di Giuliano Santoro *
«Sembrava impossibile e invece ce l’abbiamo fatta» dicono dal Movimento 5 Stelle il giorno successivo alla chiusura degli Stati generali. Gli organizzatori rivendicano di essere riusciti a portare a casa il primo «congresso» senza conflitti laceranti, evitando rese dei conti ma al tempo stesso mettendo sul tappeto le differenze che attraversano il M5S. Nonostante lo strappo di Davide Casaleggio, che sabato mattina all’inizio dei lavori ha rivendicato maggiore trasparenza e rispetto delle regole.
Il primo paradosso di questa vicenda è che la rottura con il gestore di Rousseau, da parte dei «romani» che siedono in parlamento e a palazzo Chigi è avvenuta mettendo in pratica il metodo di Gianroberto Casaleggio: lasciare briglia sciolta alla base, consentendo a tutti di parlare nel corso di giornate anche sfiancanti di dibattito prima locale poi nazionale, e man mano cesellare i documenti di sintesi evitando le questioni ritenute divisive.
Ciò ha comportato anche qualche rinuncia. C’è voluto poco, ad esempio, per capire che non era aria di mettere mano al tetto dei due mandati elettivi per consiglieri regionali e parlamentari italiani ed europei. Anche sulle alleanze il minimo comune denominatore tra eletti e attivisti delude quelli che da subito chiedevano scelte di campo «strutturali». Gli accordi sono contemplati ma previa intesa programmatica. Il che già lascia spazio a differenze di interpretazione. Per Alessandro Di Battista, ad esempio, ciò equivale a dire che il M5S « alle elezioni politiche del 2023 il Movimento 5 Stelle si presenterà da solo».
Introducendo il dibattito di domenica, Giuseppe Conte ha dato lo scontato sostegno ai «governisti» del M5S parlando chiaramente della evoluzione resasi necessaria negli ultimi tempi. Il presidente del consiglio ha detto che sente spesso «Beppe» e ha esternato il suo rimpianto per non aver avuto occasione di discutere con Gianroberto Casaleggio. Nessun riferimento a Davide, da parte di colui che in questo momento riesce a federare tutti gli eletti, in primis deputati e senatori, e tenere insieme Luigi Di Maio e Roberto Fico, in passato non proprio dalla stessa parte (agli Stati generali il presidente della camera ha fatto notare le sue posizioni di minoranza contro l’eccessiva semplificazione dei messaggi e il primato della propaganda).
Resta ancora fuori Di Battista, che ieri su Facebook ha ribadito le sue condizioni su conflitto di interessi, due mandati e autonomia dal Pd per gettarsi nella mischia sotto le insegne pentastellate, le stesse elencate nel suo intervento di domenica, curiosamente sottolineando che tre di esse sono particolarmente imprescindibili: forse c’è margine di trattativa. «Ieri non ho parlato a titolo personale ma portando la voce di migliaia di iscritti che mi hanno votato», dice Di Battista facendo da risonanza a chi (e tra di essi anche Davide Casaleggio) hanno protestato perché i dati delle preferenze non sono stati resi pubblici.
Ma il notaio che ha gestito la consultazione ha fatto sapere che la busta che contiene il documento coi voti di ciascun candidato è sigillata: nessuno nel M5S conosce quei numeri. Dal vertice per di più fanno sapere: «Qualunque fosse quell’esito, non bisogna confondere per cosa si votava: gli iscritti esprimevano un parere su chi dovesse parlare, dicevano chi volevano ascoltare. E questo non equivale automaticamente a un indice di gradimento».
* da il manifesto - 17 novembre 2020
La pubblicazione dell’intervento non comporta la totale condivisione dei contenuti
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