di Marco Grisenti *
Che diritto
abbiamo noi esseri umani di determinare lo stato del pianeta? Noi, specie
sommamente “evoluta”, capace già 50 anni fa di sbarcare sulla Luna, abbiamo le
potenzialità di sciogliere i ghiacchi, di muovere oceani, desertificare
territori ed estinguere animali selvatici. Come esattamente siamo arrivati ad
avere questa forza? Questo privilegio che ci siamo arrogati? La
questione non si riferisce più al fatto se lo facciamo o meno – parlo di cambiare il clima - perché in fin dei conti
sono due mila anni che influiamo sul cambiamento climatico, come puntualizzato
dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC),
ma vuole sottolineare che fino a poco tempo fa lo facevamo del tutto
involontariamente.
Oggi siamo
molto più consapevoli che la nostra azione condiziona pesantemente il clima
(benché neppure i più sofisticati modelli scientifici non possono prevedere gli
effetti con esattezza). Di converso abbiamo anche nuovi strumenti e nuove
tecnologie per modificare positivamente lo stato del pianeta. Perché non lo
facciamo?
Perché
emergono tutti questi impedimenti alla lotta al riscaldamento globale? Perché,
data l’evidenza, non agiamo come Greta Thunberg ci consiglia di fare,
dalla sede dell’ONU, dimezzando le nostre emissioni in
una decina di anni (nel 2028 avremo raggiunto il nostro limite di emissioni di anidride carbonica), scongiurando una volta per
tutte l’apocalittico cambiamento climatico?
Purtroppo,
per varie ragioni. Prima fra tutti: il “noi”, soggetto della frase precedente,
non esiste. Se partiamo dal concetto di libertà individuale, necessariamente
quel noi non puó coinvolgerci tutti. Non vi è nessuna omogeneità di
opinioni da parte della popolazione mondiale sul nodo del climate
change, come su qualsiasi altro tema. Bensì, continuano a moltiplicarsi
le infinite sfumature di prese di posizione, in un ventaglio che va dai puri
negazionisti agli scienziati ed attivisti più accaniti, sostenitori di Greta,
probabilmente suoi manipolatori, ma poco importa. Certo l’opinione di un
climatologo sarà più scientificamente fondata e robusta rispetto all’ottuso
negazionista, e a tutta la bifolcheria che ha votato per leader in rotta con le
idee ambientaliste. Ma allora, per forza di cose, il cerchio si restringe, e si
rimane in relativamente pochi “noi” rispetto alla popolazione mondiale di
partenza.
Quello che
si potrebbe fare è mettersi tutti d’accordo sulle procedure da seguire per
prendere decisioni, decisioni che inevitabilmente saranno un risultato
collettivo che rispecchierà una media del famoso ventaglio di “nostre” opinioni. Né più, né meno. Senza ricorrere a un meccanismo di
ricatto morale che tiri in ballo un’adolescente, che per quanto ripeta in coro
cose sacrosante, non lo fa a nome e rappresentanza di tutti quei “noi”.
Peraltro utilizzando un taglio comunicativo quantomeno discutibile, aggressivo,
quasi dannoso. L’importante è informare, riportando i dati ufficiali e gli
studi certificati, senza i quali non ci sarebbero manifestazioni,
mobilitazioni, e nemmeno soluzioni da mettere sul tavolo. Visionare le
previsioni e prenderle sempre con la dovuta cautela. Il problema del
cambiamento climatico è un problema serio, che va affrontato in maniera seria e
razionale, non schierando, in una battaglia fra gruppi estremisti, il partito
dei credenti contro il partito dei negazionisti, secondo un folle atteggiamento
manicheo. Perché così si rischia di fare danni, davvero evitabili. Non si
vuole dividere l’opinione pubblica in una guerra tra religioni, quello è già compito
dei populisti, semmai la vogliamo far avvicinare a questi temi.
Dunque le
gravi questioni ecologiche, il riscaldamento globale, sono fenomeni veri e
palpabili, ma come si possono arrestare? Qui subentra l’altra ragione: le soluzioni diffuse dai sostenitori
dell’adolescente richiedono la riduzione, a livello globale, del 45-50% delle emissioni di CO2
prodotte dall’uomo nell’arco di tempo che ci separa dal 2030 per mantenere
l’incremento delle temperature di 1,5 °C; altrimenti sarà troppo
tardi e le conseguenze saranno irreversibili. Ora, tralasciando il fatto che la
visione citata appartiene forse alla coda più catastrofica della distribuzione
statistica di probabilità degli scenari futuri dei prossimi 11 anni – che a sua
volta è il risultato di una moltitudine di modelli, che per quanto sofisticati,
mai prenderanno in considerazione tutte le variabili in gioco, soprattutto i
possibili cambiamenti tecnologici – queste soluzioni mi paiono tutt’altro che
fattibili. Incitare il mondo a stravolgere i propri stili di vita, per
abbattere radicalmente le emissioni, e dichiarare che solo in questo modo
potremmo salvarci dall’Apocalisse, sono obiettivamente affermazioni che creano
terrore e impotenza. E non sono soluzioni. Già, perché per bloccare
le emissioni di gas serra (GHG) occorre
porsi, contemporaneamente, la questione della crescita socio-economica di circa 2 miliardi di persone che al
mondo vivono in condizioni di povertà, e di altri 3,5 miliardi che –
non tutti, ma in buona parte - aspirano a un benessere del quale, ad oggi, solo
1,5 miliardi di persone fanno parte. Come fare?
Ed arriviamo
all’altra causa: attualmente non vedo fattibile l’ipotesi secondo la
quale, noi mondo sviluppato, decidiamo di ridimensionare drasticamente i nostri
standard di vita (del 50%?) nel giro di pochi anni (manca poco al 2030), e
simultaneamente convinciamo i 5 e più miliardi di popolazione mondiale che vive
con redditi annui di 3, 4, 6 mila dollari all’anno, a rimanere così come
stanno, ovvero a non incanalare il processo di industrializzazione che noi
occidentali abbiamo seguito. India, Africa, America Latina tutti inclusi.
Tra l’altro, anche in quelle zone del mondo si emette CO2 con buone intenzioni,
per salute, educazione, nutrizione col fine di sradicare la povertà.
I paesi
sviluppati dovrebbero certamente fungere da esempio, e in un certo senso lo
stanno facendo. La conversione a un’economia più green sta già succedendo,
puntando su produzione energetica, sviluppo tecnologico, stili di vita più
puliti ed a più basse emissioni. La riconversione industriale auspicata dal
partito verde in Germania (con la creazione di nuovi posti di lavoro), le auto
elettriche, il consumo responsabile, le diete a minor consumo di carne,
latticini e derivati, le energie rinnovabili e pulite (l’energia nucleare è una
di queste), le varie carbon tax, etc. Sono tutti meccanismi d’incentivo
e disincentivo economico che colpiscono imprese e stati, che in Europa vanno a
pennello, ma che comunque non possono prescindere dall’uso di combustibili
fossili, a meno che non siamo tutti disposti a tornare alle condizioni di vita
del dopoguerra. La verità è che l’economia verde non è ancora pronta per
essere l’alternativa, perché troppo costosa, neppure nei paesi avanzati. E
nel Sud del mondo? Gli aiuti umanitari e i fondi di investimento ambientali
contro il cambiamento climatico aumentano di anno in anno, ma sono operazioni
marginali, per quanto nobili. Generalmente gli stessi che urlano la necessità
di fermare lo sviluppo e salvare il pianeta, si sgolano anche sull’estrema
necessità di trasferire ricchezza, di far crescere e migliorare gli stili di
vita di quei 2 miliardi di individui indigenti (il numero aumenta se ci
includiamo anche la famiglia povera italiana, o greca). Ma come? Con sussidi
insostenibili?
Senz’altro,
dobbiamo aumentare i nostri investimenti in ricerca e sviluppo a favore del
clima, incrementare i fondi destinati all’educazione e alla sensibilizzazione,
ed i sistemi di trasferimento di energia pultia e risorse ai paesi meno
avanzati. Ma non si esce così facilmente dalla rivoluzione industriale
nella quale ci siamo impantanati. Queste misure devono essere accompagnate da
proposte di politica economica concrete e rigorose, ancora troppo timide.
Se, come ci sgrida Greta, non attuiamo ancora per fermare il cambiamento
climatico non è perché siamo “malvagi”. Non credo che le generazioni future
“non ci perdoneranno mai” per il nostro atteggiamento, se avremo dato priorità
alla salute, all’educazione ed al benessere di tutti i “noi”.
* da www.unimondo.org - 7 Novembre 2019 foto da : lavocedinewyork.com
Marco Grisenti
è trentenne laureato in Analisi Finanziaria. Ha vissuto in Inghilterra,
Estonia, Spagna, Lussemburgo. Nel 2014 ha passato un anno in Unicredit a Milano.
Nel 2015 in Guatemala ha lavorato per una ONG impegnata nello sviluppo di
imprese sociale. Da fine 2015 vive a Quito e lavora come analista per Microfinanza Rating realizzando valutazioni
finanziarie e di impegno sociale a organizzazioni di microcredito in America
Latina.
( la pubblicazione dell’intervento non comporta la totale
condivisione )
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