di Fernado D‘Aniello *
L’incontro
tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan ha prodotto un’intesa
sulla situazione nel Nord-Est della Siria; il presidente russo ha poi avuto un colloquio telefonico con al-Assad, come per estendere a Damasco i termini
dell’intesa bilaterale. L’intesa si muove nella direzione indicata in questi
anni dal gruppo di Astana ed è animata dalla forte intenzione russa di chiudere
la campagna siriana nei prossimi mesi, gestendo la questione turca ai confini e
sancendo la fine del conflitto con il ripristino, più o meno integrale, della
sovranità di Damasco sul territorio siriano e, soprattutto, l’egemonia di Mosca
sull’area, che Trump sembra disposto ad accettare anche a
rischio di innervosire pezzi dell’establishment statunitense.
I termini
dell’accordo prevedono, infatti, che sia “preservata l’unità politica e
l’integrità territoriale della Siria” – formulazione ormai divenuta classica
nei comunicati del gruppo di Astana –, ma, allo stesso tempo, la Turchia
ottiene che sia garantita la presenza di una fascia di sicurezza profonda 32
km. Al momento in cui scriviamo, l’accordo è in fase di realizzazione e prevede
una breve sospensione dell’offensiva turca per il ritiro delle forze curde
(sospensione già violata in più di un’occasione da parte di Ankara). Proprio
dal 23 ottobre, la Russia si sta facendo carico, inoltre, di cooperare tanto
con siriani quanto con i turchi nella gestione del confine tra i due Paesi: è
la dimostrazione di come Mosca voglia accelerare per governare e concludere la
crisi.
Al-Assad,
rispettando il più classico gioco delle parti, ha condannato l’attacco turco.
Il presidente siriano, nei fatti, però accetta l’operazione turca, tant’è che
le operazioni congiunte tra le forze siriane e quelle russe si svolgeranno al
confine siriano, fuori dalla zona interessata dalle operazioni militari
turche: quando nei comunicati e nei documenti ufficiali si parla di ritiro di
forze straniere, il riferimento va sostanzialmente agli americani. Damasco
perde 32 km, ma riguadagna il Nord-Est della Siria: l’Amministrazione autonoma
del Nord-Est della Siria, infatti, ha dovuto cedere e accettare l’ingresso
dell’esercito lealista in alcune zone e si appresta a trattare con il regime da
una posizione molto più debole rispetto allo scenario procedente all’attacco
turco.
Il rapporto
tra Ankara e Damasco è però tutt’altro che saldo. Il modello preso a
riferimento è l’accordo di Adana tra Siria e Turchia del 1998:
i due Stati accettano una cooperazione nella lotta al terrorismo ‘curdo’,
riconoscendosi pienamente sovrani sui propri territori, con il particolare non
secondario che, a differenza di vent’anni fa, la Turchia annette una lingua di
terra siriana e risolve autonomamente il problema. Tuttavia, proprio la
complicata storia tra Ankara e Damasco, i limiti dell’accodo del 1998 e il
fragile equilibro sul campo non fanno escludere che, in futuro, proprio
l’equilibrio raggiunto sotto mediazione russa non possa essere oggetto di nuove
crisi tra i due Stati. Le forze curde, sempre come nel 1998, sono considerate
esclusivamente terroriste e trattate come tali: le loro forze militari vanno
smantellate e le loro organizzazioni politiche soppresse.
Com’è noto
Erdoğan punta a ricollocare i profughi siriani – divenuti un problema
considerevole in Turchia – nella fascia di sicurezza, alterando così il
complicato equilibrio demografico della zona. In questo modo sarebbe interrotta
la continuità della maggioranza curda che si estende dal Sud-Est della Turchia
al Nord-Est della Siria: nei fatti per i Curdi
si tratterebbe (si tratta, visto che le operazioni sono già in corso) di una
nuova ed enorme Kirkuk, una realtà storicamente multinazionale, ma a
maggioranza curda, sottoposta, nei decenni passati, ad un feroce processo di
arabizzazione. Come Trump, anche i russi non sembrano intenzionati a vedere
nelle forze curde nient’altro che un ostacolo ai loro piani.
Al di là di
quello che si può pensare dell’esperimento democratico dell’amministrazione
autonoma del Nord-Est della Siria, questa operazione – che nei mesi scorsi l’Unione Europea aveva già contestato –
difficilmente produrrà una stabilizzazione dell’area. Preannuncia invece solo
nuovi, potenzialmente devastanti, conflitti nazionali ed etnici. Proprio la
storia di Kirkuk e le campagne di arabizzazione di Saddam dovrebbero insegnare che quella strada
rinnova e accresce tensioni e problemi: a Kirkuk appena due anni fa, dopo il
referendum della Regione sull’indipendenza, ci fu lo scontro tra Curdi e
iracheni e la nuova occupazione della città da parte delle truppe di
Baghdad.
È anche il
caso che gli europei riflettano a fondo sui rischi di questa politica e,
soprattutto, sull’attuale processo di inasprimento nazionalista del conflitto:
la questione potrebbe radicalizzarsi persino in Europa, con le varie comunità
pronte a replicare anche altrove gli scontri in corso nel Levante. Anche questo
è un copione, purtroppo, già visto nei nostri Paesi.
Su questo
punto, poi, è necessario fare un’ulteriore considerazione: tra Siria e Iraq è
ripreso il movimento dei rifugiati. Secondo le prime stime si parla già di
centinaia di migliaia di persone in fuga. Anni fa questa zona fu interessata
dall’espansione dello Stato islamico e da un’ondata di rifugiati (circa
un terzo della popolazione della Regione) verso Arbil, Dohuk e le altre città
del Kurdistan iracheno, molti dei quali sono ancora
lì. Adesso, per liberarsi dei profughi ‘arabi’, Erdoğan costringe i ‘curdi’
alla fuga, di nuovo verso oriente, verso la Regione autonoma. Che non è più in
grado di sostenere un nuovo sforzo nell’accoglienza di un così elevato numero
di persone (gli arrivi sono stati ad oggi migliaia ogni giorno, secondo le
stime della fondazione Barzani). E con l’Iraq che è nuovamente attraversata da
proteste, la situazione potrebbe esplodere, aprendo così una nuova crisi
umanitaria e nuove rotte di profughi in viaggio proprio verso l’Europa.
Nei giorni
scorsi, inoltre, la neoministra della Difesa tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer, che è anche
presidente della CDU, ha lanciato l’iniziativa di una fascia di
sicurezza sotto controllo internazionale. Al di là delle valutazioni sulla
novità di questo tipo di intervento per l’Europa e la Germania, la proposta sembra
al momento tardiva – la Turchia ha lanciato l’attacco per restare – e nei
colloqui russo-turchi il riferimento a possibili interventi internazionali è
stato limitato alla sola gestione dei rifugiati da parte dell’ONU
e delle sue agenzie. La proposta tedesca, almeno per il momento, sembra morta
sul nascere: perché questa impressione sia smentita il governo tedesco dovrebbe
fare propria la proposta di Kramp-Karrenbauer, cercare partner disposti ad impiegare
truppe, mezzi e risorse (a partire da Parigi e, ancor più importante data
l’area di intervento, Roma) vista l’impossibilità della Germania di farsi
carico da sola della missione e avviare gli indispensabili passaggi
internazionali. Di tutto ciò al momento non c’è traccia.
Infine,
Idlib, l’ultima roccaforte della resistenza ad al-Assad. È la grande assente
dei colloqui di questi giorni, e non è un caso che il presidente
siriano si sia recato nei giorni scorsi proprio su quella parte del fronte.
Se ha dovuto accettare l’intervento turco, appare evidente che al-Assad abbia
chiesto esplicite garanzie proprio sulla chiusura di quel fronte e la sua piena
reintegrazione sotto la sovranità siriana. Per far funzionare davvero la regia
di Mosca e dichiarare conclusa la guerra Idlib andrebbe adesso restituita alle
forze lealiste. Solo così per i tre leader sarebbe possibile chiudere la fase
militare e aprire quella della ricostruzione del Paese. Sul cui esito,
purtroppo, visti gli eventi di questi giorni, non c’è da essere ottimisti.
* da www.treccani.it
- 25 ottobre 2019
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