Le tre alternative ai disastri ambientali: rassegnarsi, adattarsi,
pianificare. La terza soluzione significa darsi l’obiettivo di non occupare
nuovi spazi
di Giorgio Nebbia *
«Le tre
alternative ai disastri ambientali: rassegnarsi, adattarsi, pianificare. La
terza soluzione significa darsi l’obiettivo di non occupare nuovi spazi» «L’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire;
finirà per distruggere la Terra»: queste parole furono pronunciate
da Albert Schweitzer, il grande pensatore premio Nobel per la pace, nel 1953,
quando le bombe atomiche esplodevano nell’atmosfera. Esplosione che stavano
diffondendo atomi radioattivi e cancerogeni su tutto il pianeta. Nei decenni
successivi l’umanità ha conosciuto un aumento
dei consumi e dell’uso dell’energia e delle risorse naturali, accompagnato da
un corrispondente aumento della diffusione nel pianeta di rifiuti solidi e
liquidi e di gas come anidride carbonica, metano, composti clorurati, eccetera,
che stanno modificando la composizione chimica dell’atmosfera con conseguente
aumento della temperatura media del pianeta. Tale aumento provoca alterazioni nella circolazione delle acque e le
conseguenze si vedono sotto forma di più frequenti violente tempeste o lunghe
siccità, di avanzata dei deserti in alcune zone, di frane e allagamenti in
altre.
Gli effetti negativi dei cambiamenti climatici potrebbero essere contenuti
attraverso una limitazione delle attività umane inquinanti, ma qualsiasi
tentativo in questa direzione è finora fallito perché danneggia potenti
interessi economici, gli affari, le finanze, le imprese, i produttori di
petrolio e di energia o gli sfruttatori delle terre agricole e delle foreste. Già novanta anni fa i biologi matematici Volterra e Kostitzin avevano spiegato che l’intossicazione
dell’ambiente dovuto ai rifiuti delle attività dei viventi porta ad un
inevitabile sofferenza e declino delle popolazioni che tale ambiente occupano,
tanto più rapido quanto maggiore è la produzione di rifiuti. E quarant’anni fa
Commoner («Il cerchio da chiudere») aveva scritto che i guasti ambientali sono
proporzionali al “consumo” procapite di merci e risorse naturali e alla
conseguente produzione di scorie. Temi poi ripresi dal libro sui «Limiti
alla crescita». Tutte cose ridicolizzate o dimenticate o ignorate dal potere
economico e dalle autorità politiche perché disturbano il ”normale” andamento
delle cose.
Che fare
per, almeno, attenuare costi e dolori? Ci sono varie alternative: quella
attuale è andare avanti come al solito ignorando il fatto (certo) che ci
saranno sempre più frequenti disastri ambientali
come quelli che hanno devastato la bella Nuova Orleans, o le Filippine, o le
fortunate isole e coste turistiche, e rimediando i danni con i soldi. In
Italia si invoca lo stato di calamità naturale che consiste nel chiedere soldi
pubblici per risarcire chi perde la casa, e i beni o i raccolti, o i macchinari
delle fabbriche, o per ricostruire strade e ferrovie e scarpate e ponti
travolti dalle intemperie o dalle frane e alluvioni. Soldi che vengono poi
spesi in genere per ricostruire negli stessi posti che saranno di sicuro
devastati da eventi futuri. Lo stesso vale per i disastri
mondiali per i quali le comunità locali o internazionali spendono soldi per
risarcire i danni che le persone hanno subito, per l’imprevidenza dei loro
governi i quali non hanno preso le precauzioni— tanto per cominciare la
limitazione delle emissioni di gas serra — che avrebbero salvato vite e
beni; poco conta se aumentano i dolori umani e le morti che non entrano nelle
contabilità nazionali e aziendali, poco conta se l’agire “come al solito”
provoca migrazioni di masse umane in fuga dall’avanzata dei deserti, dalle zone
devastate da cicloni e frane, provoca conflitti senza fine fra popoli che si
contendono terre in cui vivere.
La seconda
alternativa è offerta dalla recente invenzione
della resilienza, cioè dell’adattamento alle prevedibili catastrofi senza fare
niente per prevenirle. Si sa che le tempeste tropicali e l’aumento del
livello degli oceani potranno danneggiare le strutture costiere: pensiamo
allora a costruire edifici su piloni, barriere nel mare per proteggere le rive;
si sa che le più frequenti e intense piogge provocano frane e alluvioni:
pensiamo a costringere i fiumi dentro canali e argini artificiali. la fantasia
dei resilientisti è senza fine nel suggerire come
adattarsi alla ”cattiveria” della natura e del pianeta senza ricorrere a
divieti che rallenterebbero il glorioso cammino della crescita economica.
Ci sarebbe un’altra soluzione; dal momento che si può interrogare la natura
e prevedere come circoleranno le acque e le masse d’aria in conseguenza di
quello che stiamo facendo al pianeta e dal momento che non sembra ci sia
nessuna ragionevole possibilità di frenare le modificazioni in atto, cioè di consumare
meno energia o di rallentare i consumi, si potrebbe cercare almeno di non
occupare gli spazi, pure economicamente appetibili, dove si manifesteranno le
forze distruttive della natura. La
chiamavano pianificazione territoriale ed
era insegnata anche in cattedre universitarie ed era stata raccomandata e
spiegata da studiosi, ed era perfino stata ascoltata, se pure non attuata, da
alcuni uomini politici illuminati e presto spazzati via. Perché perfino il
minimo rimedio della pianificazione presuppone lo
“sgradevole” coraggio di dire di no, di vietare la presenza umana nelle zone
ecologicamente fragili ed esposte a frane, marosi, tempeste e ad altri eventi
catastrofici.
Il divieto di costruire opere permanenti, ad esempio a meno di cento [trecento, ndr] metri
di distanza dalla riva del mare o dei fiumi, per permettere alle
onde e alle acque di recuperare i propri spazi naturali, una minima azione di
prevenzione, priva l’uso delle zone più appetibili e ne danneggia i
proprietari; un divieto inaccettabile perfino allo stato che, teoricamente,
sarebbe il proprietario di parte delle coste e rive, come dimostra la frenesia
di vendere le spiagge ai “concessionari”, dopo che essi hanno già devastato le
zone ricevute in affitto.
La pianificazione e la
prevenzione non rendono niente ma anzi costano e disturbano la proprietà
(privata ma anche pubblica); poco conta che tali costi permettano “ad altri” di
risparmiare costi futuri. Nessuna ragionevole persona, nella società
del libero mercato, deve spendere neanche un soldo pensando “ad altri”, non al
prossimo vicino e tanto meno al prossimo del futuro. Quando ci fanno vedere
alla televisione le file di cadaveri, le persone disperate nel fango, al più
rivolgiamo un pensiero a “quei poveretti”, fra una forchettata e l’altra. E
così, con allegra incoscienza e ignoranza di singoli e di governanti, si corre
spensieratamente verso un ancora più sgradevole futuro.
*
comune-info.net da il
manifesto , 12 luglio 2018
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