In difesa della sanità
pubblica
di Nerina
Dirindin *
Ricordate John
Q, film del 2002 di denuncia del sistema sanitario statunitense? Racconta
la storia (vera) di un bambino che ha bisogno di un intervento salvavita, un
trapianto di cuore, ma non viene inserito nella lista di attesa perché
l’assicurazione non copre le enormi spese per l’intervento (oltre 250.000
dollari) e la famiglia fatica a trovare i soldi che l’ospedale pretende in
contanti.
Vorresti
vivere in un Paese in cui se tuo figlio avesse improvvisamente bisogno di un
trapianto di cuore potresti essere costretto a lasciarlo morire, nonostante la
medicina sia assolutamente in grado di salvarlo? Perché esistono Paesi che
consentono tali drammatiche situazioni? Non sarebbe preferibile adottare
sistemi di protezione sanitaria che eliminino all’origine la possibilità di
trovarsi di fronte a un tale rischio? Pare non sia così facile. Soprattutto
perché chi prende le decisioni occupa posizioni molto meno svantaggiate di
quella di John Q.
Proviamo a
spiegarci con un esempio. Se ognuno di noi non conoscesse la propria condizione
economica e di salute (compreso il fatto di nascere figlio di un milionario o
di un diseredato, in un Paese sviluppato o in un Paese povero, con una buona
dotazione di salute o con disabilità fisiche e cognitive) e dovesse esprimersi
a favore di uno dei tanti sistemi di welfare che esistono, è molto probabile che
si esprimerebbe a favore di un sistema che tratta tutti alla stessa maniera,
indipendentemente dalla condizione economica e sociale del singolo. Il rischio
di trovarsi concretamente in una posizione drammatica renderebbe infatti ogni
individuo immediatamente consapevole della necessità di minimizzare la
probabilità di trovarsi in un Paese che non si preoccupa di chi non può pagarsi
le cure mediche. Il caso John Q non sarebbe possibile.
Facciamo un
altro esempio. Se ogni cittadino italiano fosse costretto a considerare il
rischio concreto di dover risiedere (o nascere) in una regione con un servizio
sanitario mal organizzato è molto probabile che voterebbe a favore di politiche
di welfare che si propongano di migliorare le condizioni generali dei servizi
pubblici in tutte le regioni italiane. Guarderebbe probabilmente con minor
favore le politiche volte a sanzionare chi è inefficiente perché, pur
considerandole un incentivo al miglioramento della qualità dei servizi, si
renderebbe conto che penalizzano i cittadini delle regioni meno mature
aggiungendo, alla bassa qualità dei servizi, anche il peso delle maggiori
imposte (necessarie per coprire i disavanzi). Un tema delicato e difficile da
dipanare, ma che spesso viene affrontato con la prospettiva di chi sta meglio e
non di chi sta peggio.
Chi non si
preoccupa di chi sta peggio è perché sa di non appartenere a quella categoria.
Se un qualunque individuo non avesse la certezza di non essere svantaggiato,
perché completamente ignorante rispetto alla propria posizione di partenza, è
molto probabile che preferirebbe salvaguardare il proprio futuro dichiarandosi
a favore di sistemi che non sono indifferenti ai bisogni di chi sta peggio e
alla necessità di garantire a tutti gli stessi servizi.
La malattia
può colpire tutti e se, oltre alla sofferenza, devi anche affrontare costi
catastrofici (o anche solo rilevanti) è possibile che il bilancio familiare non
regga: i sistemi sanitari devono essere strutturati in modo da garantire a
tutti, indistintamente, le cure necessarie. Se coperti dal velo di ignoranza,
tutti vorremmo vivere in un Paese che adotta politiche sanitarie che non
lasciano soli coloro che potrebbero aver bisogno di cure mediche: il Servizio
sanitario nazionale risponde a tale requisito.
È la
soluzione migliore.
Quanto
potrebbe costare un ricovero?
Nel 2016,
il SSN ha erogato oltre 72.000 ricoveri ad alto costo, ovvero con tariffa superiore
a 20.000 euro per caso di ricovero (di cui 13.600 con tariffa superiore a
50.000 euro).
Fra gli
altri, sono stati erogati:
• 16.051
ricoveri per interventi su valvole cardiache, con cateterismo (tariffa: 24.
675 euro);
• 12.623
ricoveri per interventi su valvole cardiache, senza cateterismo (tariffa:
20.487 euro);
• 5.113
ricoveri per trapianti di midollo osseo (tariffa: 59.806 euro);
• 103
ricoveri per trapianto di cuore (tariffa: 62.602 euro);
• 7.469
ricoveri per ricoveri su neonati gravemente immaturi (tariffa: 30.738 euro);
• 1.154
ricoveri per trapianto di fegato (tariffa: 62.648 euro).
Fonte: elaborazione dati Ministero della salute, Rapporto
Sdo, 2016
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Uno dei
luoghi comuni più abusati nel dibattito sul sistema sanitario italiano è il
costo – considerato eccessivo e insostenibile – della nostra sanità pubblica e
la conseguente necessità di contenerne la spesa e introdurre forme alternative
di finanziamento, sostitutive o integrative di quelle pubbliche.
I dati
disponibili mostrano invece, ormai da molto tempo e senza alcuna possibilità di
smentita, che la spesa sanitaria pubblica dell’Italia non può essere
considerata eccessiva né rispetto agli altri Paesi dell’Europa continentale, né
rispetto alle dinamiche degli ultimi anni, né rispetto al finanziamento annuale
dello Stato. I dati OECD indicano per il 2017 una spesa sanitaria pubblica
nettamente inferiore a quella dei Paesi con i quali è ragionevole confrontarsi:
6,6% del PIL, tre punti in meno di Germania (9,6%) e Francia (9,5%) e molto meno
di Svezia (9,1%), Olanda (8,2%) e Regno Unito (7,6%). Solo Spagna e Grecia
hanno una spesa inferiore alla nostra (rispettivamente 6,3% e 5,1%) oltre a
molti Paesi dell’Est. Persino i Paesi con un sistema sanitario affidato in
maniera rilevante al finanziamento privato spendono, per la sanità pubblica,
molto più di noi (7,7% in Svizzera).
Nonostante
il basso livello di spesa, l’Italia occupa i primi posti fra i Paesi sviluppati
quanto a livelli di efficienza in termini relativi rispetto ai Paesi con i migliori
risultati. Ormai da tempo, tutti gli studi sulla performance complessiva dei
sistemi sanitari moderni confermano il giudizio positivo sull’Italia. Dal
rapporto dell’OMS del 2000 (che colloca l’Italia al secondo posto al mondo,
dopo la Francia), alle analisi dell’OECD del 2010 (l’Italia è superata solo da
Francia e Islanda) fino alle recenti valutazioni di Bloomberg (che pongono
l’Italia al quarto posto al mondo), tutti gli studi concludono con un giudizio
più che positivo, soprattutto rispetto alle risorse impiegate. Alcuni lavori
possono essere considerati parziali (quanto a variabili considerate) o
eccessivamente sintetici, ma pare innegabile che il nostro sistema sia uno dei
pochi che riesce a produrre buoni risultati con poche risorse.
Non solo il livello,
ma anche la dinamica della spesa pubblica non è di per sé motivo di
preoccupazione. L’insieme degli strumenti di governance introdotti da
oltre un decennio fra lo Stato e le Regioni, puntualmente fatti rispettare dal
Ministero dell’economia, hanno consentito un significativo rallentamento della
dinamica della spesa, tanto che attualmente questa può essere considerata ai
limiti del tollerabile. Con le restrizioni imposte alla sanità pubblica negli
ultimi anni la spesa, rispetto al PIL, è passata dal 6,8% del 2011 al 6,6% del
2017; e la percentuale è destinata a ridursi ulteriormente (per il 2020 è
previsto il 6,3%). Lo stato della finanza pubblica e gli spazi di miglioramento
sono comunque tali da richiedere una continua attenzione al contenimento delle
inappropriatezze e delle inefficienze.
Infine, la
spesa sanitaria pubblica non può essere considerata eccessiva neanche rispetto
al finanziamento annuale. Secondo la Corte dei Conti, nel 2017, «tutte le
Regioni si trovano in sostanziale equilibrio finanziario una volta
contabilizzate le entrate fiscali regionali a copertura della spesa sanitaria».
Inoltre, tra il 2009 e il 2016, le Regioni in Piano di rientro sono passate da
una perdita di oltre un miliardo a un avanzo di circa 750 milioni. Nello stesso
periodo sono stati riassorbiti i disavanzi che derivavano da esercizi
precedenti per poco meno di 2 miliardi. Sono dati che danno la misura del
lavoro svolto da Regioni e Amministrazione centrale per riportare il sistema in
equilibrio.
( L’articolo è
parte del libro È tutta salute. In
difesa della sanità pubblica - Edizioni
Gruppo Abele, 2018 - ).
Nerina
Dirindin è professoressa di economia pubblica e politica sanitaria presso
l’Università di Torino. È stata direttrice generale del Ministero della Sanità,
assessore alla Sanità della Regione Sardegna e senatrice. Tra i suoi libri “È
tutta salute. In difesa della sanità pubblica” (Edizioni Gruppo Abele, 2018),
“Conflitti di interesse e salute. Come industrie e istituzioni condizionano le
scelte del medico” (con Chiara Rivoiro, Il Mulino, 2018), “In buona salute.
Dieci argomenti per difendere la sanità pubblica” (con Paolo Vineis, Einaudi,
2004).
* da volerelaluna.it - 23 dicembre 2018
Leggi anche:
Salute – La
disuguaglianza più odiosa (Controlacrisi.org
20 marzo 2018 )
(nota mm : il contributo pubblicato sul tema non comporta
da parte mia la condivisione completa dell’intervento )
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