di Massimo Marino
La Conferenza sul clima che si è avviata il 1° novembre allo Scottish Exhibition Campus di Glasgow è la quinta dopo COP21 di Parigi, dove si è raggiunto l’accordo sul taglio di almeno il 40% dei gas serra entro il 2030 ( portato al 55% nel 2020) senza però stabilire nella pratica come raggiungere l’obiettivo che infatti è ormai lontano e di fatto irraggiungibile. Secondo recenti stime riportate dall’ONU sulla base degli impegni generici finora presentati solo da una parte dei paesi del pianeta, ci siamo messi su una traiettoria di più 2,7° gradi invece di 1,5° ( altri parlano di 3,3°). Fra Parigi 2015 e Glasgow 2021 la CO2 in atmosfera che avrebbe dovuto almeno fermarsi se non iniziare a scendere è aumentata da 400 a 415 ppm (ma dati recentissimi parlano di 419 ppm) e si dà per acquisito che a 450 ppm la sopravvivenza di esseri viventi tipo l’uomo diventa difficile. Le emissioni annue di CO2 in questi sei anni non sono affatto diminuite e dopo una lieve flessione causata dal Covid nel 2020 (-6% ) sono riprese ad aumentare (è stato riconosciuto ufficialmente al G20) e arrivano attualmente a circa 40 miliardi di tonn/anno nel pianeta. L’estrazione di fossili non accenna affatto a flettere ma è in costante lieve aumento. Secondo l’IPCC la vita sul pianeta può tollerare ancora al massimo 500 mld di ton a partire da inizio 2020 poi la crisi diventa irreversibile. Quindi, ai ritmi attuali, abbiamo una decina di anni (cioè più o meno il 2030). Già nel 2014 la crisi in arrivo era chiara ed in preparazione di COP21 di Parigi ci sono state oltre 2900 manifestazioni per il clima in 162 paesi, con quasi 400.000 partecipanti solo a New York alla vigilia del vertice ONU sul clima. Poi nel 2018 una ragazzina svedese ha spinto milioni di giovani di tutto il mondo a scioperare da scuola il venerdì. Sono nati nuovi gruppi come FFF ed Extintion Rebellion e nuovi leader giovanili che parlano (con una buona competenza) al mondo: dall’Uganda alla Polonia, dal Canada alle Filippine. Termini come sostenibilità, decarbonizzazione, transizione o conversione ecologica hanno invaso media, documenti, libri, convegni e congressi.
Nella realtà, nelle filiere dell’economia, delle fonti energetiche, delle forme di mobilità, nei modelli abitativi, nella gestione dell’agricoltura industriale e della alimentazione basata sul consumo di carne da allevamenti intensivi, al di là dei tanti casi virtuosi ma minuscoli, non è cambiato nulla.
Non si è avviata nessuna transizione. Non lo dicono i pessimisti (io comunque non lo sono) ma tutti i dati disponibili . La politica e i partiti dell’Occidente accarezzano la testa dei movimenti, per lo più giovanili, che chiedono un cambiamento, ma fanno un passo indietro ogniqualvolta sarebbe ora di promuovere un qualsiasi cambiamento nella pratica. Su circa 200 nazioni del mondo sono meno di dieci quelle dove movimenti e partiti esplicitamente ecologisti governano (in coalizione con altri e sempre in posizione subalterna, le eccezioni, solo locali, sono pochissime) e sempre meno di dieci sono gli altri partiti, in genere piccoli di sinistra non socialdemocratica che governano facendo proprie seriamente, almeno in parte, le tematiche dell’ecologismo. In Germania, il paese europeo con il più alto livello di emissioni pro-capite dell’Europa e il sesto nel mondo come emissioni totali, i verdi saranno costretti probabilmente a governare con socialisti ma anche liberali, che sulla crisi climatica hanno opinioni ed interessi ben diversi, aprendo nuove speranze ma anche un forte rischio di delusione se non porteranno visibili risultati.
Nel G20 che ha preceduto COP21 si sono confermate tutte le premesse preoccupanti di un possibile fallimento di Glasgow alla fine dei 12 giorni della Conferenza sul clima. Assenti i leader di Cina e Russia, che hanno la loro consistente parte di responsabilità, si è cercato di scaricare su questi, insieme all’ India, tutta la responsabilità dei mancati risultati presenti e futuri. Si tratta di una bugia che non va lontano se si considera le dimensioni della popolazione dei singoli paesi, ma anche una dimostrazione di presuntuosa arroganza secondo la quale questi paesi dovrebbero accollarsi “i sacrifici” e “i costi” che l’Occidente neppure si sogna di affrontare. E’ una bugia che però con leggerezza tutti i media rilanciano. In realtà tutti i grandi paesi dell’Est e dell’Ovest, hanno le stesse responsabilità e per tutti è necessario un cambio di paradigma per garantire un futuro alle prossime generazioni.
I dati di partenza sono in realtà chiarissimi: I sei paesi principali che contribuiscono alle emissioni totali ( 40 mld di t/a) sono la Cina ( 9,84 ), gli Usa ( 5,27), l’India ( 2,46), la Russia ( 1,69), il Giappone ( 1,20), la Germania (800 mil di t/a ). L’Italia è al 19° posto con 355 mil di t/a.
Se si calcolano le emissioni pro-capite ( si consideri solo che la Cina ha 1,4 mld di abitanti e gli USA 330 mil cioè un quarto) ovviamente il quadro è ben diverso. Canada e Australia hanno 15,5 t/a pro-capite seguite dagli USA con 15,2 t/a. La Cina è al 38° posto con 7,4 t/a, l’India al 128° posto con 1,8 t/a. Alcuni paesi arabi, Quatar, Kuwait, Emirati.. sono in testa nelle emissioni pro-capite ma hanno un numero irrilevante di abitanti ( es Emirati 10 mil, Quatar 2,8 mil).
L’Italia è al 61° posto con 5,4 t/a e le emissioni pro-capite della Germania sono di ben 1,6 volte le nostre ( 1,2 volte se si fa invece il riferimento al PIL).
Le attuali emissioni pro-capite degli USA sono quindi più di 2 volte quelle della Cina e più di 8 volte quelle dell’India. In realtà se si valutano le emissioni cumulate dall’inizio del secolo (dal 2000 ad oggi) il contributo dei paesi dell’Occidente (USA ma anche Europa) è soverchiante e lo è ancora di più se si considera che le produzioni dei paesi asiatici esportate nei paesi occidentali in termini di emissioni vengono attribuite a quelli ma in realtà riguardano consumi di questi ultimi. Da questo punto di vista il tentativo di indicare Cina e India come principali responsabili della crisi, come fa Biden in perfetta continuità con i predecessori, è agghiacciante. D’altronde in più occasioni i leader USA hanno affermato che “lo stile di vita e di consumi” americano è intoccabile. E Biden ha ribadito a Glasgow che spetta agli USA “guidare il mondo”. È noto che nelle due legislature di Obama attraverso un enorme aumento dei pozzi di estrazione di petrolio, con il frackcing e lo shale gas, gli USA hanno raggiunto attraverso i fossili la totale autonomia energetica trascurando totalmente le rinnovabili e una conversione dei modelli di consumo e dello stile di vita, temi ai margini del dibattito interno del paese.
Sul carbone, il principale inquinatore a basso costo, una grande alleanza ha impedito fino ad oggi di fermarne l’estrazione. Genericamente si indica un impegno dei G7 allo stop nel 2030 e nel 2040 per gli altri paesi ma si vedrà nella COP26 in corso se alle parole seguirà un qualche impegno reale al quale molti non credono. In realtà vari paesi compresi USA e GB hanno in cantiere nuove miniere e un aumento delle estrazioni che sono attualmente attribuibili per il 61% alla Cina, il 17% all’India ma ancora per il 18% agli USA. In Germania il carbone contribuisce ancora per il 26% alle emissioni del paese con più di 70 centrali ancora attive. Attualmente il suo contributo alla produzione elettrica mondiale è ancora del 37%.
Nell’ultimo decennio si è fatta strada la consapevolezza che molti paesi poveri, il cui contributo alla crisi climatica è minimo ( l’intera Africa contribuisce solo per il 3%), sono i primi e quelli più pesantemente colpiti dagli effetti della crisi climatica e nel dibattito dei G20 e delle COP si trascina la contesa su quanto i paesi ricchi possano “ pagare” per limitarne le disastrose conseguenze in questi paesi. La contesa si svolge attorno all’obiettivo di stanziare fino a 100 mld di dollari all’anno (una cifra irrilevante ) e su chi e quanto debba contribuire a questo obiettivo. E’ probabile che a Glasgow si superi la attuale disponibilità di circa 80 mld e si possa raggiungere l’intero obiettivo. Si tratta di un approccio apparentemente doveroso, in realtà è un impegno irrisorio e per certi versi anche pericoloso. Non solo per il fatto che le garanzie che di queste risorse se ne faccia un uso corretto, stante la corruzione di molti governi in genere alimentata da multinazionali senza scrupoli sono minime, ma perché si perde di vista la dimensione vera del problema. Secondo un recente studio consegnato all’ONU se le temperature e il dissesto climatico non verranno arrestati numerosi paesi dell’Africa in pochi anni non saranno più in grado di coltivare i prodotti necessari al sostentamento delle comunità locali perché resterebbero senza raccolti con conseguenze "devastanti". Ad esempio otto Paesi dell'area orientale e meridionale dell’Africa già colpiti da siccità estrema ( Angola, Lesotho, Malawi, Mozambico, Ruanda, Uganda, Zambia e Zimbabwe) vedrebbero pressoché azzerati i loro raccolti entro pochi anni. Interventi “umanitari“ contro la fame risulterebbero quasi ridicoli ed anche solo interventi strutturali di “mitigazione e adattamento” sull’agricoltura locale richiederebbero alcune centinaia di miliardi all’anno. In realtà esploderebbe soltanto l’onda di migranti climatici. Ma il concetto di mitigazione e adattamento è un modo elegante per nascondere la verità: continuiamo a estrarre lingotti d’oro nero dal pianeta, proseguiamo l’arricchimento di un ristretto gruppo di multinazionali e dei loro portaborse politici il più possibile, disinteressiamoci del futuro del pianeta e dedichiamo qualche briciola ai paesi e alle popolazioni che nell’immediato sono le più travolte dal disastro per salvare la faccia.
Poiché a Glasgow non si può dichiarare formalmente il fallimento della azione anticlima l’impegno dei leader sarà quello di attribuire agli assenti i mancati impegni e il rinvio in avanti degli obbiettivi più significativi. L’intenzione è di garantire comunque l’attuale modello di sviluppo e di arricchimento di ristretti gruppi che governano gran parte del pianeta, di demolire l’impatto dei movimenti (perlopiù giovanili) che contestano la mancanza di scelte e dell’avvio di una vera transizione mondiale che renda sostenibile la vita delle future generazioni (si veda l’aggressione mediatica che tende a denigrare Greta Thumberg ), di oscurare la dimensione delle previsioni di decine di Enti di ricerca e di vari organismi mondiali ( IPCC e tanti altri compresi ONU e FAO ), di assicurarsi che le risorse economiche ingenti che comunque verranno impegnate restino nelle mani di quei ristretti gruppi economici e finanziari che in fin dei conti sono i principali responsabili della crisi in atto.
I movimenti giovanili presenti a Glasgow e che hanno organizzato forum alternativi nell’area green della Conferenza hanno di fronte un compito arduo. Il primo la difficoltà a partecipare: posti letto introvabili e fino a 500 dollari per una doppia a notte e riempiti da funzionari e sherpa dei 190 paesi partecipanti, dai lobbisti delle multinazionali e di enti vari (come esempio il Brasile ha una delegazione di 400 persone, la Turchia di 300). Ma soprattutto Glasgow sembra essere la fine della fase in cui i Movimenti denunciano la crisi e chiedono risposte. A tutte le latitudini del pianeta larghi strati della popolazione hanno acquisito ormai quella minima consapevolezza dell’emergenza che impone un radicale cambiamento. E comunque diventano numerosi quelli che percepiscono direttamente sulla propria vita i primi effetti della crisi. In termini generali ormai grandi maggioranze comprendono in che direzione si dovrebbe andare e che non è più il tempo dei blablabla per nessuno.
Si entra in una fase nuova dove è necessario andare oltre la denuncia, indicare esattamente quali sono gli obiettivi, i modi, i settori produttivi che vanno sviluppati o modificati o cancellati, indicando concretamente come e con cosa vanno sostituiti, costruendo su questo approccio un largo consenso popolare. Serve costruire nuovi movimenti politici e alleanze economiche e sociali che rappresentino davvero le istanze delle nuove generazioni. Altrimenti c’è il rischio che al blablabla di governi e istituzioni si contrapponga uno speculare blablabla dei contestatori.
Se non si fa questa operazione culturale e politica di precisazione delle proposte, nella quale tante parti della società, soggetti politici, economici, finanziari possano riconoscersi, diventare convinti alleati e comuni promotori, non si va da nessuna parte e il nuovo protagonismo di movimenti e leader giovanili verrà facilmente isolato, messo da parte e reso ininfluente.
Quello che fa impressione in questi incontri planetari è la miseria culturale di gran parte dei potenti. L’idea prevalente è che è tutta una questione di soldi, quindi quanti soldi da mettere, quanti da perdere e soprattutto chi ci guadagna e chi ci perde. Dall’altra parte si enfatizza quanti sacrifici dovremmo fare e quanti siamo disponibili a fare. Anche una parte degli oppositori hanno introiettato il modello e questo li rende meno convincenti (se costa tantissimo e chiede tantissimi sacrifici ... magari rimandiamo). Ma si tratta di una finzione culturale e mediatica. La conversione ecologica costa tanto e richiede tanti sacrifici soltanto per i potenti. Tutti gli altri in prospettiva hanno solo da guadagnarci. Il problema è più semplice e paradossalmente più facile da risolvere. La conversione ecologica presuppone la chiusura di certe attività e l’apertura di altre (ad esempio chiudo migliaia di pozzi e monto sui tetti milioni di pannelli, costruisco dieci milione in meno di auto e progetto mille km in più di metropolitane, chiudo dieci allevamenti intensivi ed estendo le produzioni agricole del 50%.). Non voglio farla facile, è ovvio che serve una gestione statale sovranazionale e alcuni decenni, ma c’è posto per tutti, pubblico e privato. Il problema è la arrogante presunzione di chi ha in mano il pianeta e non ha nessuna intenzione di cambiare il modello che lo rende padrone del mondo. A tutti i costi.
Così il rischio della criminalizzazione dei movimenti o della loro ridicolizzazione è molto alto. Hanno questo obiettivo. Un noto ecologista d’altri tempi giustamente sosteneva che la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile.
In diverse occasioni ho indicato le mie personali opinioni sulle priorità che andrebbero poste in primo piano, che non sempre coincidono con quelle circolanti, ma che mi sembrano adeguate per un percorso realistico di conversione e che qui accenno soltanto:
1) È necessario prendere atto che l’era dell’auto è terminata a tutte le latitudini del pianeta con la fine del secolo scorso e che è impensabile che nei prossimi decenni miliardi di auto ( con qualunque tecnologia) rimangano il vettore principale di mobilità. Il tutto elettrico, se non si chiarisce da quali fonti, è semplicemente una proposta di incompetenti o di mistificatori che ci porta fuori strada. E’ indispensabile che alcuni miliardi di persone, in particolare nei grandi e medi centri urbani (nei paesi ricchi come in quelli poveri), si muovano entro i prossimi due-tre decenni, prevalentemente su mezzi pubblici, collettivi, con percorsi dedicati, disponibili, facilmente accessibili e poco costosi. Quelli che normalmente chiamiamo reti metropolitane. Relegando l’uso dell’auto ma anche degli stessi autobus, tram, monopattini a petrolio solo ai casi di necessità e quando il loro uso non ha alternativa. Con enormi vantaggi in termini di inquinamento, tempi, costi, socializzazione, occupazione del suolo pubblico e stress.
2) E’ necessario che le abitazioni vengano attrezzate con criteri di totale autonomia energetica per i consumi elettrici e di riscaldamento, con l’eliminazione della dispersione termica invernale, nella misura possibile la raccolta e riciclo delle acque, l’attenuazione della radiazione solare estiva con l’ombreggiatura abolendo il condizionamento, la disponibilità di nicchie dedicate di autoproduzione alimentare famigliare (giardini e terrazzi agricoli).
3) E’ necessario eliminare i grandi allevamenti intensivi e ridurre i consumi di carne, specie dei grandi animali, con l’obiettivo di sostituire il 50% del consumo attuale di proteine animali con proteine vegetali a tutte le latitudini del pianeta. Almeno in questo sembrerebbe che l’Italia negli ultimi 10 anni si sia messa sulla strada giusta.
4) E’ necessario privilegiare i consumi specie alimentari cosiddetti a km zero, e comunque di provenienza nazionale avendo il coraggio, senza estremizzazioni, di introdurre il concetto di “protezionismo ecologico”.
5) E’ necessario contrastare le forme di immigrazione clandestina proveniente da crisi ambientali e di guerra, sostituendo scafisti e trasferimenti clandestini della criminalità con corridoi regolari e permanenti di immigrazione gestiti dagli Stati impegnando gli immigrati in particolare nella tutela e manutenzione ecologica del territorio sotto la tutela delle istituzioni locali. Impedendo così che questo tema diventi lo strumento per la proliferazione di governi ultraconservatori e di destra xenofobi.
6) E’ necessario promuovere la riforestazione del pianeta, che necessità venti anni per risultare efficace anche alla luce della costatazione che è in atto una diminuzione di efficacia delle grandi foreste pluviali nella funzione di eliminatori di CO2.
7) E’ necessario che le istituzioni internazionali dichiarino che la corruzione, in particolare attinente allo sfruttamento delle risorse naturali ed energetiche è un crimine contro l’umanità e la sopravvivenza delle generazioni future.
1 novembre 2021
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