Antonella Agnoli ha collaborato al progetto
scientifico-culturale di numerose biblioteche italiane
Intervista a Antonella Agnoli *
Cosa deve
essere una biblioteca pubblica al tempo dei tablet? Un’idea di biblioteca
legata al prestito e alla consultazione, che fatica a essere sentita come un
posto dei cittadini, in cui poter stare, incontrarsi, avere la possibilità di
imparare delle cose o di rendersi utili; le biblioteche del nord Europa dove
trovi laboratori di ogni tipo: il centro turistico, l’ufficio comunale per fare
i certificati, l’assistenza per la ricerca del lavoro, a volte pure una
piscina... Intervista a Antonella Agnoli.
Antonella Agnoli ha concepito la Biblioteca San Giovanni di
Pesaro e collaborato al progetto scientifico-culturale di numerose
biblioteche italiane. Lavora con architetti ed enti locali per la
progettazione di spazi e servizi bibliotecari e per la formazione
del personale. È autrice di La biblioteca che vorrei (2014), Caro sindaco,
parliamo di biblioteche (2011), Le piazze del sapere (2009), La biblioteca
per ragazzi (1999).
Parliamo di biblioteche. Facciamo intanto un quadro della situazione?
Ho fatto recentemente per l’Anci e il Centro per il libro un viaggio attraverso alcune province italiane, fra cui Biella, Ravenna, Lecce, Siracusa e Nuoro, e ho riscontrato degli elementi comuni a tutte le biblioteche: orari di apertura limitati, pochi frequentatori e sempre gli stessi; quando funzionano fanno molti prestiti ma in realtà a un numero limitato di persone. La maggior parte dei cittadini non frequenta la biblioteca. La media italiana non si sa bene quale sia ma potrebbe andare dal 4 al 10%, nelle zone dove funziona, e arrivare al 20% nelle comunità più piccole dove è più facile avere percentuali più alte. In questo 20% hai i lettori forti, che lo sono di loro, indipendentemente dalla biblioteca, e nella biblioteca hanno un luogo dove trovare continuamente libri, che magari, con la crisi, non possono più permettersi di acquistare. Infatti, succede anche che i frequentatori abituali magari vorrebbero trovare le novità, che le biblioteche non comprano più per via dei pesanti tagli. Le biblioteche poi funzionano moltissimo come luoghi di studio per studenti, il che, intendiamoci, è un’ottima cosa, ma questi ci vanno spesso coi propri libri e dispense, non utilizzano i patrimoni delle biblioteche e non è detto che finiti gli studi ritornino, perché non sentono che quel luogo potrebbe essere utile in tutti i momenti differenti della vita.
Parliamo di biblioteche. Facciamo intanto un quadro della situazione?
Ho fatto recentemente per l’Anci e il Centro per il libro un viaggio attraverso alcune province italiane, fra cui Biella, Ravenna, Lecce, Siracusa e Nuoro, e ho riscontrato degli elementi comuni a tutte le biblioteche: orari di apertura limitati, pochi frequentatori e sempre gli stessi; quando funzionano fanno molti prestiti ma in realtà a un numero limitato di persone. La maggior parte dei cittadini non frequenta la biblioteca. La media italiana non si sa bene quale sia ma potrebbe andare dal 4 al 10%, nelle zone dove funziona, e arrivare al 20% nelle comunità più piccole dove è più facile avere percentuali più alte. In questo 20% hai i lettori forti, che lo sono di loro, indipendentemente dalla biblioteca, e nella biblioteca hanno un luogo dove trovare continuamente libri, che magari, con la crisi, non possono più permettersi di acquistare. Infatti, succede anche che i frequentatori abituali magari vorrebbero trovare le novità, che le biblioteche non comprano più per via dei pesanti tagli. Le biblioteche poi funzionano moltissimo come luoghi di studio per studenti, il che, intendiamoci, è un’ottima cosa, ma questi ci vanno spesso coi propri libri e dispense, non utilizzano i patrimoni delle biblioteche e non è detto che finiti gli studi ritornino, perché non sentono che quel luogo potrebbe essere utile in tutti i momenti differenti della vita.
Quindi abbiamo anche servizi che funzionano, ma per una parte marginale della popolazione. Questa è più o meno la realtà.
Detto questo, però, io continuo a pensare che la biblioteca, esattamente come la scuola, faccia parte di quei servizi di base che andrebbero pagati con le tasse dei cittadini, fondamentali per costruire un paese democratico e dare la possibilità a tutti di avere lo stesso accesso alle informazioni e la stessa competenza nell’accesso alle informazioni. Non è quindi solo un problema di lettura.
Credo che prima di tutto dovremmo far capire ai sindaci che la biblioteca è un luogo importante. Nei miei giri ho incontrato tantissimi sindaci che di fronte a un’idea diversa da quella che avevano di biblioteca sarebbero stati assolutamente disponibili a investire. Purtroppo però oggi così com’è la biblioteca è estremamente vulnerabile. Io continuo a incontrare colleghi che dicono: "Vogliono chiudere la biblioteca”, "Io vado in pensione”, "La daranno in mano ai volontari”... E già questa idea che basti un volontario che sappia leggere per tenere aperta una biblioteca attesta che non siamo riusciti a far capire l’importanza di quel luogo. Qualcuno si farebbe fare un’operazione chirurgica da un volontario?
Certamente scontiamo anche problemi atavici. Se facciamo il confronto coi paesi nordici, sarà per via della cultura protestante e per una socialdemocrazia che ha sempre investito molto sui servizi, sta di fatto che si legge molto di più e la biblioteca è sempre stata vista come un cardine fondamentale della comunità.
Come ridefiniresti quindi la biblioteca?
Io una volta l’ho definita un "pronto soccorso culturale”. Per fare questo, però, va totalmente riposizionata, deve diventare qualcos’altro. Oggi abbiamo bisogno di avere dei luoghi dove le persone possano stare insieme e fare delle cose insieme. Perché sia a livello intergenerazionale che all’interno delle stesse generazioni ormai sono sempre meno le occasioni per fare delle cose insieme. Al massimo si gioca a carte, e invece le cose da fare potrebbero essere tantissime. Nelle biblioteche in giro per l’Europa si fanno laboratori di tutti i tipi, dalla stampante 3d, al taglio e cucito, allo yoga, al corso di inglese, mettendo in campo tutte le nuove conoscenze, ma anche tutti quei saperi legati alla manualità. Adesso si parla molto degli artigiani. Perché la biblioteca non può essere un luogo dove i saperi che si stanno perdendo trovano un loro luogo di trasmissione? Quindi una biblioteca con grande dimensione sociale.
Ma basta pensare alla Sala Borsa di Bologna. È un luogo straordinario che andrebbe veramente studiato per quello che vi accade. Ogni giorno vi entrano 4-500 persone. Non è detto che i servizi al personale siano così attrezzati e anche avanti, rispetto ad altre biblioteche europee, però un afflusso così rilevante già ci dice tante cose: entrano tantissimi turisti, entrano studenti, tantissimi anziani che passano la loro giornata là dentro; tu puoi stare al caldo o al fresco a leggere i giornali, a vedere un film senza consumare nulla; entrano tantissimi homeless, è un luogo sociale per eccellenza. L’anno scorso, in occasione del decimo anniversario, la biblioteca ha invitato gli utenti a scrivere su dei post-it "perché mi piace Sala Borsa”, e le risposte sono state eloquenti: "Mi piace -ha scritto uno dei senza tetto- perché io barbone quando piove o fa freddo ho un riparo ma soprattutto perché posso acculturarmi leggendo un bel libro il che non è poco, grazie”. Altri hanno scritto: "Perché i vecchietti possono urlare tranquillamente e sentirsi a casa propria”, oppure: "Perché i barboni posso leggere lo stesso fumetto anche per dieci anni e addormentarsi sulle poltrone”, o anche: "Perché possiamo usufruire del riscaldamento”.
Questa cosa dei senza casa in biblioteca è altamente emblematica di un’idea diversa di biblioteca…
È l’America che arriva da noi; nelle grandi città come New York o San Francisco si vedono già da molti anni gli homeless che la mattina presto aspettano l’apertura della biblioteca (i dormitori li cacciano alle 7 del mattino) e poi se ne vanno tutti insieme all’ora di chiusura. A San Diego, in California, ho visto una piccola folla di poveracci uscire dalla biblioteca con i loro sacchi a pelo, i loro cartoni, i loro carrelli del supermercato e tra loro molti giovani, vittime di una crisi che li ha sradicati da case e famiglie.
Quando i drop-out diventano presenze fisse in biblioteca, scoppiano veri e propri conflitti tra chi ritiene di avere più diritto di utilizzare gli spazi e le collezioni rispetto a chi la usa come rifugio; è accaduto recentemente alla Sormani di Milano, per esempio. I trolley, i valigioni, gli zaini stracolmi sono un problema; molte biblioteche hanno regolamentazioni su cosa si può portare dentro, con l’esclusione di colli ingombranti. Eppure basterebbe un po’ di fantasia. La biblioteca del Centre Pompidou a Parigi, per esempio, ha aiutato un pensionato intraprendente a realizzare un servizio per i senza casa: un luogo dove possano lasciare le loro cose durante la giornata, per non doversi trascinare le valigie o i carrelli per tutta Parigi. Il fondatore dell’associazione Mains libres gestisce il deposito bagagli 365 giorni l’anno.
Di fronte alla crescita della marginalità sembra persino offensivo chiedersi se c’è bisogno delle biblioteche; negli ultimi anni la biblioteca pubblica è diventata un’ancora di salvezza per i senza tetto, non solo perché offre riscaldamento d’inverno e aria condizionata d’estate, ma perché offre la possibilità di tenersi in contatto col mondo. Dove altro potrebbero andare i giovani per consultare le offerte di lavoro, compilare un curriculum, richiedere un sussidio, spedire una mail? Ogni media biblioteca americana oggi offre corsi di formazione alla tecnologia e seminari su temi che vanno dal modo di scrivere un curriculum alle tecniche per affrontare un colloquio d’assunzione. Moltissime sono diventate dei community center che svolgono attività di sostegno ai disoccupati in cerca di lavoro; i tavoli diventano l’ufficio provvisorio di chi ha perso l’impiego, i computer e le connessioni gratuite a internet il canale per presentarsi ai colloqui: è quello che dovremmo fare anche noi.
Ma la parola biblioteca resta associata per forza alla parola libro.
Sì, i libri in fondo sono la cosa più facile ma anche quella più difficile, nel senso che chi non ha mai letto è difficile che si metta a leggere. Tu avrai più difficoltà a leggere se vieni su in una casa senza libri, con genitori che non leggono libri, se a scuola non vedi libri, se vedi una tv dove non ci sono mai libri, se i modelli che ti vengono trasmessi sono di altro tipo. Non sono neanche così convinta che una volta si leggeva di più: leggevano di più quelli che già leggevano, mentre adesso perdono più tempo cincischiando con Facebook; chi non leggeva prima continua a non leggere cincischiando con Facebook. Anche le varie statistiche non sono mai sulla lettura ma sulla vendita del libro.
Certo, la biblioteca ha libri e la sua finalità è anche quella di averne. Però possono essere cartacei o ebook. Il mio compagno per fortuna non compra quasi più libri cartacei altrimenti a questo punto saremmo al pianoterra, però ne compra tantissimi in ebook. Nella sua tavoletta ne ha dentro centinaia e se la porta in giro, in treno, in autobus. Quindi se uno legge può leggere di più; se uno sa districarsi in internet può trovare cose straordinarie. In internet ci sono migliaia di libri gratuiti, milioni di pezzi musicali, tutta la storia del jazz, tutta la storia del cinema, tutto disponibile gratuitamente. Il problema è come arrivarci. Uno sa come arrivarci? Io uso ormai moltissimo il tablet, che trovo fantastico perché su una pagina sola ho tutto: schiaccio qui, posso leggere "Repubblica”, "Il Corriere”, "il Sole”, "Il Manifesto”, quel che voglio; schiaccio qui e ho gli ebook, i pdf e i documenti che mi voglio portare dietro; schiaccio lì e condivido tutti i libri del mio compagno perché abbiamo fatto una cosa family per cui tutte le sue migliaia di libri li posso vedere anch’io; schiaccio di là e ci sono i documenti che scrivo e conservo; qui ascolto la radio, qui mi ascolto la musica, qui archivio ventimila foto, qui preparo il mio power point, che uso quando devo fare lezione; qui ho la calcolatrice; qui, se devo andare a trovare qualcuno schiaccio e mi fa da navigatore, qui faccio le foto, qui parlo con Facebook, qui con Twitter, qui con Skype, con cui posso conversare con quello che sta dall’altra parte del mondo, e potrei andare avanti. Ma il rischio qual è? È che tutte queste opportunità straordinarie finiscano per arricchire solo la vita culturale di chi ha già gli strumenti per usufruirne.
Allora, quando tu hai un oggetto di questo genere, la biblioteca cos’è? È ancora indispensabile? Secondo me sì, più che mai, perché è un luogo fisico, e c’è bisogno più che mai di luoghi fisici, luoghi che aiutino le persone che non hanno la possibilità di acquistare oggetti di questo genere e di saperli utilizzare. Pensiamo solo alla percentuale molto alta di anziani e a tutta questa cosa della digitalizzazione della pubblica amministrazione. Chi aiuterà queste persone a entrare in contatto con tutto questo?
Ecco io candido la biblioteca a luogo di mediazione e di facilitazione tra tutto quello che è il sapere, le conoscenze che ci sono nel web, che sono straordinarie, e la possibilità per te di potervi accedere e di trovare le cose che vanno bene per te. Ma non le schifezze. Sapete che il sito più cliccato in Italia è quello della Treccani? Non è Wikipedia. Perché? Presumibilmente perché continua ad avere un suo status di luogo di qualità, di luogo di garanzia, di luogo che non ti dà informazioni sbagliate. Tu devi aiutare le persone ad accedere a tutto questo.
Ecco, questa è una delle cose che dovrebbe fare la biblioteca. Un luogo dove fare recuperare dei saperi, dove stare insieme a fare delle cose, ma anche solo a stare insieme, o dove poter stare in un posto isolato a leggersi un libro, a guardare un panorama distaccato dal rumore che c’è fuori. Qual è un posto che ti può garantire anche questa sorta di solitudine gratuita? Poi, io tendo anche ad andare un po’ oltre. Perché credo che oggi, soprattutto nei piccoli comuni, nelle città medio-piccole, noi ci ritroviamo con tanti musei, cinema, che sopravvivono a fatica, e forse, allora, bisognerebbe costruire dei luoghi che siano una sorta di centro commerciale ma della cultura.
Il centro culturale di cui un tempo si parlava molto…
Sì, ritornare un po’ al vecchio centro culturale, dove uno entra in una hall comune e poi decide che cosa fare. Vuoi andare in biblioteca? Vuoi andarti a vedere una mostra? Al cinema? A teatro? Ne ho visti in Norvegia che avevano la piscina. Puoi stare tutto il giorno in questo luogo passando dalla biblioteca, a prenderti l’aperitivo, a farti la nuotata, a vedere un film, eccetera, eccetera. Probabilmente questa impostazione ci aiuta anche a economizzare le risorse, facendo stare questi luoghi più aperti. Il piccolo museo della piccola cittadina può stare aperto un fine settimana, forse la biblioteca qualche ora; se invece tu hai un luogo che tiene insieme tanti differenti servizi forse puoi anche economizzare rispetto ai flussi, perché è inutile tenere aperte le cose quando non arriva nessuno.
Insomma, dobbiamo chiederci se ha ancora senso avere tanti luoghi separati quando le persone sono ormai abituate ad avere tante offerte contemporaneamente, sia virtuali che dai centri commerciali. Non sarebbe meglio avere anche un luogo culturale che ti dà offerte molteplici?
Ma ci vorrebbe una gran sensibilità politica…
In un paese in cui non sono un’emergenza le scuole, non sono certamente un’emergenza le biblioteche. Ecco, quante biblioteche si farebbero in Sicilia con i soldi che costerebbe il ponte? Bisogna decidere quali sono le infrastrutture fondamentali di questo nostro paese. È il trasporto o è creare delle persone capaci di ragionare, capaci di essere anche interpreti dello sviluppo del loro paese. Se tu ti alimenti solo della televisione e di poco altro, andrai poco lontano. Allora la biblioteca io la vedo proprio come un cardine fondamentale per la ricostruzione del paese. Poi, certo, la valorizzazione dei beni culturali, della loro conservazione, non va certo trascurata, ma se va avanti così rischiamo di conservare delle cose che poi le persone non saranno in grado di leggere. Tullio de Mauro ci parla sempre di questo 70% di analfabetismo funzionale, che sarebbe quella forma di analfabetismo che colpisce persone che hanno fatto un loro percorso di studi anche normale, strutturato, quindi sono andate a scuola e che, però, nel tempo non hanno mai fatto di conto, non hanno mai scritto, non hanno mai letto, per cui si ritrovano a essere poi incapaci di fare un conto, di arrivare alla fine di un articolo minimamente complicato, sono incapaci di dirti cos’hanno letto, ecc. ecc. Quindi un altro campo in cui la biblioteca potrebbe avere un ruolo fondamentale è proprio quello dell’extra-scuola, tutto ciò, cioè, che sta fuori dei percorsi strutturati di formazione. Pensiamo solo alle persone che invecchiano sempre più, a tutti gli immigrati che stanno arrivando, a tutti quelli che hanno fatto la scuola male.
Tu dici che la biblioteca è un luogo neutro, e che questa è la vera caratteristica della biblioteca. Cosa vuoi dire?
Che è un luogo dove ci puoi andare non necessariamente per un motivo specifico. A scuola ci vai perché vai a scuola, in ospedale perché sei malato, in comune per fare un certificato, in biblioteca ci puoi andare perché hai voglia di andarci. In più ci vanno tutti. Oggi nella gran parte dei nostri luoghi culturali c’è una soglia che è una barriera psicologica, non fisica ovviamente. Ecco, va abbattuta per far sì che chi entra si senta esattamente come tutti gli altri e senta che quel luogo potrebbe essere veramente il suo. Qui il problema diventa quello della partecipazione. Io sono più che mai convinta che questi luoghi per funzionare debbano essere costruiti insieme ai cittadini.
Per arrivare a questo abbiamo bisogno non solo di bibliotecari col curriculum tradizionale, ma di facilitatori, di mediatori, di persone creative, di persone con una grande capacità di relazione, capaci di stimolare, di intercettare, di inventare. Fra il personale di una biblioteca a mio avviso dovrebbero esserci un grafico, un addetto all’hacker space, un bibliotecario, uno che fa teatro, operatori che sappiano costruire insieme ai cittadini, aiutare i cittadini a portare lì dentro i propri saperi. A quel punto i cittadini sentiranno quel posto come loro.
Da questo punto di vista mi ha enormemente impressionata una biblioteca in Danimarca. Quando ho chiesto al direttore quanto spendevano per le attività culturali, mi ha risposto che non spendevano nulla, perché le facevano i cittadini. Sono stata lì due giorni e succedeva di tutto e di più: c’erano ragazzotti che imparavano a fare un videogioco, altri che facevano tamburo con i genitori, una serra dove portare le piante che stanno male, con qualcuno che faceva l’sos piante. Tutti saperi della gente che abita nella città, che spesso sono saperi straordinari, ma che si rischia di perdere. Per questo è un luogo che non può essere progettato e calato dall’alto, perché si deve plasmare sul territorio.
Tu descrivi anche questi posti dedicati ai bambini…
In una biblioteca di Oslo ho visto una parte riservata a bambini da 10 a 13 anni, in cui gli adulti non possono proprio entrare. Loro si sono accorti che quella è l’età in cui cala la lettura, fino ad allora importante per loro, forse perché è il periodo più difficile per un ragazzino, quello in cui non sai ancora cosa sarai, in cui si dice, con quell’orribile espressione, che "non sei né carne né pesce”, ma un po’ è così, sei alla ricerca dell’identità e non sai cosa sarai da grande. In quell’età questi ragazzini si sentono schiacciati fra i fratellini più piccoli e tanti adulti, i genitori, gli insegnanti, gli allenatori, che dicono loro cosa devono fare. Ecco, lì hanno fatto un laboratorio con questi ragazzi ed è venuto fuori cosa avrebbero voluto: un posto senza genitori, senza bambini più piccoli, un posto dove stare tranquilli perché le loro case erano troppo incasinate, e hanno costruito un luogo, secondo me fantastico, dove è vietato l’ingresso agli adulti. Io ci sono entrata pregando, "vengo dall’Italia”, ma altrimenti non entra nessun adulto, salvo gli operatori che sono giovanissimi.
Mi è sembrata un’idea straordinaria, perché mette insieme due elementi fondamentali: una politica, che si chiede che cosa fare per un’età a rischio, che comincia a non leggere più, e un progetto che viene costruito e realizzato assieme ai ragazzini. Un progetto quindi totalmente finanziato dal pubblico perché è un investimento, tra l’altro in un quartiere particolarmente complicato. Una sfida a 360 gradi.
Fra l’altro non credo che ci sia un problema di soldi, perché ogni volta che vado nel sud vedo che i soldi arrivano ma non portano mai alcun cambiamento. Allora mi chiedo perché non si può fare qualcosa del genere? Perché intere città come Catania, Palermo, Napoli non possono avere luoghi, biblioteche per bambini? La biblioteca per bambini non significa avere quattro libri scalcagnati messi in un angolo. Significa avere un posto bellissimo, perché più sei sfortunato più hai il diritto di avere un posto bello, con libri belli, tenuti bene.
Tu concentreresti nella biblioteca anche molti servizi al cittadino…
Sì, visto che esiste un ministro che tiene insieme cultura e turismo. Ricordo che negli Usa e in Inghilterra le biblioteche sono i punti informativi della città, che da noi sono sparpagliati. Se tutti gli sportelli al cittadino fossero messi in un unico posto, che può essere la biblioteca, che sta più aperta ed è percepita come un luogo meno ostile, meno burocratico, meno "dall’altra parte”, magari i cittadini vivrebbero questi servizi in modo differente. All’estero in biblioteca fanno passaporti, carte d’identità, ci sono persone che ti aiutano a fare la ricerca del lavoro, a compilare il modulo, perché non è sufficiente avere il modulo, la difficoltà sta soprattutto nella compilazione. Negli Usa ci sono migliaia di volontari che aiutano queste persone che cercano lavoro a compilare il modello; simulano i colloqui in biblioteca, per prepararli a quelli di lavoro.
Ho letto di una biblioteca che impresta le cravatte per prepararli anche nel vestire. Ecco, io penso che questo sia un fronte molto importante.
L’altro fronte è quello del turismo. Ci saranno sempre più dei turisti cosiddetti ecologici, che girano in bici, che vanno nei centri minori, e quale punto migliore della biblioteca per chiedere informazioni del luogo in cui si è arrivati! Negli Usa è così. Ogni biblioteca, anche nel paesino di 500 abitanti, ha il suo il visitor center, dove ti raccontano che lì è passato Pecos Bill, ti danno la piantina dei posti dove andare a sciare, dove mangiare, ma, soprattutto, i bibliotecari, a differenza del centro turistico, aggiungono conoscenza perché non si limitano a dare il mero depliant, ma introducono il visitatore all’interno della vita culturale del posto. E la biblioteca è il posto ideale per far questo. Molti turisti, poi, cercano internet gratuito, il wireless, un posto dove potersi sedere e riposare, fare pipì, magari c’è anche la possibilità di offrire qualcosa da mangiare. I turisti stranieri sono abituati ad andare in biblioteca perché ti offre tutto questo.
Ho letto che in biblioteche forse più piccole potrebbe esserci anche una cucina, un posto dove fare conversazione, chiacchierare...
Sì, questa cosa della cucina è molto interessante. La tendenza a fare un piccolo ristoro all’interno delle biblioteche (detto tra parentesi: io odio le macchinette) è diffusa, però questo deve essere gestito, per cui si può fare in un centro un po’ grande. Ma anche in questo caso mi sembra importante che lo si veda non come un qualcosa che non c’entra con la biblioteca, ma proprio come un pezzo delle attività che la biblioteca offre. Per dire: adesso da Memo, a Fano, abbiamo preso un pianoforte a mezzacoda, che sta dove c’è il caffè, e alle sei di pomeriggio qualcuno viene a suonare, tu ti bevi il tè e ascolti la musica; questo mentre ci sono quelli che prendono i libri e vanno in giro, quello che si sceglie il film da vedere a casa, ecc.
Invece questa cosa della cucina è un po’ diversa: Nell’ambito di un laboratorio di partecipazione al quartiere Isola, a Milano, ero stata coinvolta da un gruppo di cittadini che aveva avuto l’incarico di ragionare su due temi: uno era il passante, con questo enorme cavalcavia, e l’altro un centro culturale del quartiere. Questa idea del centro culturale è simile alla mia idea di biblioteca, infatti io stessa tendo a non usare il termine biblioteca, perché a tutti viene in mente un luogo che non è quello cui penso io. Secondo me il nome "centro civico culturale” sarebbe il più giusto.
Tu insisti su questa cosa del nome…
In realtà la potremmo chiamare in molti modi differenti, c’è proprio un dibattito su questo aspetto del nome; io se posso tendo a chiamare questi luoghi con dei nomi che non hanno particolarmente senso. Quindi a Maiolati Spontini, il nome della biblioteca è diventato solo "La Fornace”, anche a Pesaro è rimasto solo "San Giovanni”, in modo che le persone quando dicono: "Dove ci troviamo?”, la risposta possa essere semplicemente: "Al San Giovanni”. Purtroppo il nome biblioteca è troppo legato a un certo tipo di contenitore. Questa cosa del nome è molto importante. E lo è anche all’estero dove la biblioteca pubblica non ha mai avuto i pregiudizi che ha avuto la biblioteca italiana.
Ecco, torniamo al quartiere Isola…
Loro, in questo percorso partecipativo, sono andati a chiedere a un centinaio di persone cosa avrebbero voluto trovare all’interno di questo centro civico di quartiere. E più di uno ha chiesto di poter avere una cucina. Perché? Perché ormai le cucine di casa sono microscopiche. Se tu vuoi cenare con gli amici, coi parenti, devi andare in pizzeria, che è orribile. Vien da pensare un po’ alle vecchie case del popolo e forse bisognerebbe ripensarci. Cinquant’anni dopo tornano fuori gli stessi bisogni anche se l’ideologia non c’è più. Mi è sembrato molto interessante che, all’interno di un luogo polivalente, dai molteplici contenuti, loro chiedessero che ci fosse anche una cucina.
In questo bizzarro paese che è l’Italia ci sono oltre 3.000 premi letterari, alcuni centinaia di festival di tutti i tipi, poi però non si legge. E però ci sono tantissimi club di lettori, gruppi di lettura. Dappertutto. Allora sarebbe molto bello se questi si potessero ritrovare in biblioteca, se tu avessi anche un caminetto sarebbe ancora meglio, e in questa stagione poter fare le castagne davanti al fuoco e leggere. Insomma, perché non pensare di poter avere luoghi di questo genere? Hai un tavolo e ti trovi per mangiare, ognuno porta una torta e ti fai il tè. Io lo vedo molto come un luogo caldo, familiare, questo famoso terzo luogo.
Concludendo?
Vedo il rischio che in un momento come questo, in cui si dice che non ci sono soldi, sempre di più chi può reagirà e si attrezzerà per conto suo. Il problema riguarda tutti quelli che non hanno queste possibilità. Io continuo a preoccuparmi di questi. In tutti i convegni si continua a ragionare solo su chi già utilizza. Io credo che se non facciamo dei passetti per allargare la base dei frequentatori questo paese non ce la fa. Non puoi tirarti dietro così tanti cittadini che non hanno competenze. Io dico sempre, provocatoriamente, ai miei colleghi: "Ma quanti di voi hanno fatto dei corsi di finanza e di economia di base?”. Tutte le biblioteche avrebbero dovuto farli. Non è possibile che succeda quello che è successo alla Banca Etruria! Se uno fosse stato minimamente attrezzato, anche se era l’amico a proporgli di comprare, forse ci avrebbe pensato di più! Allora, in questa come in mille altre cose, è proprio un problema di conoscenza. Io continuo a essere convinta che se avessimo tante biblioteche belle, il paese starebbe molto meglio.
* a cura di Gianni Saporetti su www.unacitta.it gennaio 2017
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