Gli incendi appiccati in Italia in questa estate rovente hanno causato la morte non solo di molti umani, ma anche di oltre venti milioni di animali selvatici, soffocati e bruciati vivi. Una strage paragonabile, in proporzione, a quella dei koala, arrostiti e portati sull’orlo dell’estinzione fra il 2019 e il 2020 nei grandi roghi dell’Australia orientale. Forse ci vogliono questi numeri per sfondare quel muro di insensibilità diffusa con cui ci si scontra quando si parla di foreste e boschi secolari divorati dalle fiamme.
Dei vegetali, ancorché essenziali alla vita sulla Terra, importa poco ai sapiens, degli animali, forse, qualcosa di più. Ma gli oltre 100.000 ettari bruciati solo finora in Italia hanno un valore che va al di là di ogni possibile prezzo (pure stimabile: si calcola in oltre 500 milioni di euro la spesa media annuale per riparare i danni degli incendi in Italia), perché la foresta è un valore non dato dalla somma dei singoli alberi, tanto quanto quello di un computer non sta nel prezzo dei suoi singoli chip in silicio. Le foreste sono patrimonio collettivo, memoria e casa dei viventi, e forniscono gratuitamente una serie di servizi senza i quali i sapiens andrebbero ramenghi: aria pulita, immagazzinamento di anidride carbonica, acque depurate, svago e divertimento, insomma vita.
Le cause le conosciamo ormai perfettamente: oggi non sono soltanto i contadini o i pastori, e nemmeno i cacciatori, ad appiccare il fuoco con impressionante sistematicità, e per fortuna nessuno parla più di autocombustione, fenomeno pure possibile, ma responsabile di meno del 5% degli incendi. E sarebbe ormai il caso di abbandonare il termine piromani, come se l’incendio fosse dovuto all’atto narcisista di un pazzo fuori controllo. Al contrario, l’incendio è frutto di una strategia sistematica di distruzione del territorio che ha come responsabili gli speculatori edilizi, coloro che si oppongono alla protezione della natura e ai parchi naturali e, qualche volta, quelli che sugli incendi ci campano, fino ad arrivare al paradosso dei lavoratori forestali stagionali che appiccano il fuoco per continuare a trovare lavoro nel rimboschimento successivo.
Poi ci si mette anche il cambiamento climatico, con buona pace degli scettici e di quelli che cadono sempre dal pero quando vi si fa riferimento: anni di siccità, temperature dell’atmosfera prossime ai 50°C, abbassamento delle falde acquifere e impoverimento delle acque dolci di superficie hanno quel minimo comune denominatore del clima, non del destino cinico e baro. Nell’innesco e nella propagazione istantanea delle fiamme.
È vero che le leggi vieterebbero, in teoria, di costruire nelle zone incendiate, ma non è facile delimitare il perimetro dei boschi, una volta che sono stati inceneriti. Così sarà comunque più facile chiedere di costruire in aree che non presentano più, evidentemente, il pregio che la foresta conferiva loro. I parchi naturali, visti come un vincolo alle ansie costruttive o di sfruttamento turistico, sono poi un altro obiettivo, con l’aggravante che si tratta di foreste primigenie, che si ricostituiscono solo in secoli. Un catasto obbligatorio delle aree bruciate a livello comunale, il divieto assoluto di ricostruire nelle aree bruciate per sempre e la sorveglianza (anche satellitare) mitigano il rischio, magari suggerendo di svincolare i rimboschimenti dal vincolo regionale.
Varrebbe la pena di ricordare che non è tanto questione di canad-air o elicotteri: quando si ricorre ai mezzi aerei la battaglia contro le fiamme è già perduta, perché la maggior parte del lavoro deve essere fatto, invece, in prevenzione, durante l’inverno e l’autunno, che dopo è troppo tardi. Ma bisogna anche catturare i criminali del fuoco e presentare loro un conto salato: dove ciò è accaduto (come per esempio all’isola d’Elba), gli incendi sono praticamente spariti, dove c’è impunità, invece, continuano imperterriti. Questi criminali torneranno a casa, dormiranno accanto a qualcuno, perciò denunciateli, anche se sono famigliari, perché il loro è un crimine contro l’umanità.
Che si rinnova dopo l’estate. Quando passa il fuoco, i danni sono duplici: le piante che vengono distrutte a tutti i livelli, comprese le radici (l’incendio sotterraneo), lasciano il suolo facile preda delle piogge autunnali, dell’erosione selvaggia e delle frane. Un fenomeno che avviene oggi in tutto il Mediterraneo e particolarmente in Italia, che torna a bruciare al ritmo forsennato di 100.000 ettari all’anno e che ha il 47% del territorio a rischio idrogeologico.
* da La Stampa – 12 agosto 2021
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