Nel saggio «Sinistra e
popolo» (Longanesi), Luca Ricolfi sferza la sinistra, vittima della
«superiorità morale» e dell’europeismo «giacobino», analizzandone la crisi
di Antonio
Polito *
Luca Ricolfi
torna sul luogo del delitto, dove dodici anni fa, con il suo pamphlet Perché
siamo antipatici, constatò il decesso dell’antico rapporto tra sinistra e
popolo. Però stavolta invece che una sola vittima, e cioè la sinistra italiana
spocchiosa, con il «complesso del migliore» e ossessionata dall’anti-
berlusconismo, si trova davanti un’ecatombe: ovunque in Occidente «il popolo
non trova più nella sinistra la sua naturale espressione politica», e un’altra
offerta, detta «populista», è diventata per così dire più popolare. Perché?
Nel suo
nuovo saggio (Sinistra e popolo, Longanesi) Ricolfi analizza molti
possibili cause, con
l’acribia e il gusto per la statistica che ne fanno uno dei più originali
analisti della nostra società. Ma su due punti in particolare introduce nuovi e
convincenti spunti di riflessione. Il primo è, come si sarebbe detto un tempo,
strutturale: la sinistra si è infatti dimostrata perfettamente a suo agio nel
dopoguerra in un habitat economico e sociale che non solo non esiste più ma
potrebbe non esistere mai più. Il che non ci può far escludere che quella
attuale sia anche una crisi finale: perché prima ancora di non sapere dove
andare, la sinistra oggi non sa più dove si trova.
«L’età dell’oro per le forze della sinistra sono stati i cosiddetti glorious thirty, i trent’anni di prosperità che vanno dalla fine della guerra alla grande recessione del 1974-1975». Anni di crescita rapida, più redditi, più consumi e più welfare. Fu un «miracolo», soprattutto nei Paesi usciti sconfitti dalla guerra come l’Italia. Quando però con la crisi petrolifera del ’73 e poi con l’avvio della competizione globale i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi emergenti cominciano a cambiare, esplode la crisi fiscale dello Stato, e inizia il lento ma inesorabile declino dell’Europa. Un po’ alla volta, soprattutto dopo l’ultima Grande Crisi, si diffonde tra la gente l’idea della «fine della crescita». Le nostre società un tempo opulente diventano «a somma zero», per dirla con Lester Thurow: «A fronte di qualcuno che vince c’è sempre qualcuno che perde, perché la torta da spartirsi è limitata e non aumenta nel tempo». Si fa strada la disperata convinzione che i figli avranno un futuro peggiore dei padri. Ma in un clima così, di «stagnazione secolare», può avere ancora un senso la sinistra? In un tempo in cui nessuno crede più che la crescita possa tornare a finanziare il welfare, la grande protezione sociale che la sinistra garantiva al popolo, che ruolo ancora può svolgere?
«L’età dell’oro per le forze della sinistra sono stati i cosiddetti glorious thirty, i trent’anni di prosperità che vanno dalla fine della guerra alla grande recessione del 1974-1975». Anni di crescita rapida, più redditi, più consumi e più welfare. Fu un «miracolo», soprattutto nei Paesi usciti sconfitti dalla guerra come l’Italia. Quando però con la crisi petrolifera del ’73 e poi con l’avvio della competizione globale i rapporti tra Paesi sviluppati e Paesi emergenti cominciano a cambiare, esplode la crisi fiscale dello Stato, e inizia il lento ma inesorabile declino dell’Europa. Un po’ alla volta, soprattutto dopo l’ultima Grande Crisi, si diffonde tra la gente l’idea della «fine della crescita». Le nostre società un tempo opulente diventano «a somma zero», per dirla con Lester Thurow: «A fronte di qualcuno che vince c’è sempre qualcuno che perde, perché la torta da spartirsi è limitata e non aumenta nel tempo». Si fa strada la disperata convinzione che i figli avranno un futuro peggiore dei padri. Ma in un clima così, di «stagnazione secolare», può avere ancora un senso la sinistra? In un tempo in cui nessuno crede più che la crescita possa tornare a finanziare il welfare, la grande protezione sociale che la sinistra garantiva al popolo, che ruolo ancora può svolgere?
Si parlerà
del libro a Tempo di libri sabato 22 aprile alle 15.30 (Sala Courier - Pad. 2),
nell’incontro con lo stesso Luca Ricolfi, Giuliano Pisapia, Marco Damilano
Anche perché
il bisogno di «protezione» che avvertono i ceti popolari, lungi
dall’affievolirsi, si è
piuttosto indirizzato contro ogni forma di competizione che venga dall’esterno.
E quindi chiede cose che la sinistra non può dare, perché la sua cultura nega
alla radice proprio l’esistenza dei pericoli da cui quel bisogno nasce.
Lasciamo la parola a Ricolfi: «La gente pensa che gli immigrati siano un
pericolo? La sinistra le spiega che la diversità è un valore. La gente pensa
che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di
una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La
sinistra le spiega che l’Europa non è il problema, ma la soluzione. La gente
pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La
sinistra le spiega che non si tratta di una guerra, che l’Islam non c’entra
nulla, e che anzi gli attentati potrebbero essere una preziosa occasione per
riprendere la costruzione dell’edificio europeo».
Ma perché la
sinistra, letteralmente, non vede il problema? Perché in entrambi le accezioni,
quella «riformista» e quella «radicale», non ascolta il popolo, come farebbe qualsiasi movimento appena un po’
pragmatico, e come fanno tutti i movimenti «populisti»? È la seconda domanda
cruciale del libro. E qui si torna all’antico vizio del «complesso dei
migliori», alla convinzione cioè di rappresentare la «parte migliore del Paese»,
oggi anche più benestante, che fa chiudere gli occhi di fronte a quella
ritenuta peggiore, ma sicuramente più sofferente.
Per
spiegarne le origini profonde, Ricolfi sferra un attacco frontale a due mostri
sacri, che non mancherà di far discutere.
Il primo è Norberto Bobbio, e il suo fortunatissimo Destra e sinistra.
In quel libro, scrive l’autore, si fissa il paradigma della «superiorità
morale», identificando la sinistra con l’uguaglianza e la destra con
l’ineguaglianza (e di fatto nascondendo il prezzo che il mito dell’eguaglianza
inevitabilmente paga alla libertà, ben spiegato invece da Friedrich von Hayek).
Assegnando infatti alla sinistra un valore (l’uguaglianza) e alla destra un
disvalore (la disuguaglianza) si costruiscono «le radici teoriche del
disprezzo» verso chi non è di sinistra. Gli egualitaristi, scrive Kenneth
Minogue, «vogliono far passare l’idea che chi non appoggia l’egualitarismo
dev’essere per forza un sostenitore dell’anti-egualitarismo… così
l’egualitarismo non è solo una dottrina: è anche un atteggiamento di
autogratificazione».
Il secondo
colpo è rivolto al celebratissimo Manifesto di Ventotene, scritto nei
primi anni Quaranta da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, assurto a bibbia del federalismo
europeo, di cui Ricolfi, in una velenosa coda in appendice al libro, denuncia
il carattere datato e «giacobino», al punto da imputare i fallimenti
dell’Europa non al fatto di aver abbandonato quell’utopia ma piuttosto di
averla inseguita troppo.
Comunque la
si pensi, ancora una volta Ricolfi riesce insomma a farci venire in mente idee
che non condividiamo (citazione
da Altan). Mette in crisi il truismo secondo il quale la sinistra è nei guai
per l’ascesa del populismo, dimostrando invece che il populismo ha cominciato a
crescere e la sinistra a declinare ben prima della crisi e per ragioni più
profonde. E rafforza così in noi il sospetto che le cose siano piuttosto andate
al contrario: è la crisi storica, e forse irrimediabile, della sinistra ad aver
reso possibile e vincente la rivolta «populista» che oggi la travolge.
* Corriere della Sera , 14 aprile
2017
Luca
Ricolfi, «Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi»
(Longanesi, pp. 288, euro 6,90)
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