«Se pensate che il peggio sia passato, se pensate che la situazione all’aeroporto sia tragica, vi sbagliate di grosso. Finita la crisi militare comincerà quella economica. Con le banche chiuse, senza accesso ai finanziamenti stranieri, c’è da aspettarsi una catastrofe umanitaria e un’ondata di migranti». Le parole di Ajmal Ahmadi, il governatore della Banca Centrale Afghana in fuga, suonano peggio di una condanna. Eppure sono allo stesso tempo una delle poche speranza rimaste all’Occidente per non vedere vent’anni di investimenti e sacrifici finire nelle fogne della storia. Il ragionamento, espresso anche dal presidente Joe Biden a più riprese, è lineare: l’Afganistan si reggeva sugli aiuti internazionali, se i talebani vogliono evitare il collasso economico e la conseguente esplosione sociale, devono rispettare l’impegno ad un «governo inclusivo» e moderare certi loro atteggiamenti verso donne e diritti umani. Cioè, dato il ritiro, l’influenza americana da «bastone e carota», diventa solo «carota». Il problema per gli afghani che hanno creduto nei valori occidentali è che probabilmente non basterà. I conti sono solo in apparenza a favore dell’Occidente.
I conti
Vediamoli. L’ex Stato filoamericano e i talebani assieme incassavano rispettivamente 2,5 e 1,5 miliardi: mezzo miliardo dalla droga, un miliardo dalle miniere il resto dalle dogane. Sul lato uscite, però, l’Afghanistan del presidente in fuga Ashraf Ghani contava su un budget di circa 8 miliardi l’anno di cui 6 erano donazioni. Il grosso delle spese (e degli aiuti) andava all’apparato militare: circa 5 miliardi. I talebani, invece, finanziavano la loro guerriglia con 1,5 miliardi. Le due parti in conflitto spendevano quindi un totale di quasi dieci miliardi di cui la guerra assorbiva il 60%. Se il miraggio del «governo inclusivo» (formula magica quanto vaga suggerita a Doha dagli americani) dovesse realizzarsi è facile che le spese militari precipitino. Vero è che i poliziotti dovranno rimanere o essere sostituiti; non tutti i soldati (e tanto meno i combattenti talebani) potranno essere smobilitati per non alimentare rivolte; in compenso non ci sarà bisogno di acquistare armi per parecchi anni a venire. Il risparmio può arrivare a circa 3 miliardi così che al nuovo Emirato talebano servirebbero più o meno 7 miliardi per sostituire (con meno spese belliche) l’attuale macchina statale.
Il ruolo delle Ong
Un peso importante nell’economia veniva delle agenzie umanitarie e da centinaia di Ong che non passavano dalle casse pubbliche, ma che comunque contribuivano a far funzionare tutto. Ad esempio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pronte 500 tonnellate di farmaci e strumentazione sanitarie, ma non riesce a portarle in Afghanistan perché non trova un velivolo disponibile ad atterrare nel Paese. Ammesso e non concesso che gli aiuti umanitari continuino a fluire anche verso un Emirato talebano, mancherebbero comunque tre miliardi l’anno di aiuti soprattutto Usa perché l’Afghanistan talebano resti povero com’era quello filoamericano. Sono questi tre miliardi (più gli aiuti umanitari) la «carota» su cui conta l’Occidente per avere ancora influenza sul futuro del Paese: troppi burqa vorrà dire meno pozzi. Ai talebani non converrà, è la speranza dell’Occidente.
L’economia informale
Tutti questi dati sono in parte nei bilanci governativi verificati dai consiglieri americani, in parte stimati delle Nazioni Unite. Il limite tanto dell’allarme dell’ex governatore della Banca Centrale di Kabul quanto delle speranze di Biden e dell’Occidente tutto è che solo il 10 per cento degli afghani ha un conto in banca e oltre l’80 per cento dell’economia è informale, sfugge ai calcoli del Pil. Un esempio: l’export afghano è ufficialmente inferiore a un miliardo, meno del confinante e poverissimo Tajikistan che però ha un quarto degli abitanti. Difficile da credere a meno che si considerino il contrabbando come un effetto inevitabile di 40anni di guerra. Il discredito del governo filoamericano viene anche dal non aver fatto nulla per cambiare la situazione.
Le donazioni
I talebani, con i loro mezzi brutali, potrebbero invece riuscire a ridurre la vasta area di corruzione e recuperare risorse. Altri miliardi possono venire dai donatori del Golfo, i cui giornali scrivono che soffocare l’Afghanistan togliendo gli aiuti sarebbe un errore. Altri ancora dalla Cina interessata a sfruttare finalmente i diritti che vanta sulle miniere di rame, ma anche contrattarne di nuove per zinco e terre rare. Mentre guardiamo alle tragedie dell’aeroporto, i talebani costruiscono già il loro apparato amministrativo. L’ex capo della loro «commissione economica» a Doha è diventato governatore della Banca Centrale, Haji Mohammad Idris. I dipendenti del ministero delle Finanze hanno fatto sapere di essere al lavoro. Il primo Emirato tra il 1996 e il 2001 riuscì a ridurre la violenza interna e a garantire stabilità economica. Avevano un perfetto controllo del territorio tanto che fermarono (in cambio di aiuti) anche la coltivazione dell’oppio. Chi crede di cambiarli con una sola «carota» da tre miliardi, li sta sottovalutando.
* da corriere.it - 24 agosto 2021
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