di F.
Capobianco, M.C. Perrelli, L. Scarola *
Se da un lato la situazione di emergenza ha confermato
la qualità del nostro sistema sanitario, incardinato su universalità e qualità
della cura, dall’altro ha messo a nudo la fragilità di un sistema basato ancora
sull’ospedale, dimostrandone la centralità rispetto al “sistema sanitario
territoriale”. Ecco cosa cambiare. Il paper Nomisma
Il dilagare
dell’epidemia da Covid-19 sta mettendo in luce, con una forza senza precedenti,
non soltanto il grado di preparazione del nostro Sistema Sanitario, ma anche le
contraddizioni che lo stesso aveva ben prima del proliferare dei contagi. In
più di un passaggio, i vertici della Protezione Civile hanno sottolineato la
straordinarietà dell’emergenza che ha coinvolto il complesso della macchina
pubblica e che non ha pietre di paragone con altri shock esogeni. Tuttavia,
come verificatosi in tempi recenti con le emergenze post sismiche, fenomeni
così dirompenti hanno evidenziato le carenze preesistenti nella nostra capacità
di fronteggiarli.
Allo stato
attuale delle cose, non è possibile effettuare un bilancio compiuto delle
differenziate capacità di reazione dei sistemi pubblici al Coronavirus, non
foss’altro perché anche la stessa comunità medico-scientifica è alla ricerca di
driver attendibili dell’epidemia. Ricostruire il puzzle di cosa questo
collettivo stress test ha messo in luce, invece, appare doveroso per immaginare
nuove traiettorie organizzative dei diversi livelli sanitari e assistenziali
messi in campo.
Se da un
lato la situazione di emergenza ha confermato la qualità del nostro sistema
sanitario, incardinato su universalità e qualità della cura, dall’altro ha
messo a nudo la fragilità di un sistema basato ancora sull’ospedale,
dimostrandone la centralità rispetto al “sistema sanitario territoriale”. Ciò è avvenuto sicuramente perché l’assistenza
territoriale ha procedure meno sedimentate rispetto a quella ospedaliera e,
quindi, in emergenza ci si è affidati alla macchina più “rodata”, ma anche
perché il territorio, in molti casi, non si è mostrato sufficientemente
“attrezzato” per la gestione dei pazienti meno gravi o non ancora in fase
acuta.
La Fase 0
Eppure, in
Italia, già dalla seconda metà del Novecento la visione ospedale-centrica è
stata messa in discussione a favore di un avvicinamento del sistema di cura al
territorio; anche se bisognerà aspettare i
decreti di riordino del 1992 (Amato, De Lorenzo - DLGS n. 502) e del 1999
(Bindi – DLGS n. 229) perché questa tendenza trovi un esplicito riscontro. Tali
riforme, infatti, hanno dato impulso ad uno spostamento dell’asse della
governance tramite la trasformazione delle USL in vere e proprie Aziende,
anche sulla base delle spinte alla ripresa di centralità degli aspetti
organizzativi e tecnico-scientifici nella sanità. Tuttavia, l’ospedale
tradizionale orientato alle acuzie e il sistema territoriale particolarmente
frammentato continuavano a rivelare un’inappropriatezza gestionale, con
riflessi evidenti sull’offerta di cura che appariva dicotomica e scarsamente
integrata in termini di livelli di assistenza. Solo nel 2012 è intervenuta
la legge Balduzzi (n.189) che, insieme al Patto della Salute 2014-2016, ha
riordinato il sistema delle cure primarie e, promuovendo l'integrazione con il
sociale e i servizi ospedalieri, ha affidato alle Regioni il compito di
riorganizzare i servizi territoriali secondo nuove forme organizzative e
modalità operative (nascita delle aggregazioni funzionali territoriali -AFT- e
delle unità complesse di cure primarie -UCCP-, che mirano all’erogazione “a
rete” delle prestazioni assistenziali). Parallelamente, i distretti, “fronte”
dell’integrazione e garanti dell’equilibrio tra le filiere di cura, si sono
evoluti a seconda degli indirizzi nazionali e degli orientamenti strategici
regionali; le Regioni hanno dedicato investimenti all’organizzazione di cure e
strutture intermedie per i pazienti deospedalizzati che necessitano di supporto
sanitario in ambiti protetti; si è assistito alla nascita di molteplici nuove
strutture polifunzionali (ad esempio, Case della Salute) per la continuità
assistenziale e il soddisfacimento dei bisogni socio-sanitari. Dal 2012 ad
oggi i processi di cambiamento e di sperimentazione non si sono mai arrestati e
diversi Servizi Sanitari regionali (fra cui quelli di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna)
hanno emanato riforme e piani sociali e sanitari ambiziosi, che hanno portato a
modelli di assistenza territoriale diversificati.
Descriverli
dettagliatamente nelle loro procedure di funzionamento e di erogazione delle
cure, nonchè fornire una valutazione quantitativa e omogenea del reale grado di
integrazione fra ospedale e territorio all’interno dei singoli contesti, rimane
un’operazione complessa.
Quello che è
immediato desumere dalla lettura dei dati disponibili è che, nell’Italia
pre-Covid, l’accessibilità e la funzionalità dei servizi sanitari territoriali
erano estremente differenziati fra regioni.
Il “Rapporto
sull’attività di ricovero ospedaliero SDO 2018” del Ministero della Salute
evidenzia risultati molto diversi relativamente al ricorso alle strutture
ospedaliere per selezionate patologie trattabili a livello territoriale, così
come l’ultimo Annuario Statistico del Servizio Sanitario Nazionale sottolinea
un’alta variabilità regionale in relazione a tutti i pilastri dell’assistenza
distrettuale (numerosità di medici di medicina generale, pediatri e guardie
mediche per 100.000 abitanti, casi trattati in assistenza domicilare integrata
per 100.000 abitanti, dotazione di ambulatori e laboratori, ecc.). Questa
eterogeneità è confermata dall’analisi degli indicatori relativi all’assistenza
distrettuale considerati nell’ultima Griglia LEA (verifica dell’erogazione dei
Livelli Essenziali di Assistenza).
Le lezioni (non) apprese
Nel 2017,
Nomisma concludeva così un articolo sul grado di equilibrio
ospedale-territorio: “Il livello di guardia sul riorientamento strategico verso
la sanità territoriale deve rimanere alto. I dati dimostrano che la
ridefinizione dei modelli di assistenza sta portando i propri frutti; allo
stesso tempo i passi da compiere restano tanti. È vero che il rapporto
ospedale-territorio non può essere valutato come mero trasferimento di
prestazioni dall’uno all’altro, né misurato unicamente in termini di risparmio
ottenuto. Tuttavia, è altrettanto vero che, in un contesto incerto e mutevole
quale quello attuale, risulta cruciale prevedere strumenti di valutazione e
controllo in grado di rilevare successi e criticità e suggerire correttivi”.
Avremmo
tutti sperato che l’occasione per far questo non si presentasse a seguito dello
scoppio di un’epidemia di questa gravità; tuttavia, la prova a cui il nostro
Servizio Sanitario Nazionale è tuttora sottoposto, rende evidente
l’improrogabilità di compiere concreti passi avanti in tal senso, ponendosi
domande che alla luce dell’emergenza, appaiono quasi retoriche: l’assistenza
ospedaliera sarebbe dovuta essere maggiormente coadiuvata da quella
territoriale nella gestione dell’emergenza? Se i presidi territoriali e le
strutture intermedie fossero stati più “attrezzati” (anche in termini di
digitalizzazione dei servizi), le regioni avrebbero potuto gestire meglio i
pazienti positivi non ospedalizzati? Si sarebbero potuti effettuare dei
monitoraggi più efficaci?
Velocizzare
la presa di coscienza di quello che lo shock Coronavirus ha messo
prepotentemente in luce diventa quindi prioritario, così come sciogliere i nodi
del processo di integrazione ospedale-territorio. Fra questi, vale la pena accennarne brevemente due.
Superare il confine tra sanità e welfare
Quando si
propone un riorientamento strategico verso la sanità territoriale, si deve
mettere in conto una ridefinizione fondamentale dell’intero modello di
prestazioni sanitarie che si incrociano con le prestazioni assistenziali. In una società profondamente mutata, dove le
relazioni familiari e sociali sono dilatate, dove l’invecchiamento e la
solitudine caratterizzano le aree interne e quelle urbane e il sistema
sanitario deve supplire ad un arretramento dello stato sociale (oggetto di
tagli decennali nei trasferimenti agli Enti Locali), è necessario che si
acceleri il processo di integrazione tra sanità e welfare.
La salute è
l’esito delle “relazioni” tra sistemi in cui è inserita la persona (famiglia,
ambiente, formazione e scuola, lavoro, giustizia, ...); fra questi la “sanità”
ed il “sociale” sono quelli per cui l’integrazione è essenziale per le forti interconnessioni e non può avere un modello unico di riferimento: sono
necessari gradi di commistione diversi, ma serve raccordo e coordinamento,
partecipato e condiviso, cioè una “governance” sia a livello regionale che
locale.
La
prospettiva di un nuovo, necessario, “paradigma sociosanitario” passa per la
costruzione, congiunta, tra operatori della sanità (ASL e AO) e operatori del
sociale (Comuni singoli e associati) di Percorsi Assistenziali Integrati
Sanitari e Sociali in grado di: dare risposte sempre più appropriate e
integrate ai bisogni di salute dei cittadini; determinare lo spostamento del
baricentro dall’ospedale al territorio; sviluppare logiche di gestione
integrata dell’offerta dei servizi sanitari extraospedalieri, sociosanitari e
sociali; garantire la continuità assistenziale nei percorsi di cura intesa
quale percorso integrato tra le reti dei servizi sanitari (ospedalieri e
territoriali) e dei servizi sociali. Questi processi porteranno al superamento
della contrapposizione o giustapposizione tra “sistemi sanitari” e “sistemi
sociali”, per la realizzazione dei “sistemi di salute” (Cit. Nomisma, Sistemi
Sanitari e Sociali in Europa e in Italia: Problemi, Opportunità e Tendenze,
Bologna 2016).
Tra l’altro
la presenza sul territorio nazionale di Fondazioni, associazioni con scopi
assistenziali, ricreativi, sportivi e culturali rappresenta un apporto di
risorse diverse nella presa in cura della persona, così come le risorse
informali quali le reti vicinali, i condomini solidali e le altre forme di intervento
solidaristico.
Si tratta di
un enorme patrimonio nazionale che nell’ottica di un sistema integrato
sanitario e sociale costituirebbe un asset strategico unico nel panorama
mondiale.
Intervenire sull’”hardware” e sul “software”
Sempre
esulando da valutazioni sugli applicativi tecnici maggiormente utili durante la
fase epidemica, il consolidamento dell’”hardware” dei servizi territoriali
deve necessariamente passare da un parallelo rafforzamento del “software” in
ambito e ospedaliero e domiciliare.
È
necessario, infatti, che la tecnologia faccia da ponte tra i due livelli di
assistenza e che i flussi informativi siano fruibili a prescindere dal contesto
in cui il paziente riceve le cure. L’enorme patrimonio informativo clinico,
diagnostico e terapeutico viene, a tutt’oggi, in larga parte dilapidato: uno
degli esempi più lampanti riguarda le cartelle cliniche ospedaliere le
quali, “viaggiando” ancora su supporti cartacei, fanno sì che, nella stragrande
maggioranza dei casi, le informazioni raccolte nella fase di monitoring del
paziente vengano dissolte contemporaneamente alla dimissione dello stesso.
La strada da
percorrere è ancora più lunga quando parliamo di nuove tecnologie a supporto
della domiciliarità. Indubbiamente il Coronavirus sta accelerando l’utilizzo di
app, mutuate da sperimentazioni nella cura delle cronicità, che consentono di
monitorare i parametri dei pazienti a distanza, creando una preziosa esperienza
che tornerà sicuramente utile anche quanto l’epidemia sarà scomparsa. Tuttavia, se in passato si fossero attuate
maggiormente le linee guida relative all’utilizzo della telemedicina,
probabilmente avremmo potuto ridurre per taluni casi l’impatto del virus e
sicuramente si sarebbe potuta avere una maggiore continuità nel rapporto tra medico
e paziente, con evidenti vantaggi anche sotto il profilo sociale e psicologico.
L’impiego della telemedicina, invece, appare ancora marginale sia per ritrosie
culturali dei potenziali pazienti sia a causa del digital divide tra
generazioni e tra territori. Alfabetizzazione informatica per le fasce
di popolazione meno avvezze ai “nuovi” strumenti e infrastrutturazione
immateriale appaiono, quindi, il necessario presupposto ad accrescere la
fiducia e l’accettazione verso questi tipi di strumenti.
* Ricercatori Nomisma – da www.vita.it – 20 aprile 2020
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