25 ottobre 2019

L’accordo sulla Siria tra Putin e Erdoğan



L’incontro tra Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan ha prodotto un’intesa sulla situazione nel Nord-Est della Siria; il presidente russo ha poi avuto un colloquio telefonico con al-Assad, come per estendere a Damasco i termini dell’intesa bilaterale. L’intesa si muove nella direzione indicata in questi anni dal gruppo di Astana ed è animata dalla forte intenzione russa di chiudere la campagna siriana nei prossimi mesi, gestendo la questione turca ai confini e sancendo la fine del conflitto con il ripristino, più o meno integrale, della sovranità di Damasco sul territorio siriano e, soprattutto, l’egemonia di Mosca sull’area, che Trump sembra disposto ad accettare anche a rischio di innervosire pezzi dell’establishment statunitense. 
I termini dell’accordo prevedono, infatti, che sia “preservata l’unità politica e l’integrità territoriale della Siria” – formulazione ormai divenuta classica nei comunicati del gruppo di Astana –, ma, allo stesso tempo, la Turchia ottiene che sia garantita la presenza di una fascia di sicurezza profonda 32 km. Al momento in cui scriviamo, l’accordo è in fase di realizzazione e prevede una breve sospensione dell’offensiva turca per il ritiro delle forze curde (sospensione già violata in più di un’occasione da parte di Ankara). Proprio dal 23 ottobre, la Russia si sta facendo carico, inoltre, di cooperare tanto con siriani quanto con i turchi nella gestione del confine tra i due Paesi: è la dimostrazione di come Mosca voglia accelerare per governare e concludere la crisi. 

Al-Assad, rispettando il più classico gioco delle parti, ha condannato l’attacco turco. Il presidente siriano, nei fatti, però accetta l’operazione turca, tant’è che le operazioni congiunte tra le forze siriane e quelle russe si svolgeranno al confine siriano, fuori dalla zona interessata dalle operazioni militari turche: quando nei comunicati e nei documenti ufficiali si parla di ritiro di forze straniere, il riferimento va sostanzialmente agli americani. Damasco perde 32 km, ma riguadagna il Nord-Est della Siria: l’Amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria, infatti, ha dovuto cedere e accettare l’ingresso dell’esercito lealista in alcune zone e si appresta a trattare con il regime da una posizione molto più debole rispetto allo scenario procedente all’attacco turco. 

Il rapporto tra Ankara e Damasco è però tutt’altro che saldo. Il modello preso a riferimento è l’accordo di Adana tra Siria e Turchia del 1998: i due Stati accettano una cooperazione nella lotta al terrorismo ‘curdo’, riconoscendosi pienamente sovrani sui propri territori, con il particolare non secondario che, a differenza di vent’anni fa, la Turchia annette una lingua di terra siriana e risolve autonomamente il problema. Tuttavia, proprio la complicata storia tra Ankara e Damasco, i limiti dell’accodo del 1998 e il fragile equilibro sul campo non fanno escludere che, in futuro, proprio l’equilibrio raggiunto sotto mediazione russa non possa essere oggetto di nuove crisi tra i due Stati. Le forze curde, sempre come nel 1998, sono considerate esclusivamente terroriste e trattate come tali: le loro forze militari vanno smantellate e le loro organizzazioni politiche soppresse. 
Com’è noto Erdoğan punta a ricollocare i profughi siriani – divenuti un problema considerevole in Turchia – nella fascia di sicurezza, alterando così il complicato equilibrio demografico della zona. In questo modo sarebbe interrotta la continuità della maggioranza curda che si estende dal Sud-Est della Turchia al Nord-Est della Siria: nei fatti per i Curdi si tratterebbe (si tratta, visto che le operazioni sono già in corso) di una nuova ed enorme Kirkuk, una realtà storicamente multinazionale, ma a maggioranza curda, sottoposta, nei decenni passati, ad un feroce processo di arabizzazione. Come Trump, anche i russi non sembrano intenzionati a vedere nelle forze curde nient’altro che un ostacolo ai loro piani. 
Al di là di quello che si può pensare dell’esperimento democratico dell’amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria, questa operazione – che nei mesi scorsi l’Unione Europea aveva già contestato – difficilmente produrrà una stabilizzazione dell’area. Preannuncia invece solo nuovi, potenzialmente devastanti, conflitti nazionali ed etnici. Proprio la storia di Kirkuk e le campagne di arabizzazione di Saddam dovrebbero insegnare che quella strada rinnova e accresce tensioni e problemi: a Kirkuk appena due anni fa, dopo il referendum della Regione sull’indipendenza, ci fu lo scontro tra Curdi e iracheni e la nuova occupazione della città da parte delle truppe di Baghdad. 

È anche il caso che gli europei riflettano a fondo sui rischi di questa politica e, soprattutto, sull’attuale processo di inasprimento nazionalista del conflitto: la questione potrebbe radicalizzarsi persino in Europa, con le varie comunità pronte a replicare anche altrove gli scontri in corso nel Levante. Anche questo è un copione, purtroppo, già visto nei nostri Paesi. 
Su questo punto, poi, è necessario fare un’ulteriore considerazione: tra Siria e Iraq è ripreso il movimento dei rifugiati. Secondo le prime stime si parla già di centinaia di migliaia di persone in fuga. Anni fa questa zona fu interessata dall’espansione dello Stato islamico e da un’ondata di rifugiati (circa un terzo della popolazione della Regione) verso Arbil, Dohuk e le altre città del Kurdistan iracheno, molti dei quali sono ancora lì. Adesso, per liberarsi dei profughi ‘arabi’, Erdoğan costringe i ‘curdi’ alla fuga, di nuovo verso oriente, verso la Regione autonoma. Che non è più in grado di sostenere un nuovo sforzo nell’accoglienza di un così elevato numero di persone (gli arrivi sono stati ad oggi migliaia ogni giorno, secondo le stime della fondazione Barzani). E con l’Iraq che è nuovamente attraversata da proteste, la situazione potrebbe esplodere, aprendo così una nuova crisi umanitaria e nuove rotte di profughi in viaggio proprio verso l’Europa. 

Nei giorni scorsi, inoltre, la neoministra della Difesa tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer, che è anche presidente della CDU, ha lanciato l’iniziativa di una fascia di sicurezza sotto controllo internazionale. Al di là delle valutazioni sulla novità di questo tipo di intervento per l’Europa e la Germania, la proposta sembra al momento tardiva – la Turchia ha lanciato l’attacco per restare – e nei colloqui russo-turchi il riferimento a possibili interventi internazionali è stato limitato alla sola gestione dei rifugiati da parte dell’ONU e delle sue agenzie. La proposta tedesca, almeno per il momento, sembra morta sul nascere: perché questa impressione sia smentita il governo tedesco dovrebbe fare propria la proposta di Kramp-Karrenbauer, cercare partner disposti ad impiegare truppe, mezzi e risorse (a partire da Parigi e, ancor più importante data l’area di intervento, Roma) vista l’impossibilità della Germania di farsi carico da sola della missione e avviare gli indispensabili passaggi internazionali. Di tutto ciò al momento non c’è traccia.

Infine, Idlib, l’ultima roccaforte della resistenza ad al-Assad. È la grande assente dei colloqui di questi giorni, e non è un caso che il presidente siriano si sia recato nei giorni scorsi proprio su quella parte del fronte. Se ha dovuto accettare l’intervento turco, appare evidente che al-Assad abbia chiesto esplicite garanzie proprio sulla chiusura di quel fronte e la sua piena reintegrazione sotto la sovranità siriana. Per far funzionare davvero la regia di Mosca e dichiarare conclusa la guerra Idlib andrebbe adesso restituita alle forze lealiste. Solo così per i tre leader sarebbe possibile chiudere la fase militare e aprire quella della ricostruzione del Paese. Sul cui esito, purtroppo, visti gli eventi di questi giorni, non c’è da essere ottimisti.

*  da www.treccani.it -  25 ottobre 2019

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