5 ottobre 2019

Il boom delle centrali a carbone in Asia e la questione dell’acqua



In venti anni le centrali a carbone nel mondo sono raddoppiate in potenza. In gran parte sono in Asia. Ma qui i cambiamenti climatici potrebbero impattare sul loro funzionamento.



Quando Greta Thunberg va nei consessi internazionali ad arrabbiarsi con i grandi della Terra per la loro indifferenza ai problemi climatici, che peseranno enormemente sulla sua generazione e le successive, riceve così tanti (spesso ipocriti) applausi dagli stessi che ha appena finito di maltrattare, e tali fiumi di promesse e rassicurazioni, che sembra che ormai la ragazza non abbia più nulla di cui preoccuparsi.

Poi, però, quando si va a guardare i dati reali, si scopre come stiano veramente le cose: Greta, e noi con lei, veniamo presi in giro. Per esempio, andando sul sito dell’associazione Carbon Brief che censisce le infrastrutture per lo sfruttamento della risorsa “ammazza clima” per eccellenza, il carbone, si vede come nel 2000 operassero nel mondo 1.065 GW di centrali a carbone, nel 2015, l’anno dell’accordo di Parigi sul clima, erano diventate 1.920 GW, quasi un raddoppio (vedi mappa in alto).
Certamente, viene da pensare, da quel momento in poi il mondo, viste le promesse fatte, avrà certo bloccato questa crescita esponenziale della fonte più dannosa per il clima. Ma niente da fare: fra il 2015 e il 2018 la loro potenza è cresciuta di altri 100 GW (che forniranno praticamente la stessa produzione elettrica dei circa 500 GW di solare installati nello stesso periodo), arrivando a 2.024 GW. E altri 232 GW sono già in cantiere e 306 GW sono programmati per i prossimi decenni. A parziale consolazione, si prevede che nello stesso periodo si avrà la chiusura di 300 GW delle centrali a carbone oggi in attività.
Per le centrali a gas (che emetterebbero a parità di energia circa la metà della CO2 di quelle a carbone, se non fosse che il metano è di per sé un potente gas serra), non è così facile trovare dati così dettagliati, ma la potenza globale attuale di questi impianti è di circa 1.600 GW, che dovrebbero diventare, secondo la International Energy Agency, 2.700 GW nel 2040.

Insomma, il mondo sembra tutt’altro che intenzionato a mollare i combustibili fossili, neanche nella generazione elettrica, che, fra i vari settori di uso dell’energia, sarebbe pure quello che più si presta alla transizione alle rinnovabili.È vero che Europa e Usa stanno mollando il carbone (da 324 a 261 GW il primo, e da 174 a 154 GW il secondo tra il 2015 e il 2018), anche se in gran parte programmando di sostituirlo con centrali a gas. Ma purtroppo non altrettanto sembra voler fare l’Asia: la quota importante dell’aggiunta di centrali a combustibili fossili avverrà lì, specialmente nei giganti demografici Cina e India. Dal 2000 a oggi la Cina è passata da 200 a 900 GW di centrali a carbone (con un aumento di 150 GW dopo il 2015), mentre l’India da 61 è arrivata ad una potenza di 220 GW (con un aumento di 30 GW dopo il 2015). Inoltre la Cina ha in costruzione o programmate altre 197 GW di centrali entro il 2030, l’India circa 100 e il resto dell’Asia 147 GW.
Quindi, i potenti che rassicurano Greta, almeno finora, nonostante discorsi, manifestazioni, accordi e promesse, sembrano incapaci di contenere la crescita dell’uso dei combustibili che, ormai tutti sanno e ammettono, stanno destabilizzando il clima globale. Ci riuscirà la natura a fermarli?

Quest’ultima speranza viene da una ricerca condotta dall’ingegnere dell’energia Jeffrey Bielicki, della The Ohio State University, e colleghi, appena pubblicata da Energy & Environmental Science, dove si avverte come, la valanga di centrali termiche, quindi a carbone, ma anche nucleari e a gas, che stanno per investire i paesi asiatici, potrebbero in buona parte finire nei guai per mancanza di quell’acqua che gli è indispensabile per il raffreddamento. I rapporti fra cambiamento climatico e problemi alle centrali termiche non sono inediti: nella famosa ondata di calore del 2003 in Europa, per esempio, quattro centrali nucleari francesi furono “messe al minimo” (non possono essere “spente” altrimenti il reattore fonderebbe) perché i fiumi che le raffreddavano erano troppo caldi, e questa situazione si è ripetuta nel 2003, 2006, 2015, 2018, e pure nel luglio di quest’anno, quando a chiudere, nel mese dei record di temperatura, è stata la centrale di Golfech, sulla Garonna, quando la temperatura dell’aria ha superato i 40 °C. Ora Bieliki e colleghi hanno provato ad anticipare cosa succederà al 2030-2040 alle centrali a carbone asiatiche, se le temperature globali salissero di 1,5 °C, 2 °C o 3°C. Il cambiamento climatico avrà impatto sulle centrali in due modi: diminuirà la disponibilità di acqua in certe aree dell’Asia (e in altre la aumenterà), mentre aumenterà la temperatura dell’acqua disponibile, rendendo più difficile il raffreddamento.

Incrociando gli scenari idrologici e di temperatura, con la presenza di nuove centrali a carbone, la conclusione è che a essere più penalizzati saranno Mongolia, la parte centrale dell’India, le aree interne e meridionali della Cina e soprattutto l’Indocina, Vietnam in testa. In tutte queste zone il tasso di utilizzazione delle centrali a carbone, diminuirà, rispetto a quello storico, fra il 40% e il 20%, a secondo dei vari scenari. Ma ci saranno anche effetti opposti o contraddittori: per esempio la Mongolia sarà più penalizzata da uno scenario di risalita delle temperature di 1,5 °C che da uno di 3 °C, perché in quest’ultimo caso quella, che è una regione semiarida, dovrebbe veder aumentate le precipitazioni, invece il Pakistan, il nord della Cina e la costa orientale dell’India, vedranno il fattore di utilizzo delle centrali a carbone migliorare, in tutti gli scenari, fra il 20 e il 40%, per un possibile aumento della precipitazioni. La conclusione degli autori è che chi pianifica lo sviluppo energetico di queste aree è bene che tenga conto anche di questi fattori.

Nelle aree più a rischio, sarebbe meglio evitare di installare centrali termiche convenzionali, perché (oltre agli ulteriori danni climatici) rischiano in futuro di rivelarsi un pessimo affare per lo scarso utilizzo. Meglio puntare di più su solare ed eolico. Oppure progettarle per l’uso di sistemi di raffreddamento ad aria, che sono comunque più costosi e meno efficienti di quelli ad acqua.

Nelle regioni con più abbondanza di acqua, invece, le nazioni asiatiche potrebbero, e forse dovrebbero, cominciare a prendere in considerazione l’uso di sistemi di rimozione (e successivo stoccaggio geologico) della CO2 dai fumi di queste centrali, visto che questi sistemi, a loro volta, richiedono molta acqua per funzionare, e sarebbero quindi proponibili solo dove la risorsa idrica si sa che resterà abbondante anche in futuro.

Noi invece speriamo in un diverso scenario: che i continui crolli di prezzo delle rinnovabili e dello stoccaggio, mettano del tutto fuori mercato gli impianti a carbone, nucleari e a gas, risolvendo così alla radice i tanti problemi connessi all’installazione di centrali termiche.

* da www.qualenergia.it  - 2 ottobre 2019

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