Partono le
primarie democratiche e il conflitto tra progressisti e moderati del partito
s’accentua. Ma chi è nella posizione migliore per battere Trump?
di Marco
Michieli *
Oggi
cominciano le primarie democratiche. Dai caucus in Iowa avremo già qualche segnale
sulla forza e la debolezza dei candidati. Lo scontro sembra oggi sempre più tra
Bernie Sanders e Joe Biden. Al di là di dei risultati elettorali, quello in
corso non è però soltanto una competizione tra personalità e storie politiche
differenti. È anche la cristallina rappresentazione del conflitto che da
qualche tempo divide i Democratici tra progressisti e moderati.
I primi
pensano che un’agenda politica più marcatamente di sinistra sia la sola in
grado di mobilitare i cittadini: più alta la partecipazione, maggiore la
probabilità di sconfiggere Trump. I secondi ritengono che non si debbano
perdere pezzi di elettorato, fondamentali per vincere alcuni stati chiave:
offrono un’agenda più flessibile in grado di attirare indipendenti e una parte
degli elettori di “The Donald”. Da queste due idee nascono anche strategie
elettorali diverse.
Biden e i
candidati di centro portano avanti un’agenda “democratica” più tradizionale.
Certo, strizzano qualche volta l’occhio a sinistra, per mantenere unita la
coalizione democratica, senza polarizzarla. Ma puntano tutto sulla loro
electability [ragionevole possibilità/capacità di essere eletti]. Una
posizione non facile da sostenere in un Partito democratico che ha spostato il baricentro dei propri
sostenitori un po’ più a sinistra in questi
anni (e il senatore del Vermont non ne è la causa principale).
Sanders,
invece, concentra i suoi sforzi sulla trasformazione del paese in una
“socialdemocrazia” europea. Secondo il senatore del Vermont, solo attraverso
alcune proposte politiche radicali – dalla sanità all’istruzione – si possono
mobilitare nuovi elettori. Se queste proposte aiutano a mobilitare, sono anche
un’arma a doppio taglio: qualora un progressista dovesse vincere le elezioni,
deve anche convincere gli elettori non democratici a sostenere quell’agenda.
Non solo per le elezioni presidenziali ma anche per quelle per i due rami del
Congresso, fondamentali per realizzare quelle idee. È una differenza non da
poco tra le due strategie. La prima è più tradizionalmente democratica:
costruire una grande coalizione – la Big Tent, la grande tenda –
cercando di dare soddisfazione ai liberal e ai conservatori. La seconda è
nuova: agenda politica radicale, senza possibilità di compromesso. Una
strategia legittima ma rischiosa, perché polarizza i democratici e rischia di
danneggiarli, se il candidato fosse un “moderato”.
Chi è quindi
meglio posizionato per vincere? Un moderato o un progressista? O meglio. Che
cosa deve fare un democratico per battere Trump, riprendersi il Senato e
vincere dove Hillary Clinton ha perso? Per capirlo bisogna liberarsi dalle
logica “europea” con cui si guarda alla politica americana. E si devono
osservare quelle che sono le variabili più rilevanti: come votano gli
elettori indipendenti, i swing voters e gli Obama-Trump voters? Le
elezioni di Midterm del 2018 hanno rivelato che i gli elettori indipendenti e
quelli che votano al di là delle divisioni politiche (gli swing voters,
che cambiano voto di volta in volta) sono stati decisivi. Secondo le stime
della società Catalist, se il tasso di affluenza alle urne è stato una
componente importante per la vittoria dem, circa l’89 per cento dei
miglioramenti nei margini di voto è dovuto agli swing voters.
A livello di
candidati, poi, il successo dei democratici è stata guidato dai moderati del
partito. Nonostante infatti il grande successo mediatico di Alexandria
Ocasio-Cortez e di altri, sono i democratici moderati che hanno vinto quei
seggi che sono passati dai repubblicani ai democratici (28 seggi). E che hanno
vinto anche le elezioni dei governatori in stati ormai difficili come Michigan,
Wisconsin e Kansas. E vincere le elezioni statali è importante per definire i
confini dei collegi elettorali e le liste degli elettori. Quando si tratta di
strappare seggi ai repubblicani sono quindi i moderati dem che offrono la
performance migliore. I progressisti però sono stati molto abili a sconfiggere
i moderati alle primarie. Ocasio-Cortez, ad esempio, è stata eletta in un
seggio sicuro. La sua impresa politica è stata quella di aver vinto
inaspettatamente le primarie contro un “boss“ dei democratici a New York.
Un’agenda
politica radicale quindi aiuta a vincere nuovi elettori? È difficile dirlo per
le elezioni di Midterm perché i progressisti correvano in aree dem. Forse hanno
mobilitato più persone. Ma in un seggio già sicuro, il fatto di avere dieci o
venti punti di differenza dall’avversario sconfitto, non è rilevante. Un’analisi del Center for
Politics dell’Università della Virginia
ha dimostrato che i candidati che alle elezioni del 2018 si presentavano con
una piattaforma più radicale sulla sanità, hanno ottenuto performance
elettorali peggiori dei candidati con posizioni più moderate.
L’altro
tassello importante sono i cosiddetti Obama-Trump voters. Questi
sono elettori che votarono per Barack Obama nel 2008 e/o nel 2012 e che
nel 2016 scelsero di votare per Donald Trump. Si tratta di un elettorato
democratico con posizioni più liberal in economia ma tendenzialmente più
conservatore sulle tematiche sociali, compresa l’immigrazione. Questi Obama-Trump
voters sono per lo più bianchi e con basso titolo di studio; sostengono le
politiche di Trump sull’immigrazione, la sicurezza e il commercio. Sono stati
l’obiettivo principale del messaggio populista di Trump. Alcuni scienziati politici hanno anche rilevato che la ragione di fondo del
passaggio dal voto per Obama a Trump sia il risentimento razziale. Di quanti
elettori parliamo? Secondo alcune ricerche, tra gli elettori che votarono Trump nel 2016, circa
il tredici per cento erano elettori che nel 2012 avevano votato Obama. Secondo
il 2016 Cooperative Congressional Election Study si tratterebbe di 6,7 milioni
di persone.
Sembrano
pochi. Tuttavia, l’impatto di questi elettori è stato rilevante a livello di
singoli stati. Come si sa, infatti, per vincere le elezioni conta il collegio
elettorale, non il voto popolare. Gli Obama-Trump voters sono stati
particolarmente rilevanti nei cosiddetti Swing States, quegli stati che
di volta in volta votano per uno o per l’altro candidato. È il caso dell’Ohio e
della Pennsylvania (che insieme contano 38 voti per il collegio elettorale). Ma
anche di stati di maggiore tradizione democratica come Wisconsin e Michigan (26
voti in totale). Secondo gli ultimi sondaggi, la maggior parte di questi Obama-Trump
voters non modificherà il proprio voto nel 2020. Però per i democratici è
estremamente importante riuscire a convincere almeno una parte di questi a
tornare a votare per il candidato democratico (è in parte quello che è successo
nel 2018).
C’è un altro
punto da considerare, per capire se sia utile una candidatura moderata o
progressista. Come al solito, infatti, non si terranno solo le elezioni
presidenziali. Ci sarà il rinnovo della Camera dei Rappresentanti (435
deputati). E soprattutto l’elezione di un terzo del Senato (33 senatori). Anche
l’elezione della Camera, che non dovrebbe riservare problemi per i democratici,
potrebbe risultare complicata, a seconda della candidatura presidenziale. Oggi
i rapporti di forza sono a favore dei democratici: Nancy Pelosi guida una
maggioranza di 232 democratici contro 197 repubblicani (sottodimensionata
rispetto ai voti presi: il frutto del gerrymandering repubblicano negli
stati da loro controllati). I repubblicani però hanno preso di mira 33 seggi,
dove sperano di scalzare i democratici e riprendersi la Camera. Sono tutti
seggi in cui Trump vinse nel 2016 ma perse nel 2018. E sono in aree a rischio
per i democratici: dall’Arizona alla Georgia, dall’Iowa al Missouri, dal
Michigan al New Mexico, dalla Pennsylvania alla Virginia, al South
Carolina.
È però il
Senato, oggi in mano ai repubblicani, la partita più difficile. Senza il Senato
l’agenda progressista radicale non riuscirà mai a realizzarsi. Se il Senato
rimanesse in mano ai Repubblicani, difficilmente il leader della maggioranza
Mitch McConnell sarà disposto a raggiungere compromessi su proposte politiche
che detestano. Attualmente i rapporti di forza al Senato sono questi: 53
senatori repubblicani e 45 democratici (più due indipendenti, tra cui Sanders,
che votano con i democratici). Ciò significa che per vincere a novembre il
Senato, i democratici devono prendere almeno tre seggi senatoriali ai
repubblicani, non perderne (si rivota in Alabama dove nel 2017 vinsero i
democratici), e sperare di vincere le elezioni presidenziali, per poter contare
sul voto del vice-presidente democratico, che presiede il Senato.
Dove si
trovano questi seggi senatoriali che i dem potrebbero strappare ai
repubblicani? Arizona, Georgia e Colorado. E poi Texas, North Carolina, Maine,
Iowa. Si tratta di seggi – quasi tutti – di tradizione repubblicana. Quindi
i democratici dovranno difendere i propri seggi – e alcune competizioni sono
difficili, come in Michigan e in Alabama, stati vinti da Trump nel 2016 – e nel
contempo vincere tre-quattro seggi ora in mano ai Repubblicani.
I progressisti
sono in grado di offrire un’agenda adattabile alle varie competizioni
elettorali? Al momento sembrerebbe di no. Ma un’agenda non disposta al
compromesso, rischia di non passare tutti i test elettorali che i democratici
si troveranno ad affrontare. Sanders viene continuamente chiamato
“socialist” dai repubblicani, un appellativo che corrisponde al berlusconiano
“comunista”. Non vogliono offendere Sanders ma solo polarizzare lo scontro: tra
due candidati estremi, anche i repubblicani più moderati potrebbero decidere di
scegliere il male minore. E il male minore per un repubblicano non è il
“socialista” Sanders.
Grazie alla
sua agenda radicale, Sanders può infatti vincere le primarie (anche se dovrà
trovare un modo per convincere gli African-americans a votare per lui, visto il
suo scarso appeal per questa fascia di elettorato, una base consistente di voti
dem). Una vittoria del senatore del Vermont non è più improbabile. Ma dovrà
prima o poi porsi il problema: se vuole realizzare almeno una parte di quello
che propone, deve costruire una coalizione più ampia e più attenta al
compromesso. Che significa qualche delusione per i suoi elettori delle
primarie. Joe Biden, dal canto suo, ha molti altri problemi. Di
stanchezza fisica, innanzitutto. Di gaffes. Di vicende familiari poco chiare
(vedi Ucraina). Che sia lui il candidato o un altro centrista del partito, i
moderati sembrano quelli meglio posizionati per vincere gli elettori negli
stati chiave e le elezioni per il rinnovo del Congresso. E Trump lo sa: non è
un caso che l’obiettivo dei suoi attacchi siano Biden o Michael Bloomberg, l’ex
sindaco di New York.
Foto: Perché
i caucus in Iowa sono considerati così importanti? In gran parte dei casi, chi
ha vinto la prima delle primarie democratiche è stato incoronato alla
convention.
*
da www.ytali.com
- 3 febbraio
2020
La pubblicazione dell’intervento, ritenuto
utile sul piano della informazione,
non comporta la condivisione dei contenuti
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