Parte prima: La primavera mancata dei referendum e le nebbie dell’autunno istituzionale
di Massimo Marino
Si è’ clamorosamente sgonfiata “la primavera dei referendum” e ci infiliamo
in un complicato autunno dove nella nebbia si rischia di non capirci più nulla.
In realtà tutto era prevedibile, anzi era già successo. Poiché sbagliare è
umano e perseverare non è diabolico ma decisamente sciocco è ora di mettere in
fila gli avvenimenti, gli errori, e qualche proposta per uscirne.
L’iniziativa referendaria (12 quesiti, cioè troppi), preceduta dall’anomalo
avvio del referendum fallito per mancanza di quorum sulle trivelle promosso da
varie Regioni (una formula senza raccolta firme che si è mostrata ingestibile)
riguardava ben quattro diverse aree d’interesse:
1)
L’assetto costituzionale per la parte della rappresentanza dei cittadini.
In particolare contro il nuovo Senato di secondo livello e le sue incerte
attribuzioni nel referendum obbligato di fine anno, e una proposta con due
quesiti contro l’Italicum, la cui incostituzionalità, essendo una copia
peggiorata dell’incostituzionale Porcellum dovrebbe in realtà essere
certa. Un percorso di revisione autoritaria spacciato per riformatore, già
testato da una deludente sostituzione delle Province con incerti Enti di area
vasta e con elezioni di secondo grado senza più il voto degli elettori nel
territorio di nove Province (Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna,
Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria). In queste si istituisce le Aree
metropolitane, un incerto rottame istituzionale che prevede dei sindaci
superman bivalenti, che vagherà per un po’ di anni nella confusione e nello
spreco di risorse prima che tutti si rendano conto che era più logico e utile
dimezzare a 50 le province e lasciare i Sindaci delle grandi città al loro
lavoro. E magari semplificare invece anche l’assetto regionale dove, a parte le
due autonome del Trentino e Val d’Aosta ci sono ben 5 Regioni (Abruzzo, Friuli,
Umbria Basilicata, Molise) al di sotto del milione e mezzo di abitanti, dove
difficilmente gli elettori superano i 500 mila, le quali hanno comunque
partorito negli anni ben 20 provincie su 110.
2)
L’organizzazione della scuola dove ben quattro diversi quesiti (almeno uno
di troppo) rimettevano in discussione il DL 104 (più modestamente rinominato
“la buona scuola” da Renzi).
3)
Il settore del lavoro dove tre diversi quesiti rimettevano in discussione
in diversi aspetti le regole del lavoro, contro il Jobs Act (cioè la legge 183
del 2014, primo esempio di legge sul lavoro assemblata insieme da governo e
confindustria “dimenticando” le cosiddette “altre parti sociali “).
4)
L’attualissimo tema della crisi ambientale e climatica riemerso dal
silenzio con l’incontro COP21 di Parigi a fine dicembre scorso. Due diversi
quesiti riproponevano il tema. Il primo partendo dalle trivelle sul territorio
nazionale ricordava l’urgenza di una graduale fuoriuscita dai fossili (la
cosiddetta decarbonizzazione ). Il secondo sulla tutela ambientale e il
recupero dei materiali in alternativa agli inceneritori che con lo Sblocca
Italia il governo Renzi ha rilanciato alla fine del 2014. Ben 12 nuovi
inceneritori, poi ridotti ad 8 previsti per smaltire in aria 2 milioni di
ton. in più di rifiuti, singolare contributo italiano al tema del climate change.
5)
In aggiunta ai quesiti referendari si aggregavano due proposte (una
petizione e una proposta di legge di iniziativa popolare) nel campo dell’acqua
pubblica e dei beni comuni in particolare in risposta alla aggressione al
referendum vinto nel giugno 2011 ad opera di alcune parti del decreto Madia
sulla Pubblica Amministrazione.
Come si vede nell’insieme un poderoso
elenco di azioni importanti potenzialmente di autodifesa
nei confronti di una azione di revisione legislativa nella quale il governo
Renzi-Alfano-Confindustria con l’apporto decisivo in vari momenti di Forza Italia, ha mescolato
alcuni marginali contenuti riformatori positivi con un ben più consistente
percorso di revisione autoritaria della Costituzione , delle leggi sul lavoro e
sulla scuola, senza dimenticare le tutele ambientali da sempre apertamente
ignorate dal governo Renzi.
L’iniziativa referendaria era immaginata ingenuamente da molti di noi come
un concreto percorso unitario nella raccolta delle firme, anche per proporre un
disegno organico ai sottoscrittori e in fin dei conti per avvicinare il
confronto fra diverse aree culturali, forme organizzate, pezzi disgregati del paese
privi di una adeguata voce o rappresentanza. Insomma una occasione storica che
probabilmente non aveva precedenti negli ultimi decenni. Con il retroterra e la
speranza data dal successo dei 4 referendum vinti nel 2011. Chiunque abbia
avuto esperienza di attiva partecipazione a campagne referendarie conosce le
difficoltà organizzative, i costi economici, l’importanza dei media nel voto
referendario soprattutto su temi di non facile lettura. Non c’era nulla che non
fosse prevedibile, unire le iniziative era ovvio oltre che razionale. Ma nulla
di tutto ciò è invece avvenuto. E’ prevalsa la solita incapacità, una
realpolitik da due soldi (cominciamo a raccogliere le nostre firme poi si
vedrà) già fallita in altre occasioni.
Va ricordato infatti che sugli stessi temi, con più o meno gli stessi
protagonisti e incredibilmente con gli stessi errori siamo al terzo fallimento consecutivo in pochi anni. Fallimento
perché sui tre quesiti istituzionali non si sono raccolte firme sufficienti
favorendo così la propria autoemarginazione dallo scontro che comunque ci sarà.
Altrettanto è fallita la raccolta sui due quesiti ambientali, chissà perché
inseriti in quelli “sociali” ( fra l’altro ogni quesito che ottiene le firme
comporta un contributo ai promotori di 500mila euro) e promossi da gruppi
troppo ristretti e organizzativamente inadeguati ,con la pratica assenza di
tutte le principali associazioni ambientaliste. Mentre su lavoro e forse la scuola
con la prevalente presenza di parti del sindacato si è superato di poco il quorum
di firme. Si vedrà se ci sarà l’avallo definitivo della Cassazione e quali
saranno i tempi di un eventuale appuntamento referendario, di molto impoverito
e depotenziato, con grandi difficoltà prevedibili nel raggiungimento del
quorum.
Il primo fallimento era già avvenuto nel luglio 2011 quando si arenò
l’iniziativa referendaria di alcuni costituzionalisti che tentava l’abolizione
del maggioritario versione Porcellum-Calderoli. Dal punto di vista delle
conseguenze la proposta Passigli ( portavoce del comitato promotore) risultava
decisamente interessante e meritevole di un largo sostegno. Aboliva fra l’altro
il premio di maggioranza alla Camera ( tre anni dopo dichiarato
incostituzionale dalla Corte Costituzionale ). Ne derivava un sistema di tipo
proporzionale ma con un quorum del 4% che riduceva una eccessiva
frammentazione. Al Senato si aboliva il premio utilizzando un semi
proporzionale nei collegi ritagliando lo schema utilizzato nel Trentino AA. Il
terzo quesito aboliva le liste bloccate.
L’avvio della raccolta firme del 2011 per opera di gruppi troppo ristretti,
in coincidenza con il periodo delle ferie, si presentava del tutto avventuroso,
nell’assoluta mancanza di una discussione preventiva in settori più larghi del
paese. Contro la raccolta firme,
completamente ignorata e boicottata dai principali media, si scatenò una
sotterranea e pesante aggressione da parte del PD. Veltroni, Bindi, Violante,
Parisi, i nascenti renziani fra gli altri.
A loro si aggiunse anche Vendola e infine lo stesso Di Pietro (del cui
partito Passigli era aderente), per ultimo Bonelli. Tutti gli orfani
dell’ulivismo con cui si sopravvive per un po’ galleggiando con il 2%. Il PD minacciò dietro le quinte un contro
referendum. Così a metà raccolta firme, mancata anche l’adesione di
Rifondazione per la miserabile contrarietà all’ipotesi di un limite (4%) al
proporzionale puro, i Comitati in azione per la raccolta firme si fermarono
quando Passigli, per motivi non tutti chiari, si ritirò da rappresentante
dell’iniziativa. Eliminato il pericolo successivamente si riprovò con il
mattarellum cioè un maggioritario giocato nei singoli collegi con una modesta
quota proporzionale. In realtà è sempre un maggioritario non palese agli
elettori che infatti sta riemergendo in questi giorni visto il rischio elevato
di incostituzionalità dell’italicum su cui dovrebbe pronunciarsi la Corte
Costituzionale all’inizio di ottobre ( ma si tende a rimandare) . Nacque
proprio da questa occasione perduta la strada che ha portato alla nuova
versione del porcellum peggiorato chiamata italicum.
Il secondo fallimento è avvenuto nel giugno 2015 quando l’iniziativa
referendaria è stata riproposta da Possibile,
il gruppetto di Civati e alcuni altri appena fuoriusciti dal PD renziano. Si
trattava in gran parte degli stessi
identici quesiti riproposti cinque mesi fa.
Il solito eccesso di protagonismo, l’incapacità di altri soggetti ad
aggregarsi superando l’evidente settarismo di Civati, altri aspetti di
trasformismo tipico dei vari gruppetti della cosiddetta sinistra radicale,
hanno portato al fallimento della raccolta firme di Civati che è così
praticamente uscito di scena.
Conseguente con la evidente difficoltà a sinistra ( Civati, Fassina,
Vendola, Airaudo, Ferrero.., senza dimenticare gli ex arancioni diventati rosa
come Pisapia e Doria) di abbozzare una nuova rifondazione di alcunché ,
tantomeno una vera riforma istituzionale innovativa, tutta la vicenda
referendaria ha confermato miseramente la crisi degli alternativi delle varie
sfumature. A parte i grillini, di cui vediamo dopo, l’unico che si è salvato è
De Magistris, almeno riconfermato mantenendo la propria autonomia nel suo
clamoroso successo napoletano. Per il resto una grande occasione sfumata, con
la quale mi sembra si sia sostanzialmente chiusa per molti anni la storia della
tradizionale sinistra italiana , dalla quale sarebbe utile trarre degli
insegnamenti.
E’ utile ricostruire prima le mosse dei grillini in questa vicenda. E’ noto
che nel Movimento 5Stelle non esistono sedi nazionali, strutturate e
riconosciute, di vero e proprio dibattito politico e culturale sugli assetti di
fondo da dare ad un regime democratico basato sulla rappresentanza delegata (a
cui loro aggiungono, più che sostituire, aspetti di democrazia diretta). Certo
se ne discute in qualche modo fra i parlamentari per evidenti ragioni
istituzionali. Ma sarebbe singolare pretendere da loro una univoca posizione su
questioni istituzionali davvero complesse che tanti altri neppure tentano di
affrontare seriamente. La gran parte degli aderenti al M5S sono fortemente
intrisi di una cultura democratica, contraria alla violenza (non c’è stato mai
da dieci anni, un solo episodio violento attribuibile a loro), sensibili alle
questioni sociali ed alle priorità della tutela ambientale. A queste aggiungono
una condivisibile ostilità, a volte un po’ ingenua e semplificata, alle logiche
degenerative della politica, la cosiddetta propensione anticasta. Ad oggi è
irrisolto nel movimento lo spinoso problema di come organizzare la democrazia e
la strategia al proprio interno per il momento sostituite da discutibili sedi e
strumenti decisionali (lo staff, i garanti, il direttorio, le sue versioni
mini, il voto improvvisato in rete). Il caso romano mostra che Grillo è ancora
di gran lunga quello che istintivamente riesce a mantenere alla fine la strada giusta. Prima o poi dovranno scegliere come darsi un
migliore assetto decisionale e allora si giocherà il loro (ma anche il nostro)
futuro.
Ma è un fatto che nella gran parte delle battaglie istituzionali, sociali e
ambientali ed in particolare in quelle di cui qui ragioniamo, i grillini si
sono schierati a favore e le hanno sostenute, magari in forma limitata e
frammentata. Sul referendum prossimo di dicembre sono di gran lunga la forza
organizzata più rilevante e determinante per la vittoria del NO. Sui referendum
di primavera si sono invece scarsamente coinvolti, impegnati in molti casi
nelle imminenti elezioni locali. Sarebbe bastata una settimana di loro
mobilitazione totale, considerata la disponibilità di numerosi eletti per le
certificazioni, e tutti i 12 quesiti sarebbero andati in porto. Forse non hanno
capito la dimensione dello scontro e anche la possibilità di diventarne
meritoriamente protagonisti.
Va aggiunto che sulle questioni istituzionali, a differenza degli altri, in
realtà non erano neppure al punto zero. Nel 2012 il blog di Grillo promuoveva
un sondaggio, un po’ improvvisato, per capire l’opinione dei propri sostenitori
sul sistema elettorale preferito (proporzionale, maggioritario, con quorum o
senza, con preferenze o no etc.) Ne usciva una sventagliata, come prevedibile
in qualunque consesso improvvisato di elettori , di ben 35 diverse varianti
elettorali dove prevaleva però una tendenziale vocazione proporzionale con
varie possibili correzioni ma anche una
sostanziosa minoranza a vocazione maggioritaria, singolare in un raggruppamento
in cui si parla di democrazia diretta. Più di due anni dopo ( cioè un secolo
per la storia del M5S) un più serio percorso di pronunciamento sul sistema
elettorale che avrebbero dovuto sostenere i 200 neoeletti parlamentari
grillini, con l’ottimo sostegno di Aldo Giannuli come facilitatore, ha portato
a ben otto votazioni in rete in cui
passo passo alcune decine di migliaia di aderenti hanno scelto , quasi miracolosamente,
una ottima proposta, abbastanza chiara,
di sistema elettorale proporzionale che evita l’indifendibile proporzionale
puro ( senza quorum), indicando la necessità di un quorum ( inteso al 4-5%
almeno), una dimensione mediana dei collegi etc.. Una ottima proposta che,
credo inconsapevolmente, nei suoi effetti ricorda il sistema vigente in
Germania e in alcuni altri paesi del centro-nord europeo. Ritengo questo
esperimento uno dei momenti più importanti e creativi della storia dei
grillini, forse la loro migliore proposta, che ha definito ufficialmente la
posizione del movimento. Tuttavia...
Tuttavia il complicarsi del dibattito parlamentare su un tema che a torto
appassiona purtroppo pochissimi italiani, ha complicato, eccessivamente, anche
il comportamento degli eletti grillini. Resta inspiegabile, nella babele di
posizioni emerse nei partiti e nel PD fra tutti, perché ad un certo punto più
di un anno fa i grillini abbiano sostenuto in aula una mozione, senza seguito
per fortuna, (prima firma il renziano ex radicale Giachetti ) che riproponeva
il ritorno al mattarellum. Successivamente si è fatta strada in modo non
esplicito, l’illusoria, oltre che opportunista, opinione, alimentata da una
parte non innocente dei media, che in fin dei conti un italicum con il premio
al partito e il ballottaggio inventato da Renzi e suggeritori per stravincere a
seguito dei risultati delle elezioni europee, avrebbe potuto invece favorire i
5stelle. E’ stata quindi smarrita una chiara posizione sul tema, tentati
dall’illusoria speranza di prevalere, non prevedendo alleanze, nel secondo
passaggio di ballottaggio. Una
scorciatoia al paradiso (grillino) che i partiti, PD e Forza Italia in
particolare, legati da un patto di ferro per cui tutto si può fare per fermare
il terzo incomodo, difficilmente permetteranno. E a qualunque costo.
Sui referendum falliti è calato un silenzio tombale. Qualcuno dovrebbe
spiegarci perché nella maggioranza dei tavoli si raccoglievano le firme per un
solo gruppo di referendum e non per gli altri, a volte in aperta ostilità o
competizione. Opponendosi alle proposte di coordinare la raccolta dei diversi
gruppi promotori fino quasi alla scadenza, quando ormai l’obiettivo era
compromesso. Fra le poche voci di protesta cito alcune righe del Comitato Acqua
pubblica di Torino a fine giugno: “ .. Qualcuno
ha creduto che la somma di sigle minoritarie fosse sufficiente per creare
un’alleanza sociale; qualcuno ha pensato di poter calare la campagna dall’alto
di importanti cattedre universitarie; qualcuno ha avuto eccessiva fiducia in
legami di rappresentanza sindacali e di partito che ha ritenuto potessero
sostituire la costruzione di un movimento unitario. Abbiamo tutti mostrato il
fianco svelando le nostre debolezze. La
lezione che ci avevano dato i referendum del 2011 (1,5 milioni di firme a
quesito, 26 milioni di voti), e cioè l’importanza di costruire percorsi
condivisi, l’abbiamo dimenticata nella fretta di partire e nell’ansia di
difendere ciascuno il proprio orticello”. Non ho trovato
né sentito molto altro di significativo. Alcuni dei responsabili storici di
questa situazione mi sembra abbiano scelto un silenzioso pensionamento. Per
parecchio tempo lo strumento referendario ha chiuso, almeno per noi. Ed è
evidente che senza larghe aggregazioni, forme organizzative solide ed
efficienti, maggiore trasparenza e minore protagonismo dei singoli, persone o
gruppi non è pensabile riaprirlo.
Solo a fine agosto Alfiero Grandi, uno degli esponenti nazionali per il NO
ha espresso, seppure in modo molto sintetico qualche osservazione ragionevole: “ Il referendum si vince se soggetti molto
diversi riescono a mobilitarsi per il NO. E’ ovvio che non sarebbero in grado
di dare vita ad una coalizione alternativa, il compito è far vincere il NO...
Se vincerà il No occorre approvare una nuova legge elettorale per la Camera e
il Senato, rispettosa della parità di voto, tale da riconsegnare agli elettori la
scelta dei loro rappresentanti e di affidare la formazione di un governo ai
programmi, ad un accordo quando è necessario, perché la mediazione sociale e
politica non è una bestemmia ma il modo per rafforzare la capacità autonoma del
paese di stare nella scommessa globale. Esattamente il contrario dei premi di
maggioranza, delle élites dominanti che impongono le loro soluzioni. “
Forse involontariamente Grandi ha evidenziato il nodo di fondo che rende
vulnerabili le forze, diverse e con
diversi obiettivi che si pronunciano per il NO: “Se vincerà il No occorre approvare una nuova legge elettorale per la
Camera e il Senato, etc..” Perfetto!
E quale sarebbe?
L’unica timidissima proposta che ho letto di recente è quella di 4 giuristi
( Pasquino, Pertici ,Viroli, Zaccaria): “ Una riforma puntuale,
condivisa e democratica” in qualche modo stesa in collaborazione con Civati e
alcuni altri. Diciamo che perlomeno ci provano. Può sembrare incredibile ma non
ci sono altre proposte pubbliche e decentemente organiche.
Infatti se vince il SI le cose sono relativamente chiare: avremo un Senato
con un ruolo confuso e ridimensionato, non eletto dai cittadini ma da accordi
fra gruppi di eletti nelle regioni (molti aspetti saranno simili ai futuri
Consigli metropolitani che eleggeranno a ottobre ). Nelle successive elezioni
politiche, se i grillini non si suicideranno prima (sono gli unici che possono
fermare se stessi), si sposterà il premio all’ultimo momento sulle coalizioni
con l’accordo modulato (come una fisarmonica) fra Renzi e Berlusconi, o chi
dopo di lui, con i reciproci partitini gregari o inventati. Si farà quanto
ritenuto sufficiente a garantire il premio e ridimensionare il M5Stelle. In forme diverse per il primo turno
o per il ballottaggio se i grillini ci arrivano.
Varie competenze rilevanti delle Regioni saranno ridimensionate. Con il
declino di Province e Aree metropolitane, con un Senato di secondo grado di
nomina, in fin dei conti tutto si concentrerà sul Governo e sul controllo
ferreo della Camera dei deputati dove, nella versione attuale dell’Italicum, un
solo partito (o una lista unica-somma di più partiti) avrebbe la maggioranza di
circa il 55% degli eletti indipendentemente dal proprio peso elettorale. Molti
milioni di voti verranno di fatto annullati e girati con il premio
all’antagonista. Questa doppia sciagura (Si al referendum e voto con
l’Italicum) cambierebbe il regime democratico-costituzionale del paese verso un
avventuroso sistema autoritario che non ha similitudini neanche nei paesi
dell’est europeo dove almeno le tendenze autoritarie sono chiare e praticamente
dichiarate.
Al momento quindi solo
la vittoria del NO e lo smantellamento del maggioritario dell’Italicum (o
fotocopie nascoste come un mattarellum peggiorato o il turno unico aggiunto) da
parte della Corte Costituzionale possono fermare questo scenario. Le obiezioni
critiche interne al PD sono insignificanti o marginali, alcune addirittura
peggiorative.
L’unico possibile incidente di percorso, dalle conseguenze davvero difficili
da prevedere, resta l’ipotesi che nelle elezioni regionali siciliane e del
comune di Palermo dell’autunno e primavera 2017 ci sia una clamorosa vittoria del
M5Stelle. Per impedirla nell’Assemblea regionale siciliana che può come Regione
a statuto speciale, incredibilmente, anche modificare le regole elettorali dei
propri Comuni, PD e UDC hanno posto il ballottaggio al 40% tentando
addirittura di abolirlo con un solo
turno e premio, per le prossime elezioni di Palermo. Praticamente un tentato
golpe di prova ( lì il partito della nazione con un PD ormai geneticamente
modificato è realtà).
Ma se invece avessimo un imprevisto doppio successo, se vincessero i NO e
la Corte Costituzionale (ad ottobre o dopo il voto referendario) riconoscesse
di fatto le critiche degli oppositori? Cadrebbe il nuovo Senato, cadrebbe la
nuova legge elettorale ma “ i vincitori “non avrebbero alcuna proposta ne’ su
le norme costituzionali né sulle regole elettorali o, diciamo meglio, ne
avrebbero una decina, perché in nessuna sede,
in nessun tavolo di promotori minimamente significativo si è mai
discusso che proposte di modifica costituzionale ed elettorale con chiarezza sosteniamo.
E’ questo il vero, preoccupante retroterra della primavera fallita dei
referendum.
(fine prima parte)
Nella seconda parte: E’ possibile
riformare le regole della politica italiana ?
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