di Davide
Mazzocco *
Le emissioni di CO2 continuano ad aumentare nonostante
l’accordo sottoscritto nel dicembre 2015
La Cop25
di Madrid si è conclusa con un nulla di fatto. Dopo due settimane di lavori
e un epilogo che ha costretto i partecipanti a fare gli straordinari, nella
sessione conclusiva è stata riconosciuta l’esigenza di agire urgentemente
contro i cambiamenti climatici, ma non si è raggiunto un accordo sulle
questioni pratiche e sui vincoli necessari a ridurre le emissioni di CO2.
La Cop26 che
si terrà a Glasgow nel novembre 2020 obbligherà i 196 Paesi e l’Ue a
presentare i nuovi Piani Nazionali per restare nei parametri dell’Accordo di
Parigi: il limite di 2°C sopra la temperatura media terrestre
pre-industriale dovrà scendere a 1,5° C per evitare che la crisi climatica
diventi insostenibile per miliardi di persone. Mantenendo gli attuali trend si
arriverebbe a un +3,2° C entro la fine del secolo; in termini pratici, per
rimanere all’Italia, significherebbe avere degli Appennini desertificati
e delle Alpi “appenninizzate”, con la perdita di gran parte dei ghiacciai.
Ma che cosa
stanno facendo i Paesi che, quattro anni fa, hanno sottoscritto l’Accordo di
Parigi? Grazie ai dati di Global Carbon Project siamo in grado di capire
che cosa è cambiato fra il 2015 e il 2018 ovverosia nel primo triennio
successivo alla Cop21. Nel corso del 2018 l’emissione globale di CO2 è stata di
36.573 MtCO2: gli Stati Uniti (5.416 MtCO2) hanno prodotto il 14,80% di
queste emissioni, mentre la Cina (10.065 MtCO2)
ha contribuito al 27,52%. Le due grandi potenze economiche globali hanno
prodotto il 42,32% delle emissioni globali, mentre l’Unione Europea ha
contribuito con 3.445 MtCO2 ovverosia il 9,41% delle emissioni complessive. L’Italia
con 334 MtCO2 contribuisce alle emissioni con uno 0,92%.
Se si
dividono le emissioni totali per il numero di abitanti scopriamo che la Cina è
solamente al 39° posto nella classifica degli stati inquinatori con una media
di 7 tonnellate di CO2 pro capite all’anno, mentre gli Stati Uniti si piazzano
al 12° posto con 17 t/CO2 annue per persona. La Cina (1.394 milioni di
abitanti) con il 18,34% della popolazione mondiale emette il 27,52% della CO2
globale, gli Stati Uniti (328 milioni di abitanti) con il 4,31% della
popolazione emettono il 14,80% della CO2 del nostro Pianeta. Il maggiore
emettitore? È il Qatar, con 38 t/CO2 per persona.
Grazie al Global Carbon Atlas è possibile capire che
cosa sia successo fra il 2015 e il 2018 ovverosia fra l’anno della Cop21 e
l’ultimo anno statisticizzato. In questo triennio non vi è stata alcuna
riduzione delle emissioni, anzi, dalle 35.239 MtCO2 del 2015 si è passati alle
36.573 MtCO2 del 2018, con un + 3,78%. Concentrando l’analisi sui singoli Paesi
vediamo come gli Stati Uniti (-0,12%) e l’Unione Europea (-2,04%) siano
riusciti a diminuire le loro emissioni, mentre la Cina (+3,58%) ha
ulteriormente aumentato il proprio contributo all’inquinamento globale.
Il combinato
dell’esplosione demografica e dell’industrializzazione asiatica ha quasi
triplicato le emissioni globali nell’ultimo mezzo secolo. Dai 12.849 MtCO2 del
1968 ai 36.573 MtCO2 del 2018 l’incremento è stato del + 184,64%. In
cinquant’anni le emissioni statunitensi sono aumentate del 41,48% (3.828 MtCO2
nel 1968), mentre in Cina sono cresciute di venti volte (+2050,64%).
Esaminare i
dati nel loro sviluppo diacronico permette di comprendere le ragioni del segno
più nella Repubblica Popolare Cinese, la “fabbrica del mondo” che non può
permettersi di frenare la propria economia, nonostante gli sforzi compiuti
negli ultimi anni per convertirsi alle energie rinnovabili e limitare le emissioni. Fra
il 2004 e il 2018, in appena quattordici anni, si è assistito al raddoppio
delle emissioni da parte dei due grandi giganti asiatici: l’India è
passata da 1.146 MtCO2 a 2654 MtCO2 (+131,59%), mentre la Cina è cresciuta da
5.126 MtCO2 a 10.065 MtCO2 (+96,35%). In questo stesso periodo il Giappone
ha ridotto le proprie emissioni del 9,43%, passando da 1.283 MtCO2 a 1.162
MtCO2.
E la nostra
Penisola? I dati sulle emissioni ci dicono che l’Italia è stata a lungo
fra le nazioni che hanno maggiormente contribuito alle emissioni di CO2. Fra il
1960 e il 1989 l’Italia ha compiuto un’oscillazione fra l’undicesima e la
dodicesima posizione fra i grandi emettitori di CO2. Nel 1973 e nel 1974 è
stata per un biennio al 10° posto. Ma è stato fra il 1990 (l’anno in cui
l’Italia ha ospitato i Mondiali di calcio) e il 2006 (l’anno in cui l’Italia ha
ospitato le Olimpiadi invernali) che il nostro Paese è stato stabilmente fra i
10 maggiori emettitori di CO2. Con la recessione iniziata nel 2007 e l’ascesa
dei Brics, l’Italia è progressivamente scesa fino al
19° posto. In termini quantitativi, lo storico delle emissioni italiane inizia
con 109 MtCO2 nel 1960, progredisce sino a 495 MtCO2 del 2004 e del 2005 per
poi scendere fino ai 338 MtCO2 del 2018. Ciò significa che in tredici anni le
emissioni di CO2 in Italia sono calate del 31,72%.
Gli undici
mesi che ci separano dalla Cop26 di Glasgow saranno decisivi e coincideranno
con il rush finale delle presidenziali statunitensi. Il negazionista in capo Donald Trump proverà a farsi rieleggere,
mentre dall’altra parte dell’Atlantico l’Unione Europea cercherà di capire come
il probabile accordo commerciale con la Cina possa conciliarsi in maniera
armonica con le decisioni prese quattro anni fa a Parigi. Intanto la sabbia
continua a correre velocemente nella parte bassa della clessidra…
* da www.ehabitat.it/ - 13
gennaio 2020
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