di Fernando D‘Aniello *
In una
lettera dal carcere di pochi mesi fa, Abdullah Öcalan chiedeva ai Curdi in Siria di
insistere per una soluzione democratica e costituzionale del conflitto, vale a
dire capace di tenere insieme Curdi e arabi e di salvaguardare l’integrità del
Paese, e a quelli in Turchia di concludere lo sciopero della fame contro
l’isolamento in carcere proprio del leader curdo e di altri attivisti e di non
occuparsi delle elezioni a Istanbul, perse nuovamente
dalla coalizione del presidente Erdoğan
dopo che un primo voto era stato annullato dall’Alta commissione elettorale.
Öcalan
riesce così ad esprimere una tendenza presente davvero in tutto il movimento
curdo, come sempre diviso su tutto il resto. Di fronte a un panorama
internazionale complicato e in continua evoluzione, segnato dalla tensione
crescente tra Stati Uniti e Iran, i Curdi, nonostante le divisioni e i loro
obiettivi spesso divergenti, sono disposti a trattare.
In Iraq, in
Siria, in Turchia, le forze curde, con estremo realismo, si rivelano pronte ad
avviare, dopo la sconfitta militare dello Stato islamico, una fase nuova, a
discutere con i loro tradizionali nemici. Certo, c’è in qualche caso una buona
dose di ipocrisia e di opportunismo, come nel rapporto tra Arbil e Baghdad, ma
questa diponibilità non andrebbe sottovalutata e, anzi, sarebbe necessaria una
strategia europea nell’intera area, sino ad oggi del tutto assente.
La Turchia è
particolarmente attiva sul suo confine meridionale, con l’Iraq o, più
precisamente, con la Regione autonoma del Kurdistan, e con la Siria,
dove si è ormai stabilizzata l’autonomia controllata dalle Forze democratiche
siriane (un esercito misto, curdo e arabo, egemonizzato dalle milizie curde YPG
(Yekîneyên Parastina Gel), le Unità di protezione popolare). È con l’inizio della
guerra in Siria che Erdoğan ha accarezzato sogni di un’estensione
dell’influenza turca in tutta l’area, sacrificando anche il processo di pace
interno avviato con la leadership curda. A distanza di anni da quelle scelte,
il presidente turco sembra aver fatto male i propri calcoli: il suo consenso
interno comincia a incrinarsi e la politica estera, che voleva restituire al
Paese una sorta di primato nell’area mediorientale, sembra ormai arrivata al
punto critico tra la storica fedeltà turca a Washington e il recente abbraccio
con Mosca.
La
penetrazione turca nel Kurdistan del Nord Iraq è una realtà consolidata, la
Regione curda, o quantomeno gran parte di essa, è economicamente legata a
doppio filo ad Ankara. I politici curdi, nonostante i “nuovi”
protagonisti, insediatisi nelle ultime settimane, confermano la tradizionale
linea di accordo e sostegno al governo turco, che continua a chiedere maggiore
decisione nel contrasto al PKK (Partîya Karkerén Kurdîstan), il Partito dei
lavoratori del Kurdistan, e che, ormai da anni, bombarda quelle che ritiene
siano postazioni del partito curdo attivo in Turchia. L’assassinio di un diplomatico
turco (secondo il PKK in realtà un agente dei servizi turchi) il 17 luglio ad
Arbil è da considerarsi una vendetta contro gli attacchi aerei del 5 luglio che
costarono la vita ad un militante del PKK.
Da parte
della leadership dei Curdi iracheni questa linea non è destinata a mutare: per
ora la priorità è un accordo di lungo periodo con Baghdad, una soluzione
pacifica e ‘costituzionale’ per la questione delle aree contese (su tutte,
Kirkuk) e il rafforzamento delle relazioni con gli Stati vicini, dopo
l’isolamento dovuto al referendum sull’indipendenza del 2017; la solidarietà
infracurda, che comunque ad Arbil non ha mai giocato un ruolo, dovrà attendere
ancora.
Sul confine
siriano, le cose vanno diversamente. Qui le forze curde, per il loro profondo legame
con il PKK, sono da sempre considerate da Erdoğan una minaccia. Per questo
motivo le truppe turche hanno invaso, all’inizio dello scorso anno, l’area
intorno ad Afrin
fino all’Eufrate e, dalla fine del 2017 (in contemporanea con l’annuncio del
presidente Trump di
ritirare le forze dalla Siria), tornano a farsi insistenti le voci di un nuovo
attacco (per l’occupazione di Manbij e poi per la creazione di una fascia di
sicurezza lungo il confine di almeno 30 km). Del resto, Erdoğan ha bisogno di
una nuova vittoria in politica internazionale, dopo la sconfitta politica e il
malessere dell’economia turca, e, soprattutto, dell’occupazione di aree siriane
nelle quali far ritornare i profughi che ha accolto in seguito agli accordi
dell’Unione Europea (strategia che punta ad alterare il complicato equilibrio
demografico della zona). Ecco perché da mesi la Turchia ammassa truppe
sull’Eufrate e da settimane circolano notizie, rivelatesi poi sempre false, di
attacchi curdi alla popolazione araba, finalizzate a screditare il buon lavoro
(pur tra mille ostacoli, ritardi e contraddizioni) realizzato in cooperazione
tra le varie componenti etniche dall’amministrazione autonoma nel Nord-Est.
Un attacco
turco, però, potrebbe rappresentare un nuovo conflitto con gli Stati Uniti, che
hanno sostenuto sia le Forze democratiche siriane, sia, dall’inizio del conflitto,
le YPG. Anche se si suppone che Erdoğan continui a preferire un rafforzamento
dell’asse con Mosca e Teheran e, a tal fine, accettare un ulteriore
inasprimento delle relazioni con gli Stati Uniti (rapporto deterioratosi a
partire dal fallito colpo di Stato del 2016 e recentemente compromesso anche
dalla questione dell’acquisto da parte turca del sistema di difesa missilistico
russo S-400), bisogna ammettere che la politica turca non potrà così facilmente
continuare a sottrarsi dal richiamo del suo grande alleato storico, soprattutto
se i rapporti tra Washington e Teheran dovessero precipitare. Per quanto
l’ipotesi di una certa distanza da Washington sia maturata nell’élite turca già
negli anni Novanta, dopo il primo conflitto in Iraq – basti pensare alle idee
dell’ex primo ministro, in passato molto vicino a Erdoğan, Davutoğlu
– la politica del presidente turco è stata sin qui capace di equilibrismi molto
arditi; un simile capovolgimento strategico e geopolitico potrebbe però
rivelarsi tutt’altro che semplice e indolore: che Erdoğan riesca non solo a
scuotere lo status quo, ma anche a rivoluzionarlo è tutto da dimostrare.
Inoltre,
proprio le relazioni con Mosca imporrebbero una politica turca sulla Siria più
saggia e articolata: il recente comunicato di
Astana esclude iniziative che attentino all’integrità dello
Stato siriano e, sebbene la Turchia proprio con l’occupazione di Afrin
(concordata con o quantomeno accettata dalla Russia) sia andata esattamente in
questa direzione, una nuova operazione militare turca su vasta scala a est
dell’Eufrate potrebbe compromettere anche i rapporti tra Ankara e i suoi nuovi
alleati. E questo per due ragioni.
Da un lato i
Curdi siriani sembrano, come ricordato, disponibili al compromesso,
tramite il rafforzamento dello status quo, ovvero concedendo, anche
grazie ad una mediazione americana, una lingua di terra (non i 30 km chiesti
dalla Turchia, ma molti di meno) per le forze di sicurezza turche, un’ulteriore
zona smilitarizzata posta sotto il controllo internazionale e il ripiegamento
verso est e sud delle truppe YPG e nessuna condizione sull’evacuazione turca di
Afrin. Ankara non può non tener conto di questa disponibilità, soprattutto se
l’interlocutore dei Curdi restano gli Stati Uniti e se l’alternativa può essere
un conflitto cruento
in tutto il Nord-Est della Siria con possibili ripercussioni
sulla stabilità di tutta l’area (a cui aspira anche la Russia).
Dall’altro
canto, lo stesso governo di Damasco vuole individuare una cornice istituzionale
nella quale chiudere il lunghissimo conflitto siriano. Il federalismo potrebbe
essere il necessario presupposto per l’avvio di una stabilizzazione della Siria
e potrebbe essere una strada preziosa nella quale indirizzare gli sforzi
europei, sino ad oggi inesistenti. Le critiche al modello federale dimenticano
che proprio gli Stati Uniti hanno organizzato l’Iraq post-Saddam
con una logica simile, salvo poi disinteressarsi del suo sviluppo. Un progetto
federale significherebbe il riconoscimento dell’autonomia curda, nel Nord del
Paese, all’interno di una compagine siriana unita, sul modello di quanto
realizzato in Iraq. Certo, il modello iracheno non ha fino ad oggi funzionato
in modo eccellente, tutt’altro, e, tuttavia, va sempre tenuto presente che
proprio la nascita dello Stato islamico
è la manifestazione più evidente dei rischi determinati da scelte
centralistiche e eccessivamente di parte. Un modello federale, con le dovute
differenze tra Siria e Iraq, potrebbe garantire quella minima stabilità che
appare davvero indispensabile a tanti anni dall’inizio del conflitto civile
siriano. E potrebbe costituire la cornice istituzionale migliore anche per la
ricostruzione del Paese e la gestione, estremamente complicata, dei militanti
dello Stato islamico, tutt’ora attivi.
nella foto: Adolescente con la bandiera del Kurdistan nel Nord dell'Iraq
(2019)
* da www.treccani.it - 6 agosto 2019
Nessun commento:
Posta un commento