di Alessandro Codegoni *
In venti anni le centrali a carbone
nel mondo sono raddoppiate in potenza. In gran parte sono in Asia. Ma qui i
cambiamenti climatici potrebbero impattare sul loro funzionamento.
Quando Greta
Thunberg va nei consessi internazionali ad arrabbiarsi con i grandi della Terra
per la loro indifferenza ai problemi climatici, che peseranno enormemente sulla
sua generazione e le successive, riceve così tanti (spesso ipocriti) applausi
dagli stessi che ha appena finito di maltrattare, e tali fiumi di promesse e
rassicurazioni, che sembra che ormai la ragazza non abbia più nulla di cui
preoccuparsi.
Poi, però,
quando si va a guardare i dati reali, si scopre come stiano veramente le cose:
Greta, e noi con lei, veniamo presi in giro. Per esempio, andando sul sito
dell’associazione Carbon Brief che censisce le infrastrutture per lo
sfruttamento della risorsa “ammazza clima” per eccellenza, il carbone, si vede
come nel 2000 operassero nel mondo 1.065 GW di centrali a carbone, nel
2015, l’anno dell’accordo di Parigi sul clima, erano diventate 1.920 GW,
quasi un raddoppio (vedi mappa in alto).
Certamente,
viene da pensare, da quel momento in poi il mondo, viste le promesse fatte,
avrà certo bloccato questa crescita esponenziale della fonte più dannosa per il
clima. Ma niente da fare: fra il 2015 e il 2018 la loro potenza è cresciuta
di altri 100 GW (che forniranno praticamente la stessa produzione elettrica
dei circa 500 GW di solare installati nello stesso periodo), arrivando a 2.024
GW. E altri 232 GW sono già in cantiere e 306 GW sono programmati per i
prossimi decenni. A parziale consolazione, si prevede che nello stesso periodo
si avrà la chiusura di 300 GW delle centrali a carbone oggi in attività.
Per le centrali
a gas (che emetterebbero a parità di energia circa la metà della CO2 di
quelle a carbone, se non fosse che il metano è di per sé un potente gas serra),
non è così facile trovare dati così dettagliati, ma la potenza globale attuale
di questi impianti è di circa 1.600 GW, che dovrebbero diventare, secondo la International Energy Agency, 2.700 GW nel 2040.
Insomma, il
mondo sembra tutt’altro che intenzionato a mollare i combustibili fossili,
neanche nella generazione elettrica, che, fra i vari settori di uso
dell’energia, sarebbe pure quello che più si presta alla transizione alle
rinnovabili.È vero che Europa e Usa stanno mollando il carbone (da 324 a
261 GW il primo, e da 174 a 154 GW il secondo tra il 2015 e il 2018), anche se
in gran parte programmando di sostituirlo con centrali a gas. Ma
purtroppo non altrettanto sembra voler fare l’Asia: la quota importante
dell’aggiunta di centrali a combustibili fossili avverrà lì, specialmente nei
giganti demografici Cina e India. Dal 2000 a oggi la Cina è passata da
200 a 900 GW di centrali a carbone (con un aumento di 150 GW dopo il 2015),
mentre l’India da 61 è arrivata ad una potenza di 220 GW (con un aumento
di 30 GW dopo il 2015). Inoltre la Cina ha in costruzione o programmate altre
197 GW di centrali entro il 2030, l’India circa 100 e il resto dell’Asia 147
GW.
Quindi, i
potenti che rassicurano Greta, almeno finora, nonostante discorsi,
manifestazioni, accordi e promesse, sembrano incapaci di contenere la
crescita dell’uso dei combustibili che, ormai tutti sanno e ammettono,
stanno destabilizzando il clima globale. Ci riuscirà la natura a fermarli?
Quest’ultima
speranza viene da una ricerca condotta dall’ingegnere dell’energia Jeffrey
Bielicki, della The Ohio State University, e colleghi, appena pubblicata da Energy & Environmental Science, dove si avverte come,
la valanga di centrali termiche, quindi a carbone, ma anche nucleari e a gas,
che stanno per investire i paesi asiatici, potrebbero in buona parte finire nei
guai per mancanza di quell’acqua che gli è indispensabile per il
raffreddamento. I rapporti fra cambiamento climatico e problemi alle
centrali termiche non sono inediti: nella famosa ondata di calore del 2003
in Europa, per esempio, quattro centrali nucleari francesi furono “messe al
minimo” (non possono essere “spente” altrimenti il reattore fonderebbe) perché
i fiumi che le raffreddavano erano troppo caldi, e questa situazione si è
ripetuta nel 2003, 2006, 2015, 2018, e pure nel luglio di quest’anno, quando a
chiudere, nel mese dei record di temperatura, è stata la centrale di Golfech,
sulla Garonna, quando la temperatura dell’aria ha superato i 40 °C. Ora Bieliki
e colleghi hanno provato ad anticipare cosa succederà al 2030-2040 alle
centrali a carbone asiatiche, se le temperature globali salissero di 1,5 °C, 2
°C o 3°C. Il cambiamento climatico avrà impatto sulle centrali in due
modi: diminuirà la disponibilità di acqua in certe aree dell’Asia (e in
altre la aumenterà), mentre aumenterà la temperatura dell’acqua
disponibile, rendendo più difficile il raffreddamento.
Incrociando
gli scenari idrologici e di temperatura, con la presenza di nuove centrali a
carbone, la conclusione è che a essere più penalizzati saranno Mongolia,
la parte centrale dell’India, le aree interne e meridionali della Cina e
soprattutto l’Indocina, Vietnam in testa. In tutte queste zone il tasso di
utilizzazione delle centrali a carbone, diminuirà, rispetto a quello
storico, fra il 40% e il 20%, a secondo dei vari scenari. Ma ci saranno anche effetti
opposti o contraddittori: per esempio la Mongolia sarà più penalizzata da
uno scenario di risalita delle temperature di 1,5 °C che da uno di 3 °C, perché
in quest’ultimo caso quella, che è una regione semiarida, dovrebbe veder
aumentate le precipitazioni, invece il Pakistan, il nord della Cina e la costa
orientale dell’India, vedranno il fattore di utilizzo delle centrali a carbone
migliorare, in tutti gli scenari, fra il 20 e il 40%, per un possibile aumento
della precipitazioni. La conclusione degli autori è che chi pianifica lo
sviluppo energetico di queste aree è bene che tenga conto anche di questi
fattori.
Nelle aree
più a rischio, sarebbe
meglio evitare di installare centrali termiche convenzionali, perché (oltre
agli ulteriori danni climatici) rischiano in futuro di rivelarsi un pessimo
affare per lo scarso utilizzo. Meglio puntare di più su solare ed eolico.
Oppure progettarle per l’uso di sistemi di raffreddamento ad aria, che sono
comunque più costosi e meno efficienti di quelli ad acqua.
Nelle regioni
con più abbondanza di acqua, invece, le nazioni asiatiche potrebbero, e
forse dovrebbero, cominciare a prendere in considerazione l’uso di sistemi di
rimozione (e successivo stoccaggio geologico) della CO2 dai fumi di queste
centrali, visto che questi sistemi, a loro volta, richiedono molta acqua per
funzionare, e sarebbero quindi proponibili solo dove la risorsa idrica si sa
che resterà abbondante anche in futuro.
Noi invece
speriamo in un diverso scenario: che i continui crolli di prezzo delle
rinnovabili e dello stoccaggio, mettano del tutto fuori mercato gli impianti
a carbone, nucleari e a gas, risolvendo così alla radice i tanti problemi
connessi all’installazione di centrali termiche.
* da www.qualenergia.it - 2 ottobre 2019
Nessun commento:
Posta un commento