Territori Palestinesi Occupati. Per
le amministrative dell'8 ottobre numerose liste indipendenti hanno scelto di
non pubblicare i nomi delle donne candidate rendendole identificabili solo come
«Moglie di... », «Sorella di...».Lo sdegno delle attiviste dei diritti delle
donne
di Michele Giorgio *
Per chi
andrà alle urne l’8 ottobre non sarà facile dare il voto a tante donne
palestinesi candidate per il rinnovo dei consigli municipali in Cisgiordania e
a Gaza. A meno che non intervenga la Commissione elettorale per mettere fine
allo scempio che sta avvenendo. Numerose liste locali, indipendenti ma in
realtà legate ad alcune delle principali formazioni politiche, incuranti di ciò
che prevede la legge elettorale – i candidati devono essere pienamente
identificati per nome, età, indirizzo – hanno scelto di non pubblicare i nomi
delle donne candidate. Al posto del nome c’è scritto «Moglie di… », «Sorella
di…». In pratica sono identificabili soltanto attraverso i familiari maschi più
stretti. E non potranno essere riconosciute neppure dalla loro immagine sui
manifesti elettorali perchè è già stata o sarà sostituita con un fiore o una
colomba.
La donna
glorificata durante l’Intifada, identificata con nome e cognome da “martire” e
mostrata nei poster affissi in giro per le città, invece secondo i leader di
queste liste “indipendenti” va nascosta, resa anonima e senza volto quando, da
viva, partecipa alla vita pubblica. Di fronte a ciò restano in silenzio i due
partiti più grossi, Fatah e il movimento islamico Hamas. E con essi l’Autorità
nazionale palestinese e il suo presidente Abu Mazen che pure hanno approvato
leggi e firmato trattati internazionali contro le discriminazioni nei confronti
delle donne.
Le quote
rose (20%) sono una realtà già da alcuni anni nei Territori palestinesi
occupati ma, a quanto pare, sono state recepite come una imposizione dal
sistema patriarcale che prova ad aggirarle assieme alle iniziative per favorire
la partecipazione delle donne in politica. «Dopo anni di lotta per tagliare
traguardi mai raggiunti da gran parte del Paesi arabi, oggi le donne di
Palestina si ritrovano a fare marcia indietro», dice con amarezza al manifesto
Amal Kreisheh, storica attivista palestinese dei diritti delle donne.
«Purtroppo le sostituzioni dei nomi non sono casi isolati – aggiunge -,
riguardano tante località anche della Cisgiordania. Significa che non c’è
riconoscimento dei diritti fondamentali della donna da parte dei promotori di
queste liste elettorali, evidentemente appoggiate da segmenti significativi
della società». Kreisheh punta l’indice contro l’Anp e non manca di rivolgere
critiche anche alla sinistra. «L’Anp ha un atteggiamento ambiguo – spiega – da
un lato approva leggi per l’uguaglianza tra i sessi e poi non muove i passi
necessari per farle applicare e per far rispettare i diritti conquistati dalle
donne». La sinistra, aggiunge Kreisheh «si limita ad applicare al minimo le
quote rosa e non avvia una campagna ampia e incisiva a favore dei diritti delle
donne».
Le proteste
non mancano e non giungono solo dalle organizzazioni di donne. Qualcuno
denuncia «l’islamizzazione della società palestinese» e fa riferimento alla “awra”
il principio religioso che stabilisce che siano coperte determinate parti del
corpo umano. A ben vedere però la sostituzione dei nomi delle donne candidate è
figlia più di comportamenti imposti dalla società tribale che domina
soprattutto nelle zone rurali. Se è vero che tra i giuristi islamici prevale il
principio che la donna sia tenuta coprire tutto il suo corpo, compresi i
capelli, ad eccezione del viso, delle mani e dei piedi (alcuni, soprattutto i
salafiti e wahhabiti, invocano una copertura completa), allo stesso tempo la
tradizione religiosa non presenta un divieto esplicito della pubblicazione dei
nomi delle donne. «La società patriarcale e tribale ci mostra ancora tutta la
sua forza», commenta Amal Kreisheh avvertendo che le donne palestinesi non
resteranno a guardare e continueranno a lottare per i loro diritti.
Sulla piega
che sta prendendo la campagna per le amministrative di ottobre, interviene
anche Luisa Morgantini, ex vice presidente dell’Europarlamento e da molti anni
impegnata sul terreno dei diritti delle donne palestinesi. «Incontrando Leila
Ghanem, che è una governatrice, ho espresso la mia indignazione» spiega
Morgantini in questi giorni a Ramallah «perché tutte le battaglie fatte dalle
donne (palestinesi) per le quote rose e per essere protagoniste anche nella
vita politica vengono ora distrutte da questa visione (della donna) che emerge
da facebook e nelle liste elettorali. Mi auguro che le proteste riescano a
fermare chi vuole dare una rappresentazione della donna solo come la moglie di
questo o la sorella di quello».
Naima Abu
Taima, che si occupa di parità di genere al Media Development Center
dell’università di Bir Zeit (Ramallah), è a favore del boicottaggio del voto da
parte delle donne. «Essere rappresentate a questo modo è umiliante, che gli
uomini vadano alle urne da soli. Noi dobbiamo farlo solo se saranni rispettati
i nostri diritti». Amal Kreisheh da parte sua ritiene il boicottaggio del voto
un punto molto delicato. «Da un lato quanto vediamo ci spingere a non
partecipare alle elezioni, dall’altro questo voto rappresenta un momento raro
di espressione del volere del nostro popolo. Un appello al boicottaggio
potrebbe non essere la scelta giusta».
* da il manifesto del 7 agosto 2016
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