Avevano detto tre mesi, sono bastati pochi giorni. Dopo 20 anni di presenza occidentali i talebani sono di nuovo padroni dell’Afghanistan. “Gli americani hanno gli orologi, noi abbiamo il tempo”, erano soliti dire i capi del movimento e gli ultimi accadimenti sembrano dar loro ragione. Fortemente radicati in alcune aree del paese, già dal 2015 controllavano circa il 40% dell’Afghanistan. Una presenza che è sempre stata forte fuori dalle principali aree urbane. Tuttavia la rapidità con cui hanno assunto il controllo dell’intero paese stupisce gli osservatori. Ne parliamo con Nicola Pedde, direttore dell‘ Institute for Global Studies e in passato a capo della ricerca sul Medio Oriente presso il Centro militare di studi strategici.
Dott. Pedde,
dopo il ritiro delle forze statunitensi quello dell’Afghanistan era
probabilmente un destino segnato. Ma perché le strutture create non sono state
in grado di opporre la minima resistenza all’avanzata talebana?
Dobbiamo fare una doverosa e
fondamentale premessa. Affermare che in questi vent’anni l’occupazione
occidentale abbia portato democrazia e libertà nel Paese è una falsità. C’è
stato qualche apprezzabile avanzamento di alcuni diritti ma niente di
più. Il paese è stato affidato ad un’élite autoreferenziale e corrotta che non
ha mai avuto il sostegno della società afgana. Molto semplicemente il vecchio
sistema è stato calato in strutture nuove, la sostanza è rimasta la stessa. Gli
afgani lo hanno fatto capire chiaramente. Perché dovremmo imbracciare le armi e
impegnarci in una nuova guerra per difendere il presidente Ashraf Ghani
che di questa realtà è la massima espressione? si sono chiesti. La risposta la
abbiamo sotto gli occhi. Soprattutto, in questo ventennio, non si è creato
nessun presupposto per dotare il paese della capacità di sostentarsi
autonomamente. Il 90% dei finanziamenti se n’è andato in spese militari.
Alla costruzione di infrastrutture civili è stato destinato appena il 10%.
Questo è il vero e grande fallimento dell’operazione statunitense.
Detto
brutalmente, perché gli Stati Uniti se ne sono andati proprio adesso?
Molto semplicemente non hanno più
nessun interesse a proseguire una guerra i cui costi sono diventati
insostenibili, soprattutto in un momento in cui il paese vara piani da
migliaia di miliardi di dollari per sostenere la ripresa della sua
economia. Il disimpegno dall’Afghanistan è stato gestita malissimo, si sarebbe
ad esempio potuto aspettare l’inverno, quando i valichi di montagna sono
impraticabili e l’avanzata talebana sarebbe stata più lenta, ma n0n c’era nessun
motivo logico per restare. Si parla dei sacrosanti diritti delle donne
ma, diciamocelo onestamente, non è mai stato questo il motivo per cui gli
eserciti occidentali erano in Afghanistan.
Gli Usa
abbandonano la scena e in molti prevedono che il nuovo protagonista sul
palcoscenico afgano sarà la Cina. Cosa ne pensa?
Sono abbastanza perplesso di
fronte a queste letture che danno quasi per certo un forte impegno cinese nel
paese. Non credo che Pechino abbia tutto questo interesse ad imbarcarsi in
un’operazione che, ripeto, richiede giganteschi sforzi economici. Anche
la Cina è alle prese con un rallentamento della sua economia. Quello che
Pechino vuole assolutamente scongiurare è che si saldi e rafforzi il legame
tra Talebani e Uiguri (etnia di religione islamica che abita zone del nord
ovest della Cina, ndr), per questo la Cina è comunque interessata a
mantenere buoni rapporti con Kabul e a dialogare con chi governa il paese.
Eppure l’Afghanistan
è potenzialmente, e letteralmente, una miniera d’oro. La Cina ha già investito
negli scorsi anni 4 miliardi di dollari nelle miniere di rame di Anyak. Alcune
stime indicano in mille miliardi di dollari il valore dei minerali che si
troverebbero nel sottosuolo del paese, rame, ferro, oro oltre a cobalto,
molibdeno e cosiddette terre rare.
È vero ma lo è sulla carta. Molti di
questi dati non sono del tutto verificati e comunque, ripeto, per poter
attingere davvero a queste risorse servono investimenti colossali. E
tempo… almeno altri 20 anni per dotare il paese delle infrastrutture
necessarie. In questo momento chi se lo può permettere?
Cosa si
attende adesso, cosa faranno i Talebani dopo aver conquistato il paese?
Devono passare dalla fase oppositiva
a quella costruttiva. Una transizione molto difficile, soprattutto alla
luce delle divisioni che storicamente attraversano il movimento talebano.
Unirsi contro un nemico comune è relativamente semplice, governare e sfamare un
paese lo è molto meno. Godono di una qualche apertura di credito da parte della
popolazione e, tutto sommato, della comunità internazionale che, in una
qualche misura li ha già legittimati accettandoli come interlocutori nei
colloqui di Doha. Terranno un profilo basso, cercheranno in ogni modo di
non venire isolati in ambito internazionale e questo potrebbe costituire
una leva per ottenere concessioni in termini di diritti. Immagino che da un
punto di vista economico, inizialmente, punteranno soprattutto sulle
coltivazioni di papavero da oppio e quindi sui traffici di stupefacenti.
Del resto, mano mano che i finanziamenti internazionali si assottiglieranno, non
hanno grandi alternative. Il tempo a disposizione non è molto. I destini
dello stato talebano e dei suoi rapporti con la popolazione si giocheranno
nei prossimi sei mesi.
Inutile
girarci intorno, in un paese che ha un età media di 18 anni e un’ aspettativa
di vita di 45 anni, molti giovani afgani sono stati sedotti più dal messaggio
jihadista che dal modello proposto, come abbiamo visto in modo molto poco
convincente, dagli occidentali.
La generazione del Mullah Omar
non esiste più, decimata dai 20 anni di conflitti. È stata in gran parte
sostituita da una nuova leva che è cresciuta vivendo sulla propria pelle il fallimento
del progetto occidentale e reagendo di conseguenza.
Sullo sfondo
di questi ragionamenti ci sono gli altri tre attori dell’area: Pakistan, Iran
ed India. Oggi i titoli di stato pakistani hanno registrato una forte caduta
del prezzo e un incremento dei rendimenti, segnale che indica la percezione
degli investitori di problemi in vista per Islamabad…
In tutta questa lunga vicenda il
Pakistan è stato l’attore internazionale più ambiguo. Storicamente Islamabad ha
interesse ad avere a che fare con un Afghanistan destabilizzato e
debole, in modo di avere ai suoi confini un’entità manovrabile e non
pericolosa. Ha fatto doppi e tripli giochi, tra l’altro sostenendo due delle
componenti talebane più radicali. Non dimentichiamoci peraltro dove è stato
trovato e ucciso Osama bin Laden nel 2011 (a Abbottabad, cittadina a 50
km dalla capitale pakistana dove ha sede una caserma dell’esercito, ndr).
Ora per il Pakistan ci sono due grandi problemi, il primo è che il nuovo potere
talebano potrebbe davvero farsi stato, il secondo è che il suo operato
potrebbe venire più chiaramente in luce. L’India ha avuto un ruolo molto
più defilato e non penso che la nuova situazione cambierà l’atteggiamento di
Nuova Delhi.
Quanto
all’Iran?
Teheran storicamente è nemica dei
talebani (che si rifanno ad un’ Isalm wahabita di matrice sunnita,
come l’Arabia Saudita, ndr) ma, a sua volta, in questi 20 anni ha avuto
un atteggiamento piuttosto ambiguo cercando di creare problemi alla
coalizione guidata dagli Usa. L’Iran ha già circa 3 milioni di profughi
afgani sul suo territorio, di cui appena uno su tre regolarmente censito.
Ha il terrore di dover gestire un’ulteriore ondata di profughi in un momento in
cui il paese è in gravi difficoltà economiche. Inoltre i traffici di stupefacenti
afgani transitano in gran parte attraverso l’Iran, un elemento che può far
aumentare le tensioni e quindi crea ulteriori preoccupazione.
* da FQ - 17 Agosto 2021 - nella foto: Il presidente degli Usa Joe Biden
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