I colossi Acea, Hera, Iren e A2a riforniscono quindici
milioni di persone. Ma né la gestione privata né quella pubblica riescono a
evitare gli sprechi
di Roberto Giovannini *
Se
l’obiettivo della gestione dell’acqua «privata» in Italia era quella di ridurre
gli sprechi, si può ben dire che l’obiettivo sia stato mancato di gran lunga.
In Italia, secondo il Blue Book di Utilitalia, su cento litri di acqua
distribuiti ben 39 si perdono per strada. Va meglio al Nord (il 29%), va
malissimo al Centro e al Sud (46 e 45%). E anche un’azienda pubblica ma gestita
per produrre utili come Acea disperde circa il 40% dell’acqua. Del resto, le
reti sono stravecchie: il 60% dei tubi è stato posato più di 30 anni fa, il 25%
da più di 50 anni. Anche gli investimenti per migliorare il servizio sono
scarsi: servirebbero 5 miliardi l’anno, e se ne spendono meno della metà, e di
questo passo per rinnovare completamente la rete ci vorranno 250 anni. Infine,
l’Europa ci massacra di sanzioni per la violazione delle regole.
È la
dimostrazione del fallimento del processo di privatizzazione dell’acqua, dicono
i sostenitori dell’«acqua pubblica». Sono aumentate le tariffe, arricchendo i
gestori con ingenti utili, che di fatto, quando gli azionisti sono pubblici, si
traducono in una tassa sui consumatori finali. E la qualità del servizio non è
affatto migliorata. Al contrario, dicono i sostenitori della gestione privata
dell’acqua: non si può certo chiedere a un inefficiente e impoverito settore
pubblico di cambiare le cose. Soltanto con una gestione oculata - dicono ad
Utilitalia - e con un aumento delle tariffe, che in Italia sono più basse del
resto d’Europa (un metro cubo costa 6,03 dollari a Berlino, 3,91 a Parigi e
1,35 a Roma), si possono reperire le risorse per fare gli investimenti che
servono.
L’acqua,
diceva Stefano Rodotà, è un «bene comune»: non coincide né con la proprietà
privata né con la proprietà dello Stato, ma è un diritto inalienabile dei cittadini.
Il giurista da poco scomparso fu protagonista del referendum del 2011 in cui
prevalse il sì alla cosiddetta «acqua pubblica», un voto che impedendo la
remunerazione degli investimenti di soggetti privati avrebbe bloccato
l’ingresso dei capitali privati nella gestione dei servizi idrici. Ma
l’intervento del governo - con uno dei decreti Madia, poi parzialmente bloccato
dalla Consulta - del Parlamento e infine del Consiglio di Stato ha di fatto
azzerato il pronunciamento referendario. E ha creato un paesaggio dell’Italia
dell’acqua in cui la presenza di aziende private è sempre più importante,
sempre più predominante.
Esistono
ancora grandi aziende interamente pubbliche, come ad esempio l’Acquedotto
Pugliese, che serve il 7% circa della popolazione italiana, o l’Abc di Napoli.
Ma per circa 15 milioni di italiani i «padroni dell’acqua» sono aziende
multiutilities su scala interregionale e internazionale, in alcuni case quotate
in Borsa, che quasi sempre sono teoricamente controllate dagli enti locali che
ne posseggono la maggioranza, ma in cui sono i partners privati a ispirarne le
strategie e le politiche. Strategie «moderne», anche sul piano delle tariffe,
che evidentemente puntano a generare utili oltre all’erogazione del servizio.
Aziende che integrano, oltre al servizio idrico (che continua ad essere
relativamente poco remunerativo) attività nel campo dell’energia e della
gestione dei rifiuti.
Tra le
protagoniste di questo processo di «industrializzazione», o di
«finanziarizzazione» dell’acqua ci sono certamente le cosiddette «quattro
sorelle»: Acea, Hera, Iren e A2a. Quattro colossi, quotati in Borsa, che già
oggi forniscono acqua a circa 15 milioni di italiani attraverso gli «Ato» che
controllano (le 64 aree territoriali omogenee in cui è diviso il territorio
nazionale). In Acea il socio di maggioranza è il Comune di Roma con il 51%
delle azioni, seguito dalla multinazionale francese Suez con il 23,3% e
dall’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone con il 5,006%). Acea è il più
grande operatore italiano nel settore, con 8,5 milioni di abitanti serviti a
Roma, Frosinone e altre aree di Lazio, Toscana, Umbria e Campania. Hera (dopo
Acquedotto Pugliese) è il terzo «padrone dell’acqua», con il 6,1% della
popolazione servita in Emilia-Romagna, Marche, Veneto e Friuli-Venezia Giulia:
i principali azionisti pubblici sono i Comuni di Bologna, Imola, Modena,
Ravenna, Trieste e Padova. Iren è il quarto, con il 3,8%: per il 49% è di
proprietà dei Comuni di Torino, Genova, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. A2a,
infine, è per la maggioranza dei Comuni di Brescia e Milano: per ora ha numeri
relativamente più piccoli, ma come le altre «sorelle» è impegnata in una
massiccia campagna di acquisizioni di altre aziende del settore (come la Lrh di
Como e Lecco). Di recente Acea ha acquisito Idrolatina e gli Acquedotti
Lucchesi, mentre Iren ha rilevato l’Atena di Vercelli. Un processo di
concentrazione del mercato che pare destinato a continuare.
* da lastampa.it , 7 luglio 2017
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