30 luglio 2018

Lega e PD si oppongono sui migranti. Ma vanno d’accordo quando si parla di petrolio



Due flussi importanti scorrono dall’Africa all’Europa, da Sud a Nord. Il primo flusso porta persone a decine di migliaia, almeno un milione di migranti provenienti dall’Africa subsahariana a partire dal 2010, il secondo flusso porta idrocarburi, sia gas che petrolio per il valore di circa 50mld di dollari al mese (cifre del 2017).

Le sinistre neoliberiste europee (tipo Pd) e le destre nazionaliste (tipo Lega) hanno opinioni molto diverse sulla gestione del flusso dei migranti e sull’accoglienza, ma hanno lo stesso approccio sul flusso di petrolio (così come sul flusso di altre risorse naturali). Neoliberisti e nazionalisti hanno in comune una sostanziale indifferenza rispetto all’interazione tra flussi di materie prime e movimenti migratori. La storia suggerisce invece che i popoli africani hanno tratto alterni benefici dal flusso delle risorse naturali del continente africano, con ricadute importanti anche sui movimenti migratori.
I movimenti nazionalisti prevalenti in tutti gli stati postcoloniali africani fino agli anni 70 sono riusciti ad imporre alle società straniere il controllo statale sulle risorse naturali

La produzione di petrolio, per esempio, è stata nazionalizzata per la prima volta in Algeria nel 1971 e poi nel resto dell’Africa (così come nel resto del mondo). Il controllo sull’industria petrolifera, combinato con l’aumento dei prezzi delle materie prima negli anni 70 ha giovato alle entrate statali e all’occupazione. A sua volta ciò ha favorito una stabilizzazione dei flussi migratori dall’Africa (la maggior parte dei movimenti migratori dopo il 1973 prese la forma di ricongiungimento familiare).

Flussi migratori non controllati sono invece ripresi dalla seconda metà anni 80 insieme all’esplosione del debito pubblico, alla diminuzione repentina dei prezzi del petrolio (il “controshock”) e all’imposizione di politiche di “aggiustamento strutturale” che hanno indebolito la capacità degli Stati africani di sostenere una popolazione in crescita.
Il legame esistente tra flussi di petrolio e flussi migratori è stato riconfermato anche di recente. Il flusso dei migranti da un Paese esportatore di petrolio come la Nigeria verso l’Europa si è impennato a partire dal 2014, insieme alla dimezzamento al contemporaneo dimezzamento dei prezzi del petrolio. In generale, il processo di globalizzazione neoliberista a partire dagli anni 80 ha generato due tipologie di effetti negativi sul flusso di idrocarburi, e di riflesso sui movimenti migratori.

Il primo è stato un’inversione del rapporti di forza tra Stati e capitalismo internazionale che ha aiutato le società multinazionali a corrompere, aggirare regole, approfittare della debolezza e dell’impreparazione delle burocrazie statale, facendosi scudo di un diritto internazionale strutturalmente favorevole agli investitori privati.
Nel caso dell’Italia questo è dimostrato dagli episodi di corruzione di Eni in Algeria e in Congo, fino al caso clamoroso delle “madre di tutte le tangenti” di 1,2 miliardi di euro per il giacimento Opl 245 in Nigeria. Queste tangenti monumentali servono ad ottenere condizioni, non solo fiscali, a tutto vantaggio delle imprese multinazionali e a discapito degli interessi di breve e lungo periodo delle popolazioni locali.

L’altro effetto deleterio è stato l’instabilità dei prezzi internazionali delle materie prime, in particolare del petrolio. Dagli anni 80 le oscillazioni di prezzo sono state molto più repentine che in passato. Il prezzo del petrolio, una volta monopolizzato dalle multinazionali e poi dall’Opec, non ha più avuto punti di riferimento (è scomparsa una “struttura del prezzo”). Queste oscillazioni distruggono la capacità degli Stati produttori di pianificare e di investire, e hanno come conseguenza cicli di arricchimento rapido, seguiti da fasi devastanti di immiserimento.

Qualsiasi politica dei flussi migratori che non prenda di petto anche la regolazione del flusso delle risorse naturali poggia su fondamenta fragili. Alcune soluzioni, in parte già pensate dalla stessa Comunità europea (oggi Ue) negli anni 70, opportunamente ripensate, potrebbero tornare utili. La prima soluzione è che l’Ue promuova accordi statali di lungo periodo per la fornitura di materie prime, non solo di idrocarburi.
Per fare questo i Paesi Ue dovrebbero creare delle società totalmente pubbliche (quelle private non si fanno dettare i termini commerciali) che firmino contratti di lungo periodo per la fornitura di varie risorse naturali. In alternativa l’Ue potrebbe favorire la creazione di un meccanismo che stabilizzi i redditi dalle esportazioni di risorse naturali e minerarie dei paesi africani (come aveva già fatto, sia pur in modo incompleto, negli anni 70 con l’introduzione dello Stabex e del Sysmin). L’idea sarebbe quella di convertire gli aiuti allo sviluppo (che hanno condizionalità politica, e dunque sono meno allettanti degli aiuti cinesi) con misure strutturali che garantiscano continuità di reddito ai Paesi africani e capacità di pianificare il proprio sviluppo.

Per regolare i flussi di risorse naturali tra i due continenti servirebbe anche un quadro di regole che scoraggi l’arbitrio delle società multinazionali. Ue e Unione africana potrebbero stabilire un “codice di condotta per gli investimenti” che tra l’altro impedisca il controllo da parte di società straniere di quote maggioritarie dei giacimenti, che imponga studi fattibilità ambientale e blocchi il “rimpatrio” dei profitti ottenuti in Africa.
Per impedire che l’ipnosi collettiva per ogni sbarco di migranti si trasformi sempre di più in razzismo diffuso bisogna offrire alternative radicali di cooperazione politica ed economica a lungo termine tra i due continenti. Se non superiamo il dogma europeo del libero commercio e della protezioni degli investimenti privati come unica soluzione alle questioni dello sviluppo una cooperazione di lungo periodo non ci sarà mai.

* Storico, esperto di politiche energetiche
 da ilfattoquotidiano  - 30  luglio 2018

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