Ombre sul futuro del Paese. Il commento del giornalista e insegnante Karim Metref
di Federica Zoja *
Il primo novembre, poco più del 23 percento dei cittadini algerini aventi diritto al voto si è recato alle urne in occasione del referendum costituzionale sulla riforma voluta dalla presidenza di Abdelmajid Tebboune. Non essendo necessario il raggiungimento di un quorum, gli emendamenti sono stati comunque approvati in virtù – secondo i dati ufficiali – del 67 per cento dei voti favorevoli.
Le opposizioni, che avevano chiesto alla popolazione di boicottare l’appuntamento, cantano vittoria, convinte di aver così indebolito governo e presidenza. Hirak, movimento di protesta anti-governativa nato nel febbraio del 2019, seppure vittima di una forte repressione, continua a invocare l’avvio di un processo democratico.
“Tra il tasso di partecipazione fornito dalle autorità e la verità, bisogna dividere ancora per dieci…”, commenta caustico Karim Metref, giornalista, blogger ed educatore algerino che vive e lavora a Torino.
Secondo gli osservatori, l’astensionismo ha toccato il suo record storico. E’ così?
In realtà, niente di diverso rispetto alle presidenziali del dicembre 2019 (le prime dopo l’uscita di scena di Abdelaziz Bouteflika, dimissionario nel mese di aprile, ndr), solo che allora, con più convinzione, il regime cercò di dare legittimità al voto portando ai seggi agenti e militari in borghese, dipendenti pubblici. Questa volta, è mancato un consenso omogeneo all’interno degli stessi apparati. Per esempio, alcuni reparti delle Forze Armate di sensibilità araba hanno avuto da ridire sugli emendamenti relativi all’identità della minoranza Amazigh e alla lingua Tamazigh: le modifiche, alla fine, sono state ridimensionate.
I detrattori della riforma parlano di modifiche di facciata e di rafforzamento delle prerogative del capo dello Stato e dell’esercito. Un cambiamento grosso, però, c’è: l’abbandono del tradizionale non interventismo militare algerino. Le Forze Armate potranno partecipare a esercitazioni, operazioni di peace keeping e peace enforcing all’estero sotto l’egida di Onu, Unione Africana e Lega Araba.
Sì, viene meno proprio un principio anti-coloniale dell’Algeria indipendente: la non ingerenza negli affari degli altri Paesi. Evidentemente, il secondo esercito africano, quello algerino appunto, interessa a più attori regionali ed internazionali. L’Algeria, lo ricordo, assorbe il 30 per cento delle spese militari del continente africano.
Si prospetta un attivismo militare algerino nei teatri regionali, forse?
Difficile a dirsi. Certo è che in Libia, l’Algeria è l’unico Paese in grado di intervenire. E probabilmente è già intervenuta con l’aviazione per bloccare l’Isis (nell’estate del 2014, raid notturni mirati su postazioni jihadiste fecero terra bruciata della nascente provincia del califfato in Libia. In assenza di rivendicazioni certe, gli osservatori li attribuirono all’Egitto, agli Emirati arabi, a Israele o ad Algeri). Per effetto degli accordi di Camp David, invece, l’aviazione militare egiziana non è in grado.
La domanda è d’obbligo: qual è il posizionamento del regime algerino rispetto alla Turchia? Si sta forse formando un nuovo asse a vantaggio di Tripoli?
Sulla Libia, Ankara e Algeri non stanno certamente sulla stessa linea. La Libia, comunque, non è l’unica fonte di instabilità per l’Algeria: si pensi al Mali. Quanto, invece, agli interessi di attori regionali, ricordo le pressioni di Riad su Algeri ai tempi dell’intervento in Yemen (marzo 2015), tutte vane…
Tornando al referendum, la riforma è stata presentata come risposta adeguata alle aspettative degli attivisti di Hirak. Perché un boicottaggio così totale?
Perché non solo non introduce i cambiamenti veri, sostanziali, chiesti dalla società civile e dalle opposizioni politiche, ma nemmeno c’è stato un tentativo di coinvolgerli nel processo costituzionale. Un astensionismo come questo è uno schiaffo alla legittimità di governo e presidenza.
I progetti del regime algerino, qualunque essi siano, rischiano di restare alla fonda. Secondo la stampa saudita, il presidente Tebboune sarebbe in coma.
Sì, le voci si rincorrono. Ufficialmente è stato portato d’urgenza in Germania per cure. I sauditi dicono che è grave, in coma. Tutte le possibilità sono aperte: Covid, avvelenamento. E così l’Algeria oggi è un Paese a rischio instabilità totale, anche se il generale maggiore Saïd Chengriha è una figura più moderata rispetto al suo predecessore (Ahmed Gaid Salah, capo di stato maggiore dell’esercito algerino, deceduto nel dicembre 2019): lui potrebbe aprire ad una nuova fase di dialogo politico e sociale fra le diverse anime algerine, potrebbe essere il momento giusto.
Una via tunisina, insomma..
Sì. Anche nell’opposizione c’è interesse per una soluzione alla tunisina. Bisognerebbe sfruttare il momento. Oggi c’è forte diffidenza nei confronti dell’esercito: la gente accusa i generali di essere i primi responsabili della situazione attuale. La speranza è che, complici giovani ufficiali, l’esercito recuperi un ruolo di garanzia.
Il dialogo politico non può prescindere da un’azione di rilancio economico. Quanto è grave la situazione a suo giudizio?
Rispetto ai Paesi vicini, l’Algeria ha il vantaggio di non avere debiti con le istituzioni internazionali, grazie ai capitali derivanti dal settore degli idrocarburi. Si sa, però, che nell’arco di 20 anni le riserve algerine saranno esaurite. I nodi verranno al pettine, così come l’esigenza di veri programmi produttivi. Niente più infrastrutture colossali che non hanno effetti di lungo periodo.
L’Algeria sembra avvicinarsi sempre più al burrone. Quali le strade alternative a questo punto, secondo lei?
Non c’è scelta, se si vuole evitare il peggio. Bisogna trovare la forza per la creazione di un’Assemblea costituente, accettare al tavolo negoziale tutte le voci della società, lavorare per una transizione vera.
* da reset.it - 10 Novembre 2020 ( Karim Metref vive e insegna a Torino )
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