Verso le elezioni. Il congresso dei popolari europei a
Helsinki incorona il cristiano-sociale per la corsa alla successione di Jean
Claude Juncker. Tra i sostenitori anche il primo ministro ungherese Viktor
Orbán
di Sebastiano Canetta *
I popolari
europei incoronano il cristiano-sociale Manfred Weber come candidato di punta
per la prossima Commissione Ue. Ieri a Helsinki il congresso Ppe ha nominato
ufficialmente il suo capogruppo a Bruxelles per la corsa alla successione di
Jean Claude Juncker nel maggio 2019.
A lui il 79,2%
dei voti dei delegati che lo hanno preferito ad Alex Stubb, vice presidente
della Banca europea per gli investimenti ed ex premier della Finlandia fino al
2015.
«È un successo per tutti noi: non la vittoria di un singolo ma dell’intero Ppe» è stata la prima dichiarazione di Weber insieme alla promessa di «un’Europa ambiziosa» e al sogno di conquistare «la maggioranza all’Europarlamento».
«È un successo per tutti noi: non la vittoria di un singolo ma dell’intero Ppe» è stata la prima dichiarazione di Weber insieme alla promessa di «un’Europa ambiziosa» e al sogno di conquistare «la maggioranza all’Europarlamento».
Festeggia la
cancelliera Angela Merkel («il mio cuore batte per lui») suo principale
sponsor, senza cui il candidato tedesco non avrebbe avuto neppure mezza chance
nella sfida interna fra democristiani. Ma batte le mani (al ritmo dell’Inno
alla Gioia suonato al termine del congresso) anche il primo ministro
ungherese Viktor Orbán, che lo ha sostenuto nonostante le ripetute critiche
alla sua politica ultra-nazionalista.
«Colmare il
divario con i cittadini» è la parola d’ordine dello spitzkandidat
incaricato di risollevare le sorti del Ppe prima ancora che dell’Europa in
balìa delle forze centrifughe. La sua nomina, tra gli addetti ai lavori, è
tutt’altro che una sorpresa, e si incastra perfettamente nella strategia dei
popolari per mantenere il timone della Commissione anche dopo l’era-Juncker.
Fuori dal
congresso, con buona pace delle smentite bilaterali, Merkel e il premier
francese Emmanuel Macron avrebbero già stabilito che il prossimo presidente Ue
sarà tedesco. Non succedeva dal 1967, con Walter Hallstein silurato proprio da
Parigi dopo il primo mandato. E Weber da questo punto di vista è davvero l’uomo
opportuno al momento giusto, anche se fino a ieri quasi nessuno aveva sentito
parlare di lui al di fuori della Baviera o delle Commissioni Ue Giustizia e
Affari costituzionali di cui è stato membro.
Classe 1972,
cattolico praticante, una laurea in ingegneria prima di diventare il leader
della Junge Union e nel 2003 il più giovane deputato al Parlamento di Monaco.
Legato al leader Csu Horst Seehofer, nel pieno della crisi estiva tra la
cancelliera e il ministro dell’Interno non ha esitato a schierarsi con Mutti
a fianco della sua «soluzione europea» all’immigrazione. Come si è rivelato
capace nell’impresa semi-impossibile di trattenere nelle fila del Ppe gli 11
eurodeputati ungheresi del partito euroscettico Fidesz già con un piede fuori
dalla “casa” dei popolari. Certosino del compromesso politico, ha costruito la
sua carriera sulla capacità di miscelare le ragioni degli alleati con quelle
degli avversari, anche interni. Un vero e proprio “pontiere” anche se i
socialisti europei hanno già fatto sapere che fra sei mesi non voteranno certo
per lui. «La campagna elettorale inizia oggi. Siamo costruttori di ponti e
useremo lo “slancio” di Juncker e Tajani per vincere a maggio 2019» ha spiegato
ieri Weber, secondo cui «c’è tanto da raccontare, a partire dall’Europa forte e
stabile» ereditata dal presidente lussemburghese.
Eppure non
basteranno i 492 voti (su 619 validi) conquistati ieri a Helsinki a convincere
gli scettici che fanno notare come il suo profilo non sia per niente «normale».
Weber mastica un po’ di francese, se la cava maluccio con l’inglese e,
soprattutto, non ha mai ricoperto una carica governativa in Germania né è mai
stato ministro del suo Land.
Un pesce
fuori dall’acqua di Bruxelles, anche se è immerso in ciò che la Deutsche
Welle definisce «burocrazia tentacolare europea» e ha imparato a nuotare
nel mare magnum degli oltre 30 mila funzionari Ue. Da equilibrista avrà meno
problemi di Juncker a barcamenarsi tra le correnti politiche sottomarine alla
Commissione, mentre da moderato sarà comunque più adatto di lui a contenere le
anime euroscettiche del Ppe che non sono poche. Mentre il sostegno, più o meno
manifesto, di Parigi pare già assicurato dalla promessa (anche questa smentita
da Merkel e Macron) di affidare la Bce alla Francia quando scadrà il mandato di
Mario Draghi.
*
da il
manifesto 9 novembre 2018
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