Ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi 400 farmaci di altro genere. Altri sono composti già approvati per altre patologie
di Peter D'Angelo *La ricerca farmacologica contro il Covid per trovare una cura o una terapia efficace e sicura continua su più fronti. Ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi 400 farmaci di altro genere. Alcuni studi sono arrivati al traguardo pochi giorni fa, come il nuovo anticorpo monoclonale sotrovimab, prodotto dalla Gsk, approvato da Aifa il 6 agosto scorso. Dovrebbe coprire da tutte le attuali varianti e sarà impiegato per chiunque – da 12 anni in su – sia ad alto rischio di progressione severa. Altri risultati vedranno la luce invece nel 2022, come il farmaco orale della Pfizer, molto atteso. In questo momento ci sono farmaci già in commercio che hanno dato – e stanno dando – risultati importanti. Per fare il punto Ilfattoquotidiano.it ha intervistato Marco Cosentino, medico, professore ordinario di Farmacologia e direttore del Centro di Ricerca di Farmacologia Medica dell’Università dell’Insubria di Varese.
Direttore,
quali sono le probabilità di avere un nuovo farmaco antivirale, oppure un
trattamento (a fianco ai vaccini), per l’autunno?
Nel trattamento di Covid 19 sono
stati utilizzati con scarso successo vari farmaci antivirali diretti, ad
esempio lopinavir/ritonavir e remdesivir. Quest’ultimo ha ricevuto anche
un’autorizzazione ma la sua efficacia è molto limitata. Sono stati impiegati
anche vari anticorpi monoclonali, a oggi tuttavia i dati disponibili non sono
straordinari.
L’Unione europea aveva annunciato l’individuazione di cinque
trattamenti?
L’Unione Europea ha annunciato per l’autunno l’autorizzazione di quattro
anticorpi monoclonali e di un antivirale con azione diretta. C’è qualche dubbio
che l’eventuale arrivo di questi farmaci modificherà significativamente la
situazione. In questo campo, pare più interessante il farmaco di AstraZeneca
(AZD7442), una combinazione di due monoclonali, tixagevimab e cilgavimab,
derivati dai linfociti di persone guarite dal Covid e ingegnerizzati in modo da
persistere nell’organismo per molti mesi. Si può stimare un’efficacia relativa
del 77%. AstraZeneca ha già dichiarato che intende chiedere l’autorizzazione in
emergenza del farmaco, che costituirebbe così una forma di profilassi
alternativa ai vaccini.
Un farmaco
che ha raccolto molto interesse in Israele è il CD24, con oltre il 90% di
efficacia su pazienti in stato avanzato. Che farmaco è? E quando potrebbe
essere utilizzato negli ospedali?
EXO-CD24 è un farmaco sperimentale di concezione originale,
per quanto dal punto di vista clinico ancora ne sappiamo ancora molto poco.
CD24 è una glicoproteina espressa da molte cellule del nostro sistema
immunitario, il cui ruolo fisiologico consiste nel ridurre la risposta
infiammatoria. La sua attività è ridotta in stati infiammatori gravi come ad
esempio le sepsi. Da qui l’idea di impiegarla per prevenire o curare il quadro
più grave di Covid 19, la cosiddetta “tempesta citochinica” che altro non è che
una condizione di iperattivazione incontrollata del sistema immunitario
deleteria per l’organismo. A oggi sono stati condotti studi iniziali, di fase I
e fase II, il primo su 30 persone e il secondo su 90, tutte con Covid. I
benefici clinici sono tuttavia stati notevolissimi se è vero che, stando a
quanto riportano le agenzie, prima 29 pazienti su 30 e poi 84 su 90 sarebbero
guariti in massimo cinque giorni. Bisogna attendere la conclusione degli studi.
Se davvero tutto andasse per il meglio, il farmaco potrebbe essere reso
disponibile già nel corso del 2022.
Direttore,
l’Istituto Mario Negri ha in corso la sperimentazione ‘Cover2’, fa seguito agli
ottimi risultati avuti con ‘Cover1’ (pubblicato su The Lancet) in cui i
ricercatori hanno dimostrato una riduzione del 90% di ospedalizzazioni con
l’uso di farmaci da bancone. Se si confermassero i dati, cosa cambierebbe?
Che l’aspirina e i FANS (anti-infiammatori non steroidei, come nimesulide e
celecoxib) siano farmaci di scelta da preferire al paracetamolo è un dato
consolidato su basi sia farmacologiche che cliniche. Lo studio del Mario Negri
ha avuto tuttavia l’indubbio merito di “costringere” a recepire i FANS anche
nella seconda versione, tuttora in vigore, delle linee guida ministeriali. Lo
studio aveva un disegno osservazionale retrospettivo ed è stato svolto su un
certo numero di pazienti con Covid 19 lieve. Questo non ha impedito di
documentare un indubbio beneficio dei FANS, farmaci facilmente gestibili dal
medico di medicina generale e che non devono mai mancare nel trattamento fin
dai primi sintomi, ancora prima della conferma con eventuali test diagnostici.
L’importanza dello studio del Mario Negri sta anche e forse soprattutto
nell’aver dimostrato che anche una raccolta di dati realizzata in maniera
retrospettiva e osservazionale produce evidenze solide e di grande ricaduta
clinica.
La Pfizer ha
iniziato la sua fase 2/3, il 13 luglio e che finirà a febbraio, del suo
antivirale. Anche qui le chiedo quali aspettative ci sono?
PF-07321332 è un farmaco che agisce inibendo un enzima fondamentale per la
replicazione dei coronavirus, che si chiama proteasi “3C-like”, ci si aspetta
quindi che la sua azione possa consistere nel blocco della replicazione di Sars
Cov 2. Un altro farmaco con attività analoga, PF-07304814 è stato per il
momento abbandonato poiché non è ben assorbito per via orale, a differenza di
PF-07321332. A oggi, sul sito ClinicalTrials.gov, che include la maggior parte
degli studi clinici in corso nel mondo e di regola tutto gli studi per la
registrazione di nuovi medicinali in corso in Usa e in Europa, risultano
inclusi sei diversi studi con PF-07321332, di cui tuttavia solo uno in pazienti
Covid 19, in fase 2/3 ma non è partito il reclutamento – che doveva iniziare dal
13 luglio – di 2260 pazienti, e con conclusione studio prevista per il 15
febbraio 2022. La strategia dichiarata di Pfizer alla base dello sviluppo di
questo farmaco è che i suoi ricercatori per primi si attendono per il futuro,
indipendentemente da qualsiasi altro fattore, continui focolai di Covid che
richiederanno quindi un trattamento possibilmente non soltanto ospedaliero (da
cui anche la scelta di abbandonare il farmaco analogo ma utilizzabile solo per
iniezione endovenosa). Si tratta in verità di una visione del tutto
condivisibile, tanto da rendere incomprensibile la ragione per fino a ora non
siano stati inclusi nelle strategie di lotta al Covid 19 i tanti farmaci già
ora disponibili con un eccellente rapporto tra benefici e rischi, i quali
rappresentano da tempo opzioni concrete e immediatamente utilizzabili.
La Food and
drug administration ha approvato la fase 3 del trial sulle ‘staminali
mesenchimali’, dopo un anno di blocchi burocratici. Fu lo studio che diede in
assoluto i migliori risultati clinici, quasi il 100% di guariti, in pazienti
molto gravi, senza alternative. Che ne pensa?
Le cellule staminali mesenchimali
sono studiate da anni nella medicina rigenerativa e per il loro grande
potenziale antiinfiammatorio e di modulazione della risposta immunitaria. A
oggi le evidenze disponibili derivano dal trattamento di singoli casi o di
piccoli gruppi di pazienti di solito con disegno non controllato. Lo studio di
Miami, pur condotto su 24 pazienti, 12 trattati con staminali da cordone
ombelicale e 12 con placebo, è stato invece realizzato con randomizzazione in
cieco secondo i migliori standard e ha fornito risultati particolarmente
incoraggianti: 91% di sopravvissuti a 30 giorni con le staminali e 42% con
placebo. Ci sono dunque ottime probabilità che i futuri studi confermino e
consolidino i benefici almeno di certi tipi di staminali (non sono tutte
uguali) fino a renderle un’opzione per il Covid grave. È importante essere
consapevoli che un trattamento tempestivo è l’approccio migliore per ridurre il
rischio di progressione della malattia.
Il professor
Zeno Bisoffi, con l’approvazione di Aifa, ha condotto il trial
sull’ivermectina, per studiare la carica virale dopo l’uso del farmaco. Va
detto che uno studio randomizzato in doppio cieco condotto in Israele, ha dato
risultati molto positivi. Anche lo studio Aifa ha lo stesso end-point: la
carica virale. Cosa ci dobbiamo aspettare dallo studio italiano (che uscirà a
giorni)?
L’ivermectina è un farmaco
antielmintico impiegato ormai da 50 anni e incluso nella lista dei farmaci
essenziali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, lista che seleziona i
farmaci più importanti sulla base della loro efficacia e del loro profilo di
sicurezza. Una recentissima revisione della letteratura scientifica, comparsa
sull’American Journal of Therapeutics (Lippincott Williams & Wilkins)
conclude sulla base di numerose evidenze, compresi studi clinici controllati e
randomizzati in cieco, che l’ivermectina è grandemente efficace sia per la cura
del Covid (in termini di riduzione della durata della malattia, delle
ospedalizzazioni, della carica virale e della mortalità) che per la profilassi
(in termini di riduzione della trasmissione), e tutto questo a prezzo di
effetti avversi in genere limitati, prevedibili e gestibili. Mi pare la
migliore premessa per un esito favorevole di qualsiasi altro studio ben
progettato, e tuttavia non sembra esistere alcun serio motivo per non
considerare fin da subito l’ivermectina come una concreta e conveniente opzione
come del resto tanti medici fanno da tempo.
Direttore,
un farmaco comune che – stando alla pubblicazione di Oxford – ha dato ottimi
risultati è il budesonide, un antiasmatico. Ci sono molte controversie
sull’impiego dei cortisonici. Cosa ci può dire a riguardo?
Un recente studio pubblicato su The
Lancet Respiratory Medicine ha documentato la capacità del corticosteroide
budesonide, somministrato per via inalatoria (che ne riduce gli effetti avversi
sistemici massimizzando quelli locali) entro sette giorni dall’inizio di
sintomi anche lievi, di ridurre l’aggravamento e quindi il ricovero
dell’85-90%, senza alcun effetto avverso di rilievo. I glucocorticosteroidi
sono potenti antinfiammatori e soppressori della risposta immunitaria di grande
efficacia in un numero enorme di condizioni cliniche, ma vanno usati con
criterio. Questi farmaci si prestano non soltanto a una somministrazione per
via orale o iniettiva, ma anche – appunto – per “inalazione”. Le attuali linee
guida ministeriali li raccomandano solo quando la compromissione polmonare è
tale da richiedere anche supplementazione di ossigeno; tuttavia, c’è più di
qualche ragione per ritenere che possa essere tardi. Molti medici con
esperienza sul campo sostengono che i glucocorticosteroidi possono essere
un’importante opzione ai primi segnai di interessamento polmonare, proprio in
quanto i danni infiammatori possono ancora essere prevenuti. Ogni singolo
farmaco va impiegato in maniera appropriata tenendo anche conto delle
condizioni del paziente.
Che altri
farmaci interessanti ci sono in sperimentazione, sempre in vista dell’autunno?
In questo momento, secondo le
agenzie specializzate, ci sono oltre 800 prodotti in varie fasi di sviluppo nel
mondo, tra cui oltre 200 diversi vaccini, quasi 250 antivirali diretti e quasi
400 farmaci di altro genere. I numeri sono cresciuti rapidamente fino
all’estate del 2020, per poi progressivamente assestarsi, e a inizio 2021 i
prodotti in sviluppo erano già oltre 700, a suggerire che le aziende potrebbero
aver realizzato il loro massimo sforzo innovativo e che ora puntino più che
altro alla verifica della reale efficacia dei principi attivi progettati.
Novità sui
vaccini?
È interessante notare, a proposito
dei vaccini, che mentre noi ci confrontiamo solo con prodotti a Rna e a
Dna/vettore basati su biotecnologie con pochissimi precedenti, su scala globale
questi approcci rappresentano una minoranza, di fatto una cinquantina di
prodotti a fronte di una stragrande maggioranza di vaccini contenenti il virus
inattivato o la proteina spike preformata.
Cosa pensa
del ‘movimento cure domiciliari’? Il gruppo è stato fondato da primari di
Ematologia come Luigi Cavanna, primari di Malattie Infettive, direttori di
Cardiologia, docenti di farmacologia e tanti medici di Medicina Generale. Quali
sono le sue considerazioni?
Moltissimi medici malgrado le
difficoltà fin dall’inizio di questa crisi curano i loro pazienti Covid
assistendoli spesso direttamente al domicilio, prestandosi a seguirli a
distanza, con enorme disponibilità e senza curarsi di orari di lavoro, giornate
festive o altro. Nell’era della connessione globale è stato naturale iniziare a
riunirsi in gruppi su piattaforme web, spesso anche semplici chat di whatsapp,
fino ad arrivare a organizzazioni strutturate come il Movimento Ippocrate o il
Comitato Cura Domiciliare Covid, per citare le due maggiori iniziative sul
suolo nazionale. L’esperienza di ognuno di questi medici si fonda sulla cura
diretta di decine e spesso centinaia di persone con Covid e insegna che
iniziare alcuni trattamenti ai primi sintomi, spesso senza nemmeno attendere
l’esito del test diagnostico (come l’approccio del Mario Negri sostiene da
dicembre 2020), si rivela di regola cruciale per evitare il rischio che la
malattia progredisca. Il lavoro di questi medici, per quanto abbia fin qui
ricevuto scarsa visibilità mediatica, è di importanza fondamentale per
ristabilire la salute e in non pochi casi salvare la vita di tante persone in
difficoltà anche a causa della riorganizzazione emergenziale della sanità, che
ancora oggi rende per molti difficile accedere ai servizi territoriali. Questo
si riflette ovviamente anche in una minore pressione sulle strutture di
ricovero. Per tutti questi motivi sarebbe sensato valorizzare queste esperienze
recependole integralmente in una strategia aggiornata di gestione del Covid che
metta al primo posto le cure appropriate e tempestive.
* da ilfattoquotidiano - 22 Agosto 2021
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