Sinistra. Se
si vuole tornare a parlare alle masse popolari che ci hanno abbandonato la
prima regola sarebbe di non insultarle accusandole di fascismo o razzismo
Si ha
l’impressione che, lasciati alle spalle i proponimenti iniziali, della
sconfitta del 4 marzo si sia attenuata o smarrita l’eco a sinistra. E anche le
rovinose sconfitte successive non suscitano reazioni oltre la riaffermazione
sostanziale della giustezza della propria linea. Non viene detto
esplicitamente, ma è implicito nella riproposizione delle certezze del passato
recente e nello stesso modo di valutare il successo degli avversari.
Se ci si
convince di vivere in un paese fascista e razzista (inserito a sua volta in un
continente ancor più razzista, se la questione dei migranti è la cartina di
tornasole di tutto il resto) la cosa non potrà che risolversi nella
proposizione di una sorta di «suprematismo morale» da parte di una minoranza
che considera il resto del mondo «disumano», che crede di detenere in esclusiva
intelligenza e umanità, che nega alla stragrande maggioranza del popolo
italiano ed europeo.
Una
minoranza che sembra aver smarrito perfino la curiosità intellettuale di studiare
con serietà gli avversari e le loro motivazioni, di comprenderne natura e
logica, che è o dovrebbe essere compito preliminare di ogni battaglia politica,
accontentandosi di ripetere luoghi comuni stereotipati e consolatori. Un facile
alibi per questo atteggiamento è sicuramente rappresentato dall’onnipresenza
mediatica dei proclami di Matteo Salvini, che è ormai invadente e pervasiva
quanto quella che fu di Matteo Renzi.
CON UNA
DIFFERENZA fondamentale,
però: Renzi si rivolgeva a una Italia in gran parte immaginaria, fatta di
«eccellenze», brevetti, «startup», benestanti felici coi figlioli all’Erasmus.
Salvini invece si rivolge a un’Italia fin troppo reale, impoverita e
incattivita, che esprime un bisogno di protezione e sicurezza. Sicurezza che è una
dimensione globale e avvertita come tale dalla popolazione, che significa in
primo luogo sicurezza del lavoro e nel lavoro, sicurezza sul terreno della
salute e dell’assistenza, e che solo in ultima analisi significa anche tutela
dell’ordine pubblico.
A mio avviso
il vero fenomeno che abbiamo di fronte è quello di una gigantesca sostituzione
di rappresentanza sociale, che sta colmando i vuoti che da almeno due decenni
la sinistra aveva lasciato e che ora sta giungendo a compimento. È un fenomeno
che rischia di assumere una dimensione epocale (non solo italiana) e di segnare
una fase non breve della nostra storia. Non giunge per la verità inatteso, anzi
si può considerare per qualche aspetto uno sbocco tardivo, venendo dopo un
quarto di secolo di impoverimento costante, di erosione tangibile delle
garanzie dello stato sociale, di stagnazione permanente e di perdita di
prospettive credibili per le generazioni più giovani.
Temo che
anche il mitico «nuovo centrosinistra», che viene spesso evocato con poca fantasia,
sia ormai una prospettiva usurata, sia perché è stata una politica ormai
rigettata dagli elettori, sia perché la nuova alleanza di governo è già, in
termini sociali, una replica dell’alleanza tra classi e ceti, tra aree diverse
della popolazione, tra interessi che possono convergere e che furono propri di
quella esperienza.
OVVIAMENTE
CON FORTI influenze
della destra nel discorso pubblico e nel senso comune, perché questa è l’aria
che si respira, molto diversa da quella degli anni Sessanta. Ma senza un segno
univoco di destra, con una compresenza di tematiche su cui si potrebbe
convenire e di propositi inquietanti: in effetti revisione della legge Fornero,
del Jobs act, della «Buona Scuola», reddito di cittadinanza, erano
provvedimenti che «la sinistra» avrebbe dovuto assumere per riacquistare un
minimo di credibilità presso quelli che in un tempo lontano furono i suoi
serbatoi elettorali. E anche andare in Europa con la spina dorsale, senza
essere succubi di mitologie illusorie, sarebbe stata cosa buona e giusta.
LE INDUBBIE
VENATURE razziste che
emergono nel discorso pubblico sono conseguenza abbastanza inevitabile
dell’egemonia consegnata alle destre. Vanno rifiutate e combattute,
possibilmente senza continuare a schierarsi col potere oppressivo di Bruxelles.
Ma sarebbe anche lecito interrogarsi su quanto le questioni riconducibili al
«razzismo» abbiano un peso effettivo nei comportamenti elettorali di una platea
così vasta, e personalmente estenderei il dubbio anche alla questione dei
migranti, forse non così cruciale nel motivare le scelte rispetto a quanto
suggerirebbe la propaganda ossessiva di Salvini e di altri governanti in
Europa.
In ogni
caso, continuare a trattare Di Maio e Salvini da ignoranti o trogloditi è
sbagliato e sterile.
Invocare fronti antifascisti in assenza di fascismo è fuorviante e consolatorio; le sue implicazioni politiche Union sacrée repubblicana) sarebbero esiziali. Si tratterebbe, fra l’altro, di una singolare forma di fascismo, senza squadre armate, senza partito unico, in un paese dove si vota quasi ogni domenica e dove i più grandi organi di stampa sono avversi al governo, dove la tv pubblica è un monocolore del principale partito di opposizione e la tv privata è proprietà di un altro partito fuori della maggioranza.
Invocare fronti antifascisti in assenza di fascismo è fuorviante e consolatorio; le sue implicazioni politiche Union sacrée repubblicana) sarebbero esiziali. Si tratterebbe, fra l’altro, di una singolare forma di fascismo, senza squadre armate, senza partito unico, in un paese dove si vota quasi ogni domenica e dove i più grandi organi di stampa sono avversi al governo, dove la tv pubblica è un monocolore del principale partito di opposizione e la tv privata è proprietà di un altro partito fuori della maggioranza.
Con buona
pace di Umberto Eco, il fascismo non è una categoria dello spirito ma è un
fenomeno storico dalle caratteristiche ampiamente studiate e discusse, e va
evitato l’abuso di «false analogie» di cui un tempo eravamo abituati a
diffidare. Aggiungerei che ricondurre automaticamente ogni forma di razzismo al
fascismo è un dispositivo mentale che semplifica e banalizza entrambi i termini
in questione. Non tiene conto fra l’altro della lunga tradizione coloniale, e
in essa del ruolo delle democrazie coloniali, le più radicali e risolute nella
pratica della discriminazione e dell’apartheid. Se si vuole tornare a parlare
alle masse popolari che ci hanno abbandonato, la prima regola sarebbe di non
insultarle accusandole di fascismo o razzismo.
QUESTA NUOVA
DESTRA si potrà
combattere solo contendendole la capacità di parlare ai ceti popolari.
Servirebbe un vero Partito del lavoro, collegato a sindacati, organizzazioni
esistenti, corpi intermedi. Purtroppo è qualcosa a cui la sinistra nel suo
complesso appare oggi del tutto inadeguata, tanto nel balbettio di una sinistra
«riformista» artefice della situazione nella quale ci troviamo, quanto negli
automatismi di una sinistra «radicale» che non riesce a dismettere l’abitudine
di immaginarsi solo come assemblaggio di minoranze e monoculture, incapace di
rivolgersi alla società italiana nel suo complesso.
Tutta la
sinistra, moderata, radicale o antagonista, è stata percepita dalla maggioranza
dei cittadini come estranea o nemica. Se non si parte da questa dolorosa
consapevolezza sarà molto difficile proporsi di voltare pagina e ripensare
tutto, con umiltà. Presidiare il tre-quattro per cento, destinato a farsi
sempre più precario, può risolversi alla fine in uno sforzo inutile e
superfluo, perché le classi popolari troveranno comunque il modo di farsi
rappresentare, con o senza una sinistra.
* Storico e docente universitario italiano. Ha insegnato presso l'Università di
Trieste, ed oggi presso il Dipartimento di storia dell'Università di Siena.
da il manifesto 30 giugno 2018
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