di Donatella Di Cesare *
C’era una volta il Progresso. E c’era l’enorme
entusiasmo che suscitava: il domani sarebbe stato migliore dell’oggi, la
prosperità avrebbe trionfato per tutti, la razionalità avrebbe sconfitto le
tenebre, la società sarebbe stata più avanzata. Di tutto ciò dopo pandemie,
guerre, riscaldamento climatico, violenze e brutalità di ogni genere, resta ben
poco. Solo una vulgata chiamata progressismo che ha i suoi adepti e nostalgici
nelle élites occidentali ed è un insieme di buoni sentimenti,
luoghi comuni, slogan fatti di stereotipi e termini vaghi con cui si celebrano
“modernizzazione”, “sviluppo”, “innovazione”, “crescita”. Questo progressismo
diffuso, di grande povertà concettuale, è diventato il codice a cui attingono i
politici di professione del centrosinistra. È un codice che funziona a mo’ di
slogan pubblicitario – anzi la pubblicità ne ha tratto vantaggio. “Sì al
cambiamento. Votate Apple”, “Il Pd è il progresso”, eccetera.
Dopo la liquidazione
di tutti i contenuti della sinistra europea, soprattutto della sinistra
italiana, il progressismo è diventato l’etichetta più neutra possibile,
il passe-partout che si adatta alle posizioni più elusive –
anche Draghi a suo modo è un progressista – di quel conformismo ideologico che
costituisce la retorica delle élites occidentali. Può essere
usato senza pensarci troppo e senza crederci troppo. Basta imparare la
lezioncina. Meglio poi se, a conferma che tutto va per il meglio, ci si concentra
su quelli che vengono chiamati “diritti”, e spesso non sono che i privilegi
ulteriori di chi gode già di una sfera privilegiata. La risata di Harris,
grottesca e intempestiva, è il simbolo di tutto ciò. La sua cocente disfatta è
la sconfitta delle élites progressiste occidentali. Se da un
canto portano il peso di enormi errori compiuti a più riprese nel corso degli
ultimi anni, dall’Afghanistan a Gaza e ritorno, passando per l’Ucraina,
dall’altro non hanno più nulla, o quasi, da dire sui grandi temi politici che
dovrebbero essere all’ordine del giorno: la guerra, la povertà, l’inflazione,
il lavoro, la migrazione, le devastazioni climatiche. E in Italia se ne
aggiungono molti altri: la sanità, l’istruzione, il Sud, un vero progetto
politico per le donne.
Non basta il
pessimismo dell’intelligenza di chi riconosce che non si sta andando verso il
meglio. E non basta neppure richiamare, come alcuni fanno, l’opposizione tra
diritti civili e diritti sociali, anche questa un po’ stantia. La nuova destra
trumpiana, che trova in Europa i suoi più schietti esponenti in Viktor Orbán e
Giorgia Meloni, vince – e continuerà a vincere – per almeno tre profonde
ragioni. La prima è che sa presentarsi come novità (e forse in parte lo è),
rispetto al progressismo elitistico che suonava già obsoleto vent’anni fa.
Questo linguaggio della vecchia borghesia liberale, che ha preteso di farsi
universale, parlando anche per i ceti subalterni, semplicemente non funziona
più.
La seconda ragione è
che la fine delle certezze progressiste ha provocato smarrimento,
rassegnazione, rancore, fuga nella vita privata, chiusura nella famiglia, corsa
al successo individuale in una competizione all’ultimo respiro con gli altri.
La nuova destra, oltre a riconoscere tutto ciò, sa dare una risposta, per
quanto banale e spietata.
La terza ragione sta
nella ricetta: offrire un saldo riparo da quel che avviene lì fuori,
nell’ingovernabile caos del mondo, tra conflitti e catastrofi. Il che suona
come musica per le orecchie dei preoccupati e ansiosi cittadini delle
democrazie occidentali. E il riparo è ovviamente per loro, sebbene si precisi
come scudo per alcuni gruppi, per alcune tribù (non sarebbe destra!), che in
Italia, ad esempio, sono tassisti, balneari, autonomi, piccoli e grandi
evasori, eccetera. Funziona così e funziona bene, visti anche i risultati.
Perché promette di difendere gli interessi di alcuni, e li difende. Ma poi sa
fare l’occhiolino ai ceti subalterni che appartengono pur sempre alla nazione.
Questo insegna Trump, l’affarista entrato in politica solo per curare il corpo
malato dell’America, il guaritore, che depurerà quel corpo da ogni minaccia
sovversiva interna e da ogni pericolo esterno. Autarchia, grandezza mistica,
purezza dell’ultranazionalismo.
Dall’altra parte c’è
il progressismo astratto, che ostenta valori universali, che millanta di
promuovere gli interessi di tutti e che, a ben guardare, persegue solo quelli
di pochi. A questa scialba versione di routine non credono più neppure le élites occidentali
che ne detengono il monopolio. Finché questa vuota ideologia non imploderà,
finché questo linguaggio fatto di grotteschi ritornelli, non mostrerà fino in
fondo tutti i suoi non-sensi, sarà impossibile costruire una vera alternativa
in grado di essere all’altezza dei tempi.
* da
ilfattoquotidiano.it ( via infosannio) – 17 novembre 2024
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