Ennesima polemica a
sinistra, scatenata dal fatto che Stefano Fassina ha chiamato la sua
associazione culturale “Patria e Costituzione”, attirandosi subito l’accusa di
“rossobrunismo”. Chi la lancia non sa quel che dice, anche se l’uso di quel
termine è discutibile, ma per ragioni del tutto diverse
(di Carlo Clericetti-pubblicato su Repubblica.it il 18 settembre
2018) *
La sinistra
dispersa e litigiosa ha trovato un nuovo motivo di divisione e di insulti.
L’occasione è stata la costituzione di una nuova associazione culturale,
promossa da Stefano Fassina con Alfredo D’Attorre e un nutrito gruppo di
intellettuali, che ha lo scopo di incidere sul dibattito politico costruendo
una cultura per la sinistra dell’attuale momento storico. Ma a scatenale le
polemiche è stato soprattutto il nome, che Fassina ha scelto nonostante i dubbi
avanzati da alcuni partecipanti alla discussione: “Patria e Costituzione”.
Tanto è bastato per attirare l’insulto di moda, peggiore anche di “populismo” e
“sovranismo”, ossia quello di “rossobrunismo”, cioè un ibrido tra posizioni di
estrema sinistra ed estrema destra.
Se usare il
termine “Patria” basta per essere accusati addirittura di filo-nazismo (le
“camicie brune”, come si ricorderà, erano appunto i nazisti), bisogna dire che
il dibattito politico è scaduto a livelli inferiori a quelli di un Bar Sport.
Noti rossobruni, in questo caso, sarebbero per esempio Che Guevara (con il suo
“Patria o muerte”), Palmiro
Togliatti, Lelio Basso e tantissimi altri che trovano posto nel pantheon della
sinistra storica. E persino la rivista dell’associazione dei partigiani
(l’Anpi), come ha ricordato Fassina,
si chiama “Patria indipendente”.
Sgombrato il
campo dagli insulti lanciati non si sa se per ignoranza o malafede, ci si può
chiedere perché rispolverare un termine che da molti anni non fa più parte del
vocabolario della sinistra. L’intenzione di Fassina e compagni è che i due
termini vadano strettamente legati: la “Patria” è quella disegnata dalla nostra
Costituzione, i cui principi dovrebbero essere prevalenti rispetto a tutto,
anche a quello che viene deciso in sede di Unione europea. Il che ha una
logica. E’ ormai assodato che il modello di società prefigurato dai trattati e
dall’organizzazione dell’Unione europea è diverso da quello che la nostra
Costituzione si propone di realizzare (vedere in proposito, per esempio, i
libri di Luciano Barra Caracciolo e di Vladimiro Giacché, nel cui intervento è sintetizzato
il problema).
Ancora oggi
noi ci riconosciamo in quel modello sociale, con cui si pone il lavoro alla base
dell’inserimento nella società, e si aggiunge subito dopo che “è compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il modello che viene
disegnato dai trattati e dagli accordi dell’Unione europea, e soprattutto il
modo in cui è stato gestito nella realtà e che le riforme proposte
allontanerebbero ulteriormente dal nostro, pone come obiettivi prioritari il
controllo dell’inflazione, il pareggio di bilancio, il divieto di intervento
dello Stato, la tutela della concorrenza. Una delle formule applicative di quel
modello prevede non solo che esista una certa quantità di disoccupazione, ma
addirittura che sia opportuna.
La
differenza sostanziale consiste nel fatto che questo modello si propone di far
funzionare al meglio un certo tipo di economia, e la società deve adattarsi al
suo funzionamento; il nostro modello prefigura invece un certo tipo di società,
e sta poi alla politica individuare quali meccanismi economici siano in grado
di realizzarla. Queste impostazioni si riflettono anche sulla struttura
istituzionale: nel primo modello sono i tecnici – o meglio, le regole
instaurate in base alle prescrizioni di una determinata teoria economica – a
stabilire le compatibilità. I politici possono scegliere una linea vagamente
progressista o più conservatrice, ma solo all’interno delle compatibilità
definite, alle quali “there is no alternative”.
La storia ci
dice che invece le alternative ci sono, e i sistemi democratici sono nati
appunto per far esercitare ai cittadini la scelta tra di esse. Chi dunque
continua a proporre “più Europa” sta di fatto promovendo in modo implicito una
riforma costituzionale ben più radicale di quella bocciata dalla maggioranza
degli italiani il 4 dicembre del 2016, perché riguarda non solo il modo di
funzionamento dello Stato, ma anche i valori fondamentali espressi nella nostra
Carta e la stessa logica del funzionamento della democrazia.
Gli
europeisti di sinistra – da Yanis Varoufakis a Luciana Castellina – concordano
quasi del tutto con questa analisi, ma pensano che si debba combattere per
cambiare l’Europa, un obiettivo che Fassina & c. considerano
irrealizzabile. Come è noto, per cambiare i trattati serve l’unanimità dei
paesi membri: che non si raggiungerà mai, non solo per ragioni ideologiche,
dato che il modello europeo è stato disegnato secondo i principi
dell’ordoliberismo tedesco, ma anche perché vari paesi – Germania in primis –
sono favoriti dall’attuale assetto, e dunque a cambiarlo non ci pensano
proprio.
Un’uscita
dall’Europa o anche solo dall’euro sarebbe rischiosa (a meno che non fosse
concordata: ma anche di questo non si vede la probabilità). Ma se vogliamo
salvare il nostro modello sociale bisogna stabilire che ciò che prescrive la
nostra Costituzione viene prima delle norme europee. Il significato di “Patria
e Costituzione” è dunque questo: non è questione di nazionalismo o sovranismo,
ma della scelta di conservare il modello di società che la nostra democrazia ha
scelto.
Ciò detto,
il concetto di “Patria” non è il più appropriato a rappresentare questa linea.
Lo usarono i partigiani, è vero, ma in quella fase serviva qualcosa attorno a
cui potessero raccogliersi visioni politiche molto diverse, unite dall’obiettivo
della lotta al fascismo e della conquista della democrazia, in un paese
occupato militarmente da eserciti stranieri; e non c’era ancora la Costituzione
che ha fissato i valori della nostra convivenza civile. E al patriottismo di
Togliatti non era certo estranea la necessità di affermare che il suo partito,
accusato di prendere ordini dall’Unione sovietica, aveva prima di tutto a cuore
il bene del paese. In tutto il periodo successivo il termine è stato usato
soprattutto dalla destra, e questo lo ha certamente connotato ed è una cosa che
può respingere una parte di potenziali elettori progressisti. Ma non è per
questo che lo ritengo sbagliato come identificativo di una iniziativa di
sinistra. “Patria”, come “nazione”, rimanda a un’identità che non si basa su
una scelta razionale, ma sull’essere nati in un certo posto e sulla presunzione
che ciò implichi una determinata cultura distinta dalle altre. Che cosa c’entra
questo con una scelta politica di sinistra? Chi è di sinistra si sente più
vicino all’italiano Matteo Salvini o al francese Jean-Luc Mélenchon?
All’italiano Silvio Berlusconi o alla tedesca Sahra Wagenknecht?
Se
l’obiettivo è un determinato tipo di società, l’identità che va costruita è
politica, non quella che deriva dalla nascita in un certo luogo: con
quest’ultima sì rischia di sconfinare nel nazionalismo “ideologico”, mentre ai
fini del progetto politico descritto il nazionalismo è puramente contingente e
strumentale, per non farsi travolgere dall’altro modello sociale. Non è una differenza
di poco conto. E d’altronde la Costituzione è certo basata su valori, ma è un
atto di diritto positivo, non ha nessun aspetto trascendente né ne ha bisogno.
Invece quello di “Patria” è un concetto trascendente, al contrario dello
“Stato” che è una costruzione politica.
Riassumiamo.
Primo.
L’Unione europea è stata costruita non solo con un deficit di democrazia, ma
soprattutto in base a un modello sociale diverso da quello prefigurato dalla
nostra Costituzione. Le scelte seguite all’introduzione dell’euro e la gestione
della crisi iniziata dieci anni fa hanno segnato un’evoluzione verso il peggio,
e le riforme di cui si sta discutendo enfatizzerebbero questa evoluzione
negativa.
Secondo. Non
esistono le condizioni per un cambiamento di rotta, né è prevedibile che
possano verificarsi in futuro.
Terzo. In
questa situazione, lo Stato nazionale è il solo ambito che renda possibile
perseguire democraticamente il nostro modello sociale, quello disegnato dalla
Costituzione.
Chi poi
obiettasse che il progetto dell’unità europea travalica gli interessi
nazionali, è invitato ad esaminare con più attenzione il comportamento degli
altri paesi membri, nelle politiche economiche e ancor di più in quelle con
l’estero. Se riuscirà a rintracciare un solo barlume di solidarietà a scapito
degli interessi nazionali di ognuno sarà stato certo più bravo di noi. Questo
non significa che dobbiamo isolarci, né impegnarci in una conflittualità
permanente. Ma tra queste ipotesi e l’assistere al progressivo disfacimento del
nostro modello sociale ci deve ben essere una via intermedia, e questa via
consiste nel pretendere rispetto e la possibilità di seguire la nostra strada,
e su queste basi impostare la cooperazione con gli altri paesi, senza dubbio
necessaria. Se poi chi si pone in questa prospettiva farà a meno di utilizzare
il concetto di “Patria”, avrà evitato molti possibili equivoci.
Resta poi un
altro serio problema, e cioè che bisognerebbe avere governi che facciano le
cose giuste, cosa che non accade da lunghissimo tempo. Ma la soluzione non è
farsi governare dagli altri, come molti personaggi “illuminati” della nostra
storia hanno creduto (agendo di conseguenza). “Gli altri” fanno gli interessi
di chi li deve eleggere, non i nostri, e se qualcuno avesse avuto bisogno di prove
dovrebbe già averne avute più che a sufficienza.
*da
nuke.carloclericetti.it
(nota mm : il contributo pubblicato sul
tema non comporta da parte mia la condivisione completa dell’intervento )
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