Nei giorni scorsi il presidente Receyp Erdogan ha
minacciato che lo stato d’emergenza potrebbe durare «parecchi anni»: «Prima
mozzeremo le teste di questi traditori, poi li faremo comparire al processo
vestiti con le tute arancioni di Guantánamo», ha dichiarato in una minacciosa
invettiva
di
John Dalhuisen *
In Turchia
la verità e la giustizia sono diventate sconosciute. Sulla base dell’accusa
palesemente assurda di sostenere un’organizzazione terroristica, sono stati
imprigionati sei difensori dei diritti umani. Sono in attesa di un processo che
potrebbe prolungare la loro detenzione per mesi. Altri quattro sono stati
rilasciati ma l’indagine nei loro confronti continua. Sono sottoposti a
limitazioni di movimento e devono presentarsi alla polizia tre volte alla
settimana.
TRA LE
PERSONE IMPRIGIONATE c’è Idil
Eser, direttrice di Amnesty International Turchia. «Non ho commesso alcun
reato», mi ha scritto la scorsa settimana dal carcere. Così come gli altri, del
resto. Nell’ultimo anno il governo turco ha colto ogni minimo segno di dissenso
come una scusa per intensificare la repressione. Ormai, anche difendere i diritti
umani è diventato un reato. Esattamente un anno fa, la gente in Turchia
assisteva con orrore all’arresto di giornalisti in diretta televisiva.
I bambini
venivano svegliati di notte dal rumore degli aerei e dai colpi d’arma da fuoco.
In un bagno di sangue durato 12 ore, morirono oltre 250 persone e più di 2.000
rimasero ferite. In molti tirarono un sospiro di sollievo, il giorno dopo,
quando si sparse la notizia che il tentativo di colpo di stato era fallito.
Fu un
momento fugace. Cinque giorni dopo, il governo impose lo stato d’emergenza. Da
allora, lo stato d’emergenza è stato esteso di tre mesi in tre mesi, ogni volta
con risultati peggiori.
Sono state avviate indagini nei confronti di 150.000 persone accusate di far parte della «Organizzazione terroristica Fethullahista», ossia di avere rapporti col predicatore e presunto ideatore del colpo di stato Fethullah Gülen. E il numero cresce di giorno in giorno.
Sono state avviate indagini nei confronti di 150.000 persone accusate di far parte della «Organizzazione terroristica Fethullahista», ossia di avere rapporti col predicatore e presunto ideatore del colpo di stato Fethullah Gülen. E il numero cresce di giorno in giorno.
COME EFFETTO della repressione, circa 50.000 persone si trovano
attualmente in carcere. Tra di loro, 130 giornalisti: il numero più alto
rispetto a ogni altro paese al mondo.
Oltre 100.000 impiegati del settore pubblico, tra cui un quarto dell’intero sistema giudiziario, sono stati licenziati in modo arbitrario. Solo l’ultima settimana, centinaia di accademici hanno perso il lavoro e sono stati spiccati 140 mandati d’arresto nei confronti di operatori informatici. Alla fine, il mese scorso, la purga ha bussato alle porte di Amnesty International. Taner Kılıç, il presidente della nostra sezione turca, è stato posto in detenzione preventiva per la ridicola accusa di far parte della «Organizzazione terroristica Fethullahista». È accusato di aver scaricato l’applicazione di messaggistica scelta per comunicare dal movimento di Gülen. Taner è un professionista nel campo dei diritti umani ma un neofita in fatto di tecnologia: non solo non ha mai usato quell’applicazione ma non ne aveva mai sentito parlare.
Oltre 100.000 impiegati del settore pubblico, tra cui un quarto dell’intero sistema giudiziario, sono stati licenziati in modo arbitrario. Solo l’ultima settimana, centinaia di accademici hanno perso il lavoro e sono stati spiccati 140 mandati d’arresto nei confronti di operatori informatici. Alla fine, il mese scorso, la purga ha bussato alle porte di Amnesty International. Taner Kılıç, il presidente della nostra sezione turca, è stato posto in detenzione preventiva per la ridicola accusa di far parte della «Organizzazione terroristica Fethullahista». È accusato di aver scaricato l’applicazione di messaggistica scelta per comunicare dal movimento di Gülen. Taner è un professionista nel campo dei diritti umani ma un neofita in fatto di tecnologia: non solo non ha mai usato quell’applicazione ma non ne aveva mai sentito parlare.
NEI GIORNI
SCORSI il presidente Receyp Erdogan ha
minacciato che lo stato d’emergenza potrebbe durare «parecchi anni»: «Prima
mozzeremo le teste di questi traditori, poi li faremo comparire al processo
vestiti con le tute arancioni di Guantánamo», ha dichiarato in una minacciosa
invettiva. Governando attraverso decreti esecutivi, eludendo il controllo
parlamentare e persino quello dei sempre più remissivi tribunali, il governo ha
devastato le istituzioni statali e civili con una ferocia che ricorda quella
del regime militare degli anni Ottanta. È fuori discussione che i responsabili
delle violenze che hanno provocato morti e feriti durante il tentato colpo di
stato dello scorso anno vadano portati di fronte alla giustizia. Ma
questi crimini non possono servire da alibi per un’ondata repressiva che non
pare conoscere limiti.
IL
PRESIDENTE ERDOGAN è salito al
potere nel 2002 promettendo di rompere i ponti con un triste passato. E
invece, più è diventato potente e più ha finito per emulare le pratiche
repressive che l’avevano preceduto. Con alcune eccezioni, la comunità
internazionale sta zelantemente mantenendo il silenzio su quanto accade in
Turchia. Per tanti paesi la Turchia è troppo importante perché i diritti umani
siano presi in considerazione. Hanno bisogno della Turchia per tenere lontani
migranti e rifugiati. È un alleato in Siria. Serve per fermare l’avanzata del
gruppo armato che si è denominato Stato islamico.
IL GOVERNO
TURCO LO SA BENE e ne trae
vantaggio, ottenendo che gli altri governi chiudano gli occhi sulle violazioni
dei diritti umani che sono sotto gli occhi di tutti.
Nonostante una politica estera che dovrebbe proteggere i difensori dei diritti umani a livello globale, l’Unione europea ha vergognosamente mancato di rispondere in modo deciso alla terribile repressione dei diritti umani in Turchia. Martedì prossimo, 25 luglio, quando incontrerà il ministro degli esteri turco a Bruxelles, l’Alta rappresentante dell’Unione europea per la politica estera Federica Mogherini avrà la possibilità di fare ammenda.
Nonostante una politica estera che dovrebbe proteggere i difensori dei diritti umani a livello globale, l’Unione europea ha vergognosamente mancato di rispondere in modo deciso alla terribile repressione dei diritti umani in Turchia. Martedì prossimo, 25 luglio, quando incontrerà il ministro degli esteri turco a Bruxelles, l’Alta rappresentante dell’Unione europea per la politica estera Federica Mogherini avrà la possibilità di fare ammenda.
INVECE DI
NASCONDERSI dietro a parole melliflue e a una
morbida diplomazia, chieda esplicitamente il rilascio di Idil, di Taner e degli
altri difensori dei diritti umani! Non chiediamo nulla di meno. Ho parlato con
alcuni dei miei colleghi in Turchia. Alcuni di loro erano stati per ore
all’esterno del tribunale e avevano la voce rotta dall’emozione. Erano
preoccupati non solo per i loro colleghi ma anche per il loro paese. Quanto
tempo ci vorrà prima che il mondo rompa il silenzio? Mentre il mondo
assiste muto, le persone vengono imprigionate una a una. Fino a quando, presto,
non ne rimarrà nessuna.
* direttore
di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale
da il manifesto del 23 luglio 2017
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