L’esecutivo festeggia l’accordo con l’Algeria per l’aumento delle forniture di gas. Però nel 2014, a cavallo fra i governi Letta e Renzi, usammo Gazprom come assicurazione contro il Maghreb. Chi allora ha voluto quegli accordi, adesso chiede di rompere con Mosca.
di Sergio Giraldo *
È ormai
comunemente accettata l’idea che la crisi ucraina attuale di queste settimane
affondi le sue radici nelle ferite lasciate aperte in maniera incauta nel
2013-14, allorché dai disordini di piazza Majdán si arrivò in pochi mesi
all’annessione della Crimea da parte della Russia. Oggi, con l’invasione
dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin, la priorità dell’Europa è diventata
sostituire il gas russo a tutti i costi e nel più breve tempo possibile, ma
otto anni fa la situazione era assai diversa. Il 23 maggio 2014, infatti, la
Reuters riportava con enfasi la notizia che Eni aveva siglato un importante
accordo con Gazprom (il monopolista russo del gas) per la revisione dei prezzi
dei contratti pluriennali di fornitura di gas.
L’accordo
era effettivamente importante perché permetteva a Eni di sganciarsi dalla
classica formula di indicizzazione del prezzo a un paniere di greggi, che la
stava penalizzando da anni. Dal 2011 infatti il prezzo del petrolio era rimasto
costantemente sopra i 100 dollari al barile, mentre il prezzo del gas nel
nascente mercato europeo mostrava valori assai più bassi. Eni, quindi, comprava
il gas a prezzo (relativamente) alto e lo rivendeva poi sul mercato a prezzo
(relativamente) basso, incamerando perdite consistenti. Il processo di
rinegoziazione, lungo e faticoso, era teso a legare il prezzo del gas
acquistato al nascente mercato spot europeo Ttf (all’epoca mediamente più basso
anche se più volatile), separando così il prezzo del gas da quello del
petrolio. Eni ottenne la revisione proprio pochi giorni dopo che la Crimea con un
controverso referendum aveva deciso per l’annessione alla Russia. Poi, come
spesso capita nei mercati, dall’estate 2014 i prezzi del petrolio subirono un
tracollo lungo due anni, sino a raggiungere il minimo attorno ai 28 dollari al
barile, per cui la forbice tra i due prezzi quasi si annullò, ma la
rinegoziazione portò comunque i vantaggi sperati, anche per il mercato italiano
nel suo complesso. Era molto importante per Eni riuscire in questo tentativo,
anche perché nel frattempo gli altri Paesi fornitori di gas su cui contava
l’Italia, Algeria e Libia, non se la passavano affatto bene. Dopo la fine
violenta del regime di Muammar Gheddafi in Libia, con l’avvio di una complicata
guerra civile che dura tuttora, il Paese era diventato impraticabile, le attività
economiche erano a rischio e le forniture di gas procedevano a singhiozzo.
L’Algeria aveva vissuto la repressione dei disordini della Primavera araba del
2012, ma il vero shock fu l’attacco terroristico di In Aménas nel gennaio 2013.
Un commando di 32 terroristi di Al Qaeda assaltò il giacimento di gas algerino
di Tigantourine, gestito dall’inglese Bp e dalla norvegese Statoil,
sequestrando e tenendo in ostaggio oltre 700 persone tra lavoratori locali,
stranieri e guardie private. Dopo quattro giorni di assedio, l’azione delle
forze di sicurezza liberò il campo, ma alla fine si contarono 29 morti tra i
terroristi e 40 tra gli ostaggi, dipendenti delle compagnie petrolifere (tra
cui dieci giapponesi, cinque norvegesi e cinque inglesi). Lo shock fu enorme e
rallentò seriamente qualunque tipo di attività economica straniera nel Paese.
Un anno dopo, nel gennaio 2014, si verificò una interruzione molto consistente
(-80%) dei flussi di gas dall’Algeria verso l’Italia, cosa che ovviamente mise
in allarme tutto il sistema gas italiano. Venne fuori che il gas proveniente
dall’Algeria mostrava dei tassi di umidità molto al di fuori dalla norma,
dunque era necessario rallentarne l’arrivo e miscelarlo con altro gas per
«asciugarlo». La situazione tornò alla normalità, ma l’episodio pose più di
un’ombra sull’affidabilità del fornitore algerino, oltre che sulla qualità del
gas estratto.
Oggi la
spirale del tempo, beffardamente, ci ha riportato molto vicini a dove eravamo
otto anni fa, ma, come in un negativo fotografico, tutto è ribaltato. Nel
febbraio 2014, dopo piazza Majdán, Enrico Letta da presidente del Consiglio
(ancora per pochi giorni) trovò il tempo di scrivere al Corriere della Sera
un’accorata lettera per giustificare la propria presenza all’inaugurazione dei giochi
olimpici invernali in Russia, ospite di Vladimir Putin («Perché ho deciso di
essere a Sochi»). Ebbene, si tratta dello stresso Enrico Letta che oggi è tra i
più accaniti sostenitori dell’applicazione alla Russia della madre di tutte le
sanzioni, cioè il blocco delle importazioni di gas e petrolio da parte
dell’Europa. Nel maggio 2014, a Crimea annessa, fummo ben contenti che la
rinegoziazione di Eni con la russa Gazprom fosse andata a buon fine, perché
Libia e Algeria non ci davano sufficienti garanzie. Oggi invece, avendo deciso
di fare a meno del gas siberiano, mezzo governo italiano si presenta ad Algeri
per chiedere un po’ più di gas, s’il vous plait, abbandonando in qualche
archivio profondo dubbi e perplessità sull’urbanità, per così dire, della controparte.
Le capriole in politica non sono certo cosa nuova, anzi. Occorre però essere
avvertiti del fatto che, dopo la centesima giravolta, si rischia di perdere il
senso dell’orientamento e forse anche il senso del limite.
* da
laverita.info – 13 aprile 2022
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