14 giugno 2009

Creare il Post-Kyoto. The Bonn Climate Change Talks, Second Round (1-12 giugno 2009): più costruttivi ma poco ambiziosi

CHI, QUANTO E IN QUANTO TEMPO dovrà ridurre le proprie emissioni? Sono queste le poste in gioco che non hanno ancora trovato risposta durante il secondo round dei Negoziati preliminari alla 15esima Conferenza delle Parti alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (COP 15 dell’UNFCCC) che si terrà a dicembre a Copenhagen. In tale sede, quanto dovrà essere deciso non è niente di meno che il Regime post-Kyoto, a valersi dal 2013 al 2050.
E al momento non sembrano raggiunti i livelli minimi di riduzione che la “scienza” ci impone per scongiurare gli effetti insostenibili del Cambiamento Climatico.
In questi giorni le proposte avanzate giungono complessivamente a garantire una riduzione, per il 2020, del 25% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990: ben al di sotto dunque del 40% necessario.

I Governi hanno messo una posizione in chiaro: alla Conferenza di Copenhagen un Accordo di (comune?) impegno dovrà essere firmato. Il senso che qualcosa debba essere fatto, e rapidamente, ha dominato a Bonn e questo sembra il maggior risultato dei negoziati di questi giorni. Un risultato striminzito? Yvo de Boer, Segretario Esecutivo della UNFCCC, stima si tratti piuttosto di
un passo assolutamente importante: i Governi sono oggi pronti ad impegnarsi per raggiungere un accordo, “they are committed“. E questo costituisce l’assicurazione più importante per il successo di Copenhagen 2009.

La proliferazione delle proposte avanzate dai diversi Stati, che in più punti si sovrappongono e in altri si contendono, appare invece
come il risultato più tangibile delle trattative. Il testo che dovrà costituire la base dei negoziati al vertice di dicembre (ulteriori round sono previsti in agosto, settembre e novembre) si è dunque gonfiato da 50 a 200 pagine. Scatenando la frustrazione della Ministro danese (Paese ospitante della COP 15 e impegnatissimo in materia) per il Clima e l’Energia, Connie Hedegaard, che vi scorge il rischio di un rallentamento importante dei negoziati e di atteggiamento passo-la-patata-bollente tra gli Stati, quando invece per la prima volta “i delegati pot[evano] discutere i primi veri testi negoziali“.

Quali dunque
le posizioni che si sono “scontrate” a Bonn?
l’Unione Europea presenta le posizioni più avanzate, promettendo riduzioni del 20% per il 2020 rispetto ai livelli del 1990. Tuttavia
non mancano attivisti come Greenpeace che denunciano l’indebolimento della sua capacità di leadership all’interno dei negoziati [consultate a questo proposito il dibattito sulla leadership europea in materia];
gli Stati Uniti e il Giappone minimizzano i tetti alle emissioni che si dicono capaci di rispettare: al 2020, rispettivamente il 4 e l’8% rispetto ai livelli del 1990. Inoltre,
il Giappone ha proposto l’inclusione di Cina, India e Brasile nella “parte attiva della Comunità Internazionale” (ovverosia l’insieme degli Stati tenuti a ridurre da subito le proprie emissioni), in quanto “major emitters economies” e “major contributors” alle emissioni ad effetto serra. Da parte loro, i delegati USA, che devono tener conto della “digeribilità” per il Congresso del futuro accordo sul clima, hanno proposto ai Paesi emergenti e in via di sviluppo di impegnarsi sulle azioni da condurre ma non sul risultato; i grandi Paesi emergenti come Cina, India e Brasile a tale inclusione si oppongono e si sentono pressati ad assumere formalmente tetti alle loro emissioni, pur non essendo inclusi nell’Annesso I alla UNFCCC che comprende i soli Stati (industrializzati) che, per ora, hanno la responsabilità storica (e legale) di ridurre le emissioni. In particolare questi Paesi temono il principio su cui queste richieste vengono avanzate: il criterio della grandezza nell’individuazione delle categorie di Stati. Rischierebbe di trattarsi di un precedente, con tutte le conseguenze di diritto internazionale che ciò implicherebbe;
infine, i Paesi in via di sviluppo, che prima di tutti
soffrono le conseguenze del Cambiamento Climatico, chiedono a gran voce ai Paesi sviluppati di essere ben più ambiziosi e incisivi nei loro obiettivi di riduzione delle emissioni.

Quale il principale limite di questi Negoziati? La compresenza di due tavoli negoziali distinti con diverso mandato giuridico che si occupano però di tematiche profondamente interrelate. Si tratta dell’
eredità di Bali (13esima Conferenza della Parti alla Convenzione ONU, nel 2007) che ha stabilito una Road Map basata su due Gruppi di lavoro:
l’
Ad Hoc Working Group on Further Commitments for Annex I Parties under the Kyoto Protocol (AWG-KP), creato nel 2005, il cui compito è quello di valutare ulteriori impegni per i 37 Paesi industrializzati dell’Annesso I, tra cui i nuovi tetti alle emissioni da rispettare nel Regime post-Kyoto; a Bonn, in questi giorni, se n’è svolta l’8a sessione;
l’
Ad Hoc Working Group on Long-term Cooperative Action under the Convention (AWG-LCA), creato nel 2007, il cui scopo è quello di condurre una riflessione condivisa e delle azioni concrete di cooperazione a lungo termine per permettere il pieno raggiungimento degli obiettivi della Convenzione per la Lotta al Cambiamento Climatico, attraverso specificatamente, il disegno del Regime Post-Kyoto; vi sono coinvolti tutti i 192 firmatari della Convenzione e a Bonn vi si è svolta la 6a sessione.

da:Sostenibilità energetica di Giulia Malandrini * Bordeaux (Fr.)
http://sostenibilitaenergetica.wordpress.com/

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