di Rami Khouri *
Per buona parte degli ultimi due
secoli l’Egitto è stato l’epicentro e il banco di prova di tutte le tendenze
politiche e culturali del mondo arabo. Per questo dovremmo essere preoccupati
dagli eventi che, nell’ultimo mese, hanno strangolato, incriminato, intimidito,
detenuto o eliminato politicamente tutti i potenziali candidati
che avrebbero potuto seriamente sfidare il presidente-generale Abdel Fattah al
Sisi alle elezioni presidenziali di quest’anno.
Dovremmo preoccuparci perché questo
modello egiziano di manipolazione, incentrata sulla sicurezza e l’esercito, e
di monopolizzazione del potere continua a diffondersi negli altri paesi arabi.
I risultati prestabiliti delle
elezioni presidenziali o la spartizione di seggi parlamentari a vantaggio
dell’élite al potere sono preoccupanti principalmente perché sottraggono alla
società la possibilità di affrontare il deterioramento delle condizioni di vita
in corso in buona parte del mondo arabo. L’istruzione, l’occupazione, l’accesso
all’acqua, la sanità, la qualità dell’aria, la sicurezza del cibo, la
corruzione, la negazione dei diritti umani, la povertà, la debolezza delle reti
di protezione sociale, il lavoro sommerso, le disuguaglianze, la mancanza di
partecipazione politica e di responsabilizzazione, l’espansione urbana fuori
controllo: sono tutti aspetti della vita quotidiana che continuano a
peggiorare.
Invisibili agli occhi del potere
La violenta eliminazione, in Egitto, di tutti gli altri seri concorrenti alla presidenza è preoccupante anche perché porta a nuovi livelli la disumanizzazione di milioni di donne e uomini nei paesi arabi, che spesso si trovano nudi, bendati, ammanettati e invisibili di fronte alle loro autorità politiche.
I diritti politici, sociali,
economici e culturali di milioni di persone nel mondo arabo sono
sistematicamente schiacciati da élite egoiste che hanno seguito il copione
scritto in Egitto con il colpo di stato militare degli anni cinquanta, e che
oggi si diffonde in tutta questa martoriata regione.
Queste élite prendono il potere con
la forza, creano e manipolano gli strumenti che influenzano e controllano la
società, corrompono, creano clientele, applicano un indottrinamento di massa e
meccanismi di propaganda che indicano cosa sia lecito leggere, ascoltare, dire
o pensare. Per poi presentarsi come salvatrici della patria con promesse
populiste che sfruttano la disperazione della popolazione.
È importante osservare l’Egitto
perché rimane il cuore e la fonte di questa tendenza autoritaria e distruttiva
di tutta la nostra regione. Ma è importante sottolineare anche le qualità del
popolo egiziano che cerca di resistere. Qualità come l’indistruttibile
saggezza, l’umanità e la gioia che sopravvivono sotto la superficie, nonostante
la violenza del potere.
Il modello egiziano utilizza la
forza bruta per stroncare qualsiasi opposizione e ogni tentativo di libertà
d’espressione
Le elezioni presidenziali sono
l’ultimo esempio di come funziona il processo di controllo del potere. Il
sistema autocratico egiziano di questi 65 anni è descritto con grande efficacia
in Egypt,
dello storico Robert Springborg, che ripercorre in modo approfondito e con
chiarezza le tradizioni e i meccanismi del deep state – lo stato
profondo – che hanno modellato l’Egitto contemporaneo, compresi alcuni capitoli
sulla presidenza, le forze armate e le forze di sicurezza, il parlamento, la
società civile e la lunga strada accidentata che attende il paese. Lo consiglio
a chiunque voglia comprendere le tendenze autoritarie presenti nella nostra
regione.
La bocciatura, da parte del governo
egiziano, delle candidature presidenziali di Ahmed Shafiq, Sami Hafez Anan,
Khaled Ali e Mohamed Anwar Sadat non è stata una sorpresa, dati i precedenti
del potere del regime di Al Sisi, a partire dalla deposizione del primo
presidente egiziano legittimamente eletto, Mohamed Morsi, nel 2013.
Quel che stupisce è che, subito dopo
la repressione delle rivolte arabe del 2010-2011
operata dagli apparati statali e dai loro sostenitori, orientali e occidentali,
tanti altri paesi arabi abbiano seguito il modello egiziano, che utilizza la
forza bruta per stroncare qualsiasi opposizione, oltre che ogni tentativo di
libertà d’espressione.
Dunque, oltre a quello egiziano,
anche altri governi arabi impediscono ai loro cittadini di esprimersi nella
sfera pubblica e sui social network. La criminalizzazione delle espressioni
politiche e della libertà d’espressione è l’ultimo capitolo di questa barbarie.
Milioni di cittadini arabi crescono
sapendo di non avere alcuna voce, alcun potere, alcun diritto e forse
addirittura alcun valore.
Tanti governi arabi, come l’Egitto,
cercano di contenere la rabbia e l’umiliazione dei loro stessi cittadini, che
in molti casi vogliono semplicemente esprimere le loro opinioni, partecipare
pacificamente alle discussioni e alle decisioni che hanno un impatto sulle loro
vite, e in molti casi trovare un modo di poter dare da mangiare ai loro figli,
o di consentirgli di avere dei posti di lavoro dignitosi in economie che sono
in buona parte controllate da piccole élite di potere.
Milioni di cittadini arabi sono
castrati politicamente, socialmente ed economicamente alla nascita, e crescono
sapendo di non avere alcuna voce, alcun potere, alcun diritto e forse
addirittura alcun valore in quanto esseri umani. Il vero cuore di questa brutta
faccenda rimane, a mio avviso, la libertà d’espressione. In molti paesi arabi
il semplice fatto di esprimere la propria opinione in pubblico sta diventando
sempre più difficile o pericoloso.
Eppure gruppi di attivisti dei
diritti umani e coraggiosi e patriottici individui continuano a far sentire la
propria voce, poiché capiscono che solo se tutti gli arabi avranno
l’opportunità di partecipare alla loro vita pubblica e alle politiche dei loro
paesi le loro società avranno una possibilità di affrontare le grandi
difficoltà che caratterizzano oggi tutti i settori della vita.
In un mondo che continua a essere
postcoloniale, è significativo leggere un editoriale del Washington Post sulle dure pene
detentive inflitte a due cittadini sauditi per aver cercato di creare una
piccola organizzazione di difesa dei diritti umani online, che peraltro avevano
chiuso su richiesta del governo. Commentando il contrasto con l’immagine
futuristica e progressista del paese che i suoi funzionari hanno presentato al
vertice globale di Davos, il giornale statunitense scrive : “La vecchia
Arabia Saudita è ancora ben salda. Due attivisti per i diritti umani, Mohammed
al Otaibi e Abdullah al Attawi, sono stati condannati rispettivamente a 14 e
sette anni di reclusione, per aver brevemente creato un’organizzazione di
difesa dei diritti umani circa cinque anni fa. A poco è servito che abbiano
ubbidito alla richiesta del governo di chiuderla. Il pubblico ministero ha
definito la pubblicazione di rapporti sui diritti umani, la rivelazione
d’informazioni alla stampa e la condivisione di post su Twitter come atti
criminali. Le sfavillanti promesse fatte agli investitori stranieri a Davos non
possono mascherare il fatto che l’Arabia Saudita sia, per chi osa parlare,
ancora quel che era cinque anni fa: una prigione”.
La cosa è grave. Ma impallidisce di
fronte a quanto ho visto intorno a me, negli ultimi decenni, nei miei
spostamenti all’interno del mondo arabo: milioni di donne e uomini arabi le cui
menti e la cui autostima si sbriciolano davanti ai nostri occhi ogni volta che
si tenta di metterli al tappeto, di chiudere le loro bocche, di oscurare i loro
cervelli, o di farli semplicemente obbedire ossequiosamente. Tutte azioni
ordinate e messe in pratica da piccoli gruppi di uomini armati attratti dal
potere ma incapaci di usarlo a beneficio del loro popolo.
Il lento e doloroso svuotamento
morale e la concreta disumanizzazione delle società arabe le priva della
capacità dei loro uomini, delle loro donne e dei loro giovani di essere parte
attiva dei meccanismi, delle decisioni, delle valutazioni e dello sviluppo
delle loro stesse società. Le terre dove esseri umani e cittadini sono
trasformati in docili animali da soma sono terre infelici.
* giornalista libanese - da www.internazionale.it 13 febbraio
2018
(Traduzione di Federico Ferrone)
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