Tunisia
al voto. Dal «dispotismo paterno» a una fragile stabilità, il paese va alle
elezioni con il peso del mancato miglioramento delle condizioni di vita e di
lavoro, dell'estremismo islamista e di partiti frammentati. Un quadro che
spiega le basse affluenze alle urne e il disincanto dei tunisini
di
Alberto Negri *
All’improvviso
arriva la tempesta. Le vie di Hammamet si allagano, straripano i wadi in
torrenti limacciosi, l’autostrada lungo la costa diventa un fiume, la Grande
Tunisi è sommersa da un’alluvione e nel buio di un cortocircuito scompare anche
la fragile facciata della Tunisia del turismo di massa, mentre il vento strappa
dai cartelloni le facce dei 26 candidati alla conquista del palazzo presidenziale
di Cartagine. È solo un temporale ma è annunciato anche dal meteo della
politica.
L’interrogativo,
al di là dell’esito del voto di oggi e delle legislative del 6 ottobre, è se la
Tunisia sia davvero un Paese stabile come si ama dipingerlo in contrapposizione
con il caos della Libia e le vicissitudini del Maghreb. Anticipate al 15
settembre dopo la morte prematura del presidente Essebsi, le presidenziali
hanno visto l’esclusione dai dibattiti tv di Nabil Karaoui, uno dei favoriti,
patron della tv Nessma dove è socio Berlusconi, arrestato per riciclaggio.
Nelle stesse condizioni di Karoui un altro candidato, il discusso uomo d’affari
Slim Riahi, accusato di reati fiscali e in fuga in Francia. Se la giocano il
candidato islamista Abdelfattah Mouruou, Youssef Chahed attuale premier, che ha
creato il suo partito, Tahya Tounès, il medico Abdelkrim Zbidi, ex ministro
della difesa e portabandiera di Nidaa Tounes, e anche una donna, l’avvocato
Abir Moussi, che vorrebbe il ritorno di Ben Ali, cacciato il 14 gennaio 2001.
Si
va verso un voto anti-sistema, secondo Hassen Zargouni, il sondaggista
direttore di Sigma Conseil. Nel 2011 dopo la fuga di Ben Ali, spiega, la gente
era schierata tra coloro che volevano la rottura con il regime e quelli che
puntavano alla continuità. I primi guidati da Ennhada e dal partito dell’ex
presidente Moncef Marzouki hanno governato per tre anni. Ma il Paese non è
migliorato, anzi si è manifestato l’estremismo più radicale. Nel 2014, gli
schieramenti si sono divisi tra islam politico e società civile per poi
confluire in una sorta di «consenso alla tunisina» nell’alleanza di governo tra
Ennhada e Nidaa Tounes. Ma la situazione del Paese ancora non è migliorata e si
è approfondita la diffidenza tra i partiti e gli elettori. Così nel 2018 alle
elezioni municipali i cosiddetti candidati «indipendenti» si sono portati via
un terzo dei voti.
La
speranze della Rivoluzione dei Gelsomini, nonostante la Costituzione più
avanzata del modo arabo e il Nobel alla società civile, sono assai sfiorite.
Con l’inflazione a tassi record e il dinaro sempre più svalutato, l’impressione
è che l’elettorato tunisino vada verso un voto punitivo nei confronti dei
partiti. C’è un’ondata di protesta anti-sistema, evidenziata da scioperi e
manifestazioni nelle zone più povere del Paese, che assume forma attive di
protesta ma anche passive, di cui la più evidente è l’astensione
dell’elettorato, deluso dalle cattive performance economiche e sociali. Il
30-40% dei giovani non ha un lavoro e anche coloro che ce l’hanno percepiscono
salari da 150 euro al mese, persino nelle decantate fabbriche della
delocalizzazione italiana o francese. Un piccolo imprenditore italiano delle
calzature di Hammamet è esplicito: «Ho una linea di produzione di 50 operai
dove ne basterebbero venti ma li paghiamo troppo poco perché abbiano anche
voglia di lavorare». E magari anche di votare.
Il
partito islamico Ennhada si sta riposizionando per allargare la propria base
elettorale. In un incontro con i giornalisti stranieri il candidato islamista
Abelfattah Mourou, celebre avvocato tra i fondatori del movimento, definisce il
suo partito come «conservatore», evitando accuratamente di fare riferimenti
alla religione. Ennhada, all’indomani della caduta di Ben Ali, è stato al
governo ininterrottamente, in maniera maggioritaria o in coalizione, e dopo una
serie di sbandamenti che hanno portato a falle clamorose nella sicurezza,
lasciando via libera ai predicatori estremisti, ha preso una virata pragmatica,
appoggiata dal capo storico, Rashid Gannouchi. Mourou non è l’unico candidato
che viene dalla corrente islamista, a testimonianza di una frammentazione del
quadro politico che ha colpito ancora di più il campo dei «modernisti» e dei
laici di Nidaa Tounes. Così anche il mito della stabilità tunisina appare
intaccato, tanto è vero che stanno accorrendo le missioni europee e
internazionali per sostenere il Paese recipiente dei consistenti aiuti di
Bruxelles e dei prestiti di Fondo monetario e Banca mondiale. La Tunisia ha già
affrontato una fase drammatica, quando nel 2013 all’università della Manouba
vedevo sventolare la bandiera di al Qaeda e Ansar al Sharia (poi messa fuori
legge) dominava nelle periferie: in questo quadro preoccupante ci furono due
omicidi politici seguiti nel 2015 dagli attacchi al Museo del Bardo e a Sousse.
Ma la battaglia contro l’estremismo e tutt’altro che finita: tutti sanno delle
migliaia di giovani tunisini arruolati nell’Isis. Il 70% è stato addestrato in
Libia e ogni giorno le forze di sicurezza combattono contro i jihadisti tra le
montagne di Kasserine e al confine libico. Il controllo della regioni alla
frontiera con la Libia o l’Algeria però è quasi impossibile soprattutto perché
dopo la fine del regime benalista si sono incrinate le vecchie solidarietà di
clan. E il contrabbando di merci, armi ed esseri umani, la fa da padrone. Come
un tempo, solo che il controllo è sempre più in mano a organizzazioni legate ai
libici e alla formazioni radicali. Una cifra la dice lunga: si calcolava
qualche anno fa che il 40% del Pil tunisino venisse dal commercio informale con
la Libia, ovvero dal contrabbando. Si sente una certa nostalgia di Stato forte
o quanto meno di uno Stato che sia stabilmente il maggiore distributore delle
risorse oltre che il garante della sicurezza.
La storica tunisina Leila El
Houssi rileva nel suo libro (Il risveglio della democrazia, Carrocci) che
dall’indipendenza dalla Francia negoziata dal carismatico Bourghiba alla caduta
di Ben Ali il Paese è stato caratterizzato da una sorta di «dispotismo paterno»
che con l’ultimo raìs prese derive inaccettabili. Forse non è il caso per la
Tunisia di replicare il passato ma il presente è assai incerto e la paura del
futuro non rende davvero liberi i nostri vicini distanti.
*
da il manifesto - 15 settembre 2019
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