di Marina Forti *
L’Etiopia sta affrontando la siccità più grave
dell’ultimo mezzo secolo e all’inizio dell’anno ha lanciato un appello alle
agenzie umanitarie internazionali: oltre 10 milioni di persone sono sull’orlo
della fame. L’Etiopia però è anche uno dei «casi di successo» dell’economia
mondiale, o almeno così viene descritta: l’economia è cresciuta in media del 10
per cento nell’ultimo decennio, Addis Abeba si popola di grattacieli, le
imprese straniere fanno la coda per investire. Sembrano dati inconciliabili, ma
stiamo parlando dello stesso paese.
L’Etiopia è il secondo paese africano per popolazione,
97 milioni di abitanti. In oltre un milione di chilometri quadrati di
superficie comprende regioni molto diverse, più o meno densamente popolate,
dagli altopiani fertili alle zone umide occidentali fino a regioni semi
desertiche. Scatenata dal fenomeno meteorologico chiamato el Niño, la siccità
ha colpito queste ultime, le regioni più fragili, quelle nord-orientali del
paese, Tigray e Afar: zone già normalmente aride che vivono di agricoltura di
sussistenza e allevamento itinerante.
Secondo le agenzie umanitarie la situazione è anche
peggio che nel 1984, quando la carestia uccise oltre un milione di persone. Nel
dicembre scorso l’Onu ha dichiarato che a causa del crollo dell’economia agro-pastorale,
ormai 10,2 milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria. Il
ciclo siccità-carestia è inesorabile. Un raccolto mancato costringe le famiglie
a mangiare le riserve, e senza aiuti non riusciranno a seminare nella stagione successiva.
Nel frattempo i pascoli sono disseccati e il bestiame va macellato o muore. Se
poi anche il raccolto successivo fallisce, è la fame. Questa mappa dell’insicurezza alimentare,
ripresa dal “sistema di allarme precoce” dell’Onu, mostra come l’impatto della
siccità si sia esteso dall’estate scorsa. E le previsioni non sono affatto
buone: secondo i bollettini delle agenzie umanitarie il peggio deve ancora
arrivare. (La crisi del resto non è confinata all’Etiopia, avverte la Fao).
La meteorologia però è solo una delle cause. Le altre
rimandano alla politica e l’economia, in particolare le politiche agricole, la
disponibilità di sementi e fertilizzanti, gli sbocchi di mercato per chi
coltiva, i prezzi delle derrate, la proprietà della terra, il mercato del
lavoro. Il fatto è che l’Etiopia ci è stata descritta negli ultimi quindici
anni come un paese che, uscito da un ciclo di guerre, ha imboccato la via dello
sviluppo e ora registra una crescita economica tra le più veloci al mondo. In
effetti il Prodotto interno lordo è cresciuto nell’ultimo decennio intorno al
10 per cento annuo.
Un paese che decolla: le immagini di una luccicante
Addis Abeba sono là a confermarlo. E anche i faraonici (e contestati) progetti
idroelettrici, dalle diga Gibe III in costruzione sul fiume Omo alla Gran
Ethiopian Renaissance Dam, in costruzione sul Nilo Blu, che sarà il più grande
impianto idroelettrico in Africa. Il governo etiopico ci ha investito 5
miliardi di dollari (con finanziamenti di banche cinesi). È ben per questo che
il governo etiopico ha tardato a chiedere aiuto alle agenzie internazionali per
far fronte alla siccità: per non contraddire la sua immagine di economia
emergente dell’Africa, perché punta a entrare tra i paesi “a medio reddito”. In
prima battuta dunque ha cercato di fare da sé. L’Etiopia produce normalmente
oltre il 90 per cento del cibo che consuma, leggiamo su un dispaccio di Irin, agenzia di informazioni umanitarie: l’anno scorso il raccolto di
cereali è stato intorno a 23 milioni di tonnellate, e l’import annuale circa
1,2 milioni di tonnellate (cioè il 5 per cento). Anche se il 2015 e il 2016
sono state annate cattive, il paese è in grado di nutrire i propri cittadini, o
per lo meno la stragrande maggioranza.
Di fronte alla crisi dunque il governo di Addis Abeba
ha avviato un programma detto Productive Safety Net, un sistema di
lavori pubblici a infrastrutture rurali che permette di dare lavoro a circa 6
milioni di persone in cambio di piccoli salari e generi alimentari, anche
grazie a un sistema di distribuzione pubblico delle riserve alimentari. Per la
distribuzione di aiuti alimentari il governo ha stanziato 190 milioni di
dollari, e per trasportare le derrate ha accelerato l’apertura della nuova
ferrovia tra Gibuti e Addis Abeba, costruita dai cinesi. Una capacità di
risposta simile non esisteva nel 1984, va riconosciuto. Questo però non ha
impedito che la siccità si trasformasse in un disastro, fino a costringere il
governo a lanciare l’appello all’Onu. Il fatto è che le circostanze estreme
hanno acutizzato e reso visibili disparità interne sempre più forti. L’Etiopia
sarà anche in crescita tumultuosa, ma resta un paese di grande povertà (qui la scheda della Banca Mondiale). Nella capitale spuntano nuove zone residenziali, ma
l’80 percento della popolazione vive di un’agricoltura che dipende dalle
piogge. Il Pil cresce ma il paese resta dipendente da aiuti stranieri, che
negli ultimi anni sono arrivati a coprire tra il 50 e il 60 per cento del
bilancio nazionale. I grandi progetti di dighe sono contestati (a proposito: in
tutti questi progetti sono coinvolte imprese italiane) e le zone coinvolte restano off
limits per giornalisti e attivisti sociali: gli attivisti di Re:Common l’hanno constatato di persona. Un aggressivo piano di
investimenti agroindustriali ha suscitato conflitti per la terra, per la verità
soffocati da un governo autoritario (l’ultimo caso è di quest’inverno).
Così, dietro le immagini luccicanti restano fame,
violenza, povertà.
* da www.terraterraonline.org - foto © Eva-Lotta Jansson / Oxfam
America - 19 aprile 2016
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