di Gea Scancarello *
Mentre altri
parlavano di influenza e di virus sopravvalutato, con esposizione mediatica
degna di influencer della sanità, Ernesto Burgio è uno di quei
medici che in questa crisi da coronavirus ha detto poco, e solo se interrogato.
Pediatra,
esperto di epigenetica e biologia molecolare nonché presidente del comitato
scientifico della Società Italiana di Medicina Ambientale e membro del consiglio scientifico dell’European
Cancer and Environment Research Institute di Bruxelles, Burgio ha scelto però
di farsi vivo con cose estremamente significative: per contenuto e per
chiarezza.
Gli abbiamo
chiesto di aiutarci a comprendere cosa sta realmente succedendo adesso: quando
riaprire (“Assolutamente non prima di metà maggio”), dove ci si contagia
(“In casa, in famiglia, al lavoro: non all’aria aperta”) e quando dura
l’immunizzazione (“Il virus è instabile, quindi non possiamo saperlo”).
Ma anche la catena degli errori che ci ha portato qui, e quali non ripetere.
Ma anche la catena degli errori che ci ha portato qui, e quali non ripetere.
Esisteva in
Italia un piano per gestire l’epidemia ed è stato applicato?
Bisogna fare
una premessa. Sappiamo che periodicamente nel mondo partono virus che fanno
danni enormi, non essendo conosciuti al sistema immunocompetente umano. Lo
sappiamo in maniera più definita da almeno 23 anni, cioè da quando nel 1997
un virus influenzale nuovo, che mai aveva colpito gli uomini, l’H5N1, ha
prima ucciso un bambino a Hong Kong e poi causato l’insorgenza di una
serie di outbreak epidemici in estremo oriente (Cina, Indonesia, Vietnam),
rivelando come uno dei virus più letali della storia umana (tasso di
letalità 58%) .
A quel
punto, è partita l’allerta per una possibile prima pandemia del ventunesimo
secolo: chi si è occupato di questi virus – io l’ho fatto tra il 2002 e
il 2006 – sapeva che prima o poi sarebbe arrivata. Non solo quindi c’era
l’allarme ribadito a più riprese per 20 anni da scienziati e ricercatori,
ma c’erano lavori di ricerca importanti su questi virus. Infine, si era
verificata una serie di eventi, a partire dal coronavirus della Sars nel
2002-2003, che aveva ulteriormente accentuato l’allerta. Infatti, i Paesi
asiatici – Cina, Giappone, Hong Kong e Taiwan e la stessa Corea, nonostante
qualche momento di difficoltà iniziale – hanno saputo rispondere al virus,
ognuno in modo diverso. In tutto l’Occidente, invece, non solo non c’erano
veri piani per affrontare un’emergenza pandemica ma si è enormemente
sottovalutato quello che stava succedendo in Oriente. In Italia il 31 gennaio è stato dichiarato sulla Gazzetta Ufficiale lo stato di
allarme pre-pandemico ma si è fatto pochissimo per prepararsi ad
affrontarlo, cioè per informare correttamente i cittadini, formare
correttamente gli operatori sanitari e soprattutto predisporre piani di
protezione per ospedali e operatori sanitari.
Dichiarare
l’emergenza doveva servire, nel caso in cui il virus davvero fosse arrivato e
fosse dilagato, come poi è successo, a non trovarsi senza un numero adeguato di
tamponi e senza la possibilità di proteggere gli operatori sanitari.
Cosa
puntualmente successa. Perché non si è fatto niente e, soprattutto, chi era
incaricato di fare qualcosa?
Non si è
fatto perché dalla pandemia di influenza asiatica in poi, cioè dal 1957, non
c’è più stato nulla di simile in Occidente. E senza l’esperienza diretta di
queste cose, anche chi ne legge su articoli e libri spesso non è pronto. Va
anche detto che in Italia grandi esperti di virus pandemici non ce ne sono.
Un’eccezione è il professor Crisanti, un parassitologo dell’Università
di Padova che aveva studiato questo tipo di problemi: infatti il
Veneto, che ha ascoltato i suoi suggerimenti, ha avuto problemi molto minori,
rispetto alle altre regioni del Nord Italia.
Veniamo
all’attualità. Il contenimento sociale è oggi l’unica misura cui tutti fanno
ricorso, pur con un progressivo aumento dell’ansia sociale, con tanto di
episodi di caccia all’untore. Ma uscire l’aria aperta, mantenendo le distanze e
chiaramente non tutti insieme, è davvero pericoloso per il contagio?
Serve
un’altra premessa. Ci sono tre variabili da considerare:
- il virus,
- le condizioni della popolazione
- e quelle dei servizi sanitari.
Il virus,
da quello che possiamo capire oggi, ha alta contagiosità. Si parla in
questi casi di R0, un indicatore di quante persone può contagiare chi è
infetto. Quando R0 è superiore a uno – e in questo caso probabilmente
siamo tra il 3 e il 3,5 – nel giro di un mese può succedere un
disastro, perché la popolazione infetta cresce in modo esponenziale. Se ci
fosse stato un piano, se a gennaio, quando il contagio già dilagava in
Cina, avessimo cercato attivamente le polmoniti che alcuni già
segnalavano, avremmo potuto evitare il lockdown perché avremmo avuto il
tempo di fare quello che è stato fatto in Veneto. Non avendo invece fatto
subito strategie di contenimento e di sorveglianza attiva, abbiamo perduto
ancora quasi un mese rispetto al 31 gennaio – data di dichiarazione
dell’emergenza – ed è stato necessario bloccare il Paese e ridurre
drasticamente qualsiasi contatto fisico: credo che il governo, a quel punto,
abbia fatto la scelta giusta.
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