di
maggioranze sempre più impoverite. Ora, trovare importante la sua enfasi
sull’Europa ed estendergli un credito di fiducia oscura il contenuto in
favore dell’involucro e rischia di condurre a errori strategici di non poco
conto.
Non si
tratta di abbracciare pulsioni nazionaliste o di trincerarsi dietro allo Stato
in virtù di visioni antiquate. Il fatto è che la riforma dell’Unione Europea,
il “cambio da dentro”, come si suol dire, è escluso dalla sua stessa
architettura istituzionale e giuridica. Il suo carattere sovranazionale
fa sì che per ottenere un cambio reale (non quello dei 0 virgola à la Renzi),
questo si debba verificare simultaneamente in un numero sufficiente di Paesi
tale da incidere sulle geometrie politiche del Consiglio Europeo. Sappiamo però
che i calendari elettorali sono sfasati e seguono ancora percorsi e dibattiti
perlopiù nazionali. E sappiamo anche che appena uno Stato membro prova a
deviare dal tracciato, come ci insegna il tragico esempio della Grecia,
viene colpito da punizioni esemplari che ne soffocano le velleità. Qui, dunque,
il rischio dell’europeismo di maniera è quello di attaccarsi a tutti i
costi al capestro di un miraggio fraudolento.
D’accordo,
se avessimo un governo di ispirazione popolare, un tentativo per cambiare
l’Europa andrebbe pur fatto, ma di fronte all’ennesimo rifiuto, cosa faremmo?
Ci dovremmo piegare alle imposizioni, perché, dopo tutto, l’Europa sta al
centro e questo è (l’)importante? Non va dimenticato che l’Italia,
oltretutto, non è la Grecia e le sue dimensioni le darebbero uno spazio di
manovra di gran lunga più ampio. Ecco, mi sembra che la lotta per riprenderci
almeno un pezzo di quella sovranità che ci è stata tolta – una
battaglia cara a Podemos, senza dubbio il soggetto emancipatore più
avanzato in Europa – andrebbe fatta nostra: certo non la sovranità
sciovinistica e gerarchica cara ai reazionari che soggioga e riproduce
l’oppressione su scala nazionale, bensì la sovranità popolare, ossia la
possibilità di restituire alle popolazioni europee la potestà di decidere
su aree ormai sequestrate da un rapace establishment economico. Ho detto le
popolazioni europee: perché non è una lotta solo italiana, ma europea (e
persino globale); solo che la sua declinazione non può che avvenire nei
contesti dove la sovranità può essere ragionevolmente riconquistata.
Non è del
resto palese che Melénchon abbia fatto il salto di qualità proprio
quando ha iniziato a parlare la lingua del suo popolo, a connettersi alle
battaglie locali, uscendo dal guscio del vocabolario di sinistra e promettendo
di lottare contro l’Unione Europea se non avesse fatto caso alla richiesta
francese di un cambio di rotta? In un recente viaggio a Quito, il leader
di DiEM25 Yanis Varoufakis ha parlato del leader di France Insumise
nei termini più sprezzanti possibili: il suo scetticismo per il candidato
francese più dignitoso stona clamorosamente con l’entusiasmo
dimostrato successivamente per l’esponente di quel centro social-liberale che
così tanto male sta facendo all’Europa.
* Classe ’84. Ricercatore in Teoria politica alla University of Essex
(Inghilterra) presso la scuola fondata dal filosofo Ernesto Laclau. Si occupa
dei concetti di populismo ed egemonia. Co-fondatore di Senso Comune
e primo firmatario del manifesto per
un populismo democratico. In passato, ha lavorato come consulente politico del
governo ecuadoriano di Rafael Correa e come editorialista del quotidiano
pubblico “El Telegrafo”.
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