13 febbraio 2018

L’Egitto esporta il suo modello autoritario




Per buona parte degli ultimi due secoli l’Egitto è stato l’epicentro e il banco di prova di tutte le tendenze politiche e culturali del mondo arabo. Per questo dovremmo essere preoccupati dagli eventi che, nell’ultimo mese, hanno strangolato, incriminato, intimidito, detenuto o eliminato politicamente tutti i potenziali candidati che avrebbero potuto seriamente sfidare il presidente-generale Abdel Fattah al Sisi alle elezioni presidenziali di quest’anno.
Dovremmo preoccuparci perché questo modello egiziano di manipolazione, incentrata sulla sicurezza e l’esercito, e di monopolizzazione del potere continua a diffondersi negli altri paesi arabi. 

I risultati prestabiliti delle elezioni presidenziali o la spartizione di seggi parlamentari a vantaggio dell’élite al potere sono preoccupanti principalmente perché sottraggono alla società la possibilità di affrontare il deterioramento delle condizioni di vita in corso in buona parte del mondo arabo. L’istruzione, l’occupazione, l’accesso all’acqua, la sanità, la qualità dell’aria, la sicurezza del cibo, la corruzione, la negazione dei diritti umani, la povertà, la debolezza delle reti di protezione sociale, il lavoro sommerso, le disuguaglianze, la mancanza di partecipazione politica e di responsabilizzazione, l’espansione urbana fuori controllo: sono tutti aspetti della vita quotidiana che continuano a peggiorare. 

Invisibili agli occhi del potere
 
La violenta eliminazione, in Egitto, di tutti gli altri seri concorrenti alla presidenza è preoccupante anche perché porta a nuovi livelli la disumanizzazione di milioni di donne e uomini nei paesi arabi, che spesso si trovano nudi, bendati, ammanettati e invisibili di fronte alle loro autorità politiche.
I diritti politici, sociali, economici e culturali di milioni di persone nel mondo arabo sono sistematicamente schiacciati da élite egoiste che hanno seguito il copione scritto in Egitto con il colpo di stato militare degli anni cinquanta, e che oggi si diffonde in tutta questa martoriata regione. 

Queste élite prendono il potere con la forza, creano e manipolano gli strumenti che influenzano e controllano la società, corrompono, creano clientele, applicano un indottrinamento di massa e meccanismi di propaganda che indicano cosa sia lecito leggere, ascoltare, dire o pensare. Per poi presentarsi come salvatrici della patria con promesse populiste che sfruttano la disperazione della popolazione.
È importante osservare l’Egitto perché rimane il cuore e la fonte di questa tendenza autoritaria e distruttiva di tutta la nostra regione. Ma è importante sottolineare anche le qualità del popolo egiziano che cerca di resistere. Qualità come l’indistruttibile saggezza, l’umanità e la gioia che sopravvivono sotto la superficie, nonostante la violenza del potere.
Il modello egiziano utilizza la forza bruta per stroncare qualsiasi opposizione e ogni tentativo di libertà d’espressione

Le elezioni presidenziali sono l’ultimo esempio di come funziona il processo di controllo del potere. Il sistema autocratico egiziano di questi 65 anni è descritto con grande efficacia in Egypt, dello storico Robert Springborg, che ripercorre in modo approfondito e con chiarezza le tradizioni e i meccanismi del deep state – lo stato profondo – che hanno modellato l’Egitto contemporaneo, compresi alcuni capitoli sulla presidenza, le forze armate e le forze di sicurezza, il parlamento, la società civile e la lunga strada accidentata che attende il paese. Lo consiglio a chiunque voglia comprendere le tendenze autoritarie presenti nella nostra regione.
La bocciatura, da parte del governo egiziano, delle candidature presidenziali di Ahmed Shafiq, Sami Hafez Anan, Khaled Ali e Mohamed Anwar Sadat non è stata una sorpresa, dati i precedenti del potere del regime di Al Sisi, a partire dalla deposizione del primo presidente egiziano legittimamente eletto, Mohamed Morsi, nel 2013.

Quel che stupisce è che, subito dopo la repressione delle rivolte arabe del 2010-2011 operata dagli apparati statali e dai loro sostenitori, orientali e occidentali, tanti altri paesi arabi abbiano seguito il modello egiziano, che utilizza la forza bruta per stroncare qualsiasi opposizione, oltre che ogni tentativo di libertà d’espressione.
Dunque, oltre a quello egiziano, anche altri governi arabi impediscono ai loro cittadini di esprimersi nella sfera pubblica e sui social network. La criminalizzazione delle espressioni politiche e della libertà d’espressione è l’ultimo capitolo di questa barbarie.
Milioni di cittadini arabi crescono sapendo di non avere alcuna voce, alcun potere, alcun diritto e forse addirittura alcun valore.

Tanti governi arabi, come l’Egitto, cercano di contenere la rabbia e l’umiliazione dei loro stessi cittadini, che in molti casi vogliono semplicemente esprimere le loro opinioni, partecipare pacificamente alle discussioni e alle decisioni che hanno un impatto sulle loro vite, e in molti casi trovare un modo di poter dare da mangiare ai loro figli, o di consentirgli di avere dei posti di lavoro dignitosi in economie che sono in buona parte controllate da piccole élite di potere. 

Milioni di cittadini arabi sono castrati politicamente, socialmente ed economicamente alla nascita, e crescono sapendo di non avere alcuna voce, alcun potere, alcun diritto e forse addirittura alcun valore in quanto esseri umani. Il vero cuore di questa brutta faccenda rimane, a mio avviso, la libertà d’espressione. In molti paesi arabi il semplice fatto di esprimere la propria opinione in pubblico sta diventando sempre più difficile o pericoloso.
Eppure gruppi di attivisti dei diritti umani e coraggiosi e patriottici individui continuano a far sentire la propria voce, poiché capiscono che solo se tutti gli arabi avranno l’opportunità di partecipare alla loro vita pubblica e alle politiche dei loro paesi le loro società avranno una possibilità di affrontare le grandi difficoltà che caratterizzano oggi tutti i settori della vita. 

In un mondo che continua a essere postcoloniale, è significativo leggere un editoriale del Washington Post sulle dure pene detentive inflitte a due cittadini sauditi per aver cercato di creare una piccola organizzazione di difesa dei diritti umani online, che peraltro avevano chiuso su richiesta del governo. Commentando il contrasto con l’immagine futuristica e progressista del paese che i suoi funzionari hanno presentato al vertice globale di Davos, il giornale statunitense scrive : “La vecchia Arabia Saudita è ancora ben salda. Due attivisti per i diritti umani, Mohammed al Otaibi e Abdullah al Attawi, sono stati condannati rispettivamente a 14 e sette anni di reclusione, per aver brevemente creato un’organizzazione di difesa dei diritti umani circa cinque anni fa. A poco è servito che abbiano ubbidito alla richiesta del governo di chiuderla. Il pubblico ministero ha definito la pubblicazione di rapporti sui diritti umani, la rivelazione d’informazioni alla stampa e la condivisione di post su Twitter come atti criminali. Le sfavillanti promesse fatte agli investitori stranieri a Davos non possono mascherare il fatto che l’Arabia Saudita sia, per chi osa parlare, ancora quel che era cinque anni fa: una prigione”. 

La cosa è grave. Ma impallidisce di fronte a quanto ho visto intorno a me, negli ultimi decenni, nei miei spostamenti all’interno del mondo arabo: milioni di donne e uomini arabi le cui menti e la cui autostima si sbriciolano davanti ai nostri occhi ogni volta che si tenta di metterli al tappeto, di chiudere le loro bocche, di oscurare i loro cervelli, o di farli semplicemente obbedire ossequiosamente. Tutte azioni ordinate e messe in pratica da piccoli gruppi di uomini armati attratti dal potere ma incapaci di usarlo a beneficio del loro popolo.

Il lento e doloroso svuotamento morale e la concreta disumanizzazione delle società arabe le priva della capacità dei loro uomini, delle loro donne e dei loro giovani di essere parte attiva dei meccanismi, delle decisioni, delle valutazioni e dello sviluppo delle loro stesse società. Le terre dove esseri umani e cittadini sono trasformati in docili animali da soma sono terre infelici. 

* giornalista libanese - da www.internazionale.it  13 febbraio 2018  
 (Traduzione di Federico Ferrone)

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