di Massimo Marino
L’11 gennaio avremo la
probabile conferma della Corte Costituzionale (meno di due settimane prima del
pronunciamento sull’Italicum) della validità del referendum detto “sul jobs
act” cioè la legge 183 del 2014. In realtà si tratta di tre quesiti diversi
attinenti all’art 18 dello Statuto dei Lavoratori (che verrebbe reintegrato ed
esteso) , sull’utilizzo dei voucher in piena espansione come surrogato di un
salario vero e proprio ( che si
vogliono eliminare ) e sulle tutele dei lavoratori in appalti e subappalti (
abrogando parte dell’art.29 del decreto del 2003 più noto come legge Biagi ). Si
tratta dei soli quesiti sopravvissuti alla cosiddetta “primavera dei referendum”
dove importanti referendum non sono decollati per insufficienza di firme.
Effetto probabile di una gestione sbagliata, a volte settaria, comunque inefficiente,
da parte di diversi dei loro promotori che ha fatto sfumare una grande
occasione di riforma in diversi settori cruciali del sistema sociale. (Costituzione, regole elettorali, scuola, fonti
fossili e incenerimento dei rifiuti. Oltre al lavoro che è appunto sopravvissuto).
Sulle conseguenze della primavera
fallita ho a lungo argomentato ( qui ) .
Il referendum, quasi
dimenticato dalla maggioranza dei commentatori per tre mesi, (così va l’Italia)
è in realtà un nuovo durissimo terreno di confronto dove sostenitori e
oppositori più o meno coerenti, almeno dalle prime battute recitano il solito,
prevedibile, rituale di dichiarazioni.
Gli oppositori, che sono in
primo luogo la Confindustria e il PD, che hanno imposto il Jobs Act immaginando
di avere di fronte un paese ormai frullato e pronto alla cura del renzismo,
immaginano le solite strade per spegnere la miccia: la furbata, un pochino
azzardata e poco probabile, di andare alle elezioni ( e quindi fare prima una
nuova legge elettorale per le due camere ) entro la primavera per rimandare (
al mai ) il referendum, oppure fare, o simulare, qualche modifica alle due
leggi coinvolte ( o ad una sola) in modo da evitare il ricorso al referendum in
primavera o svuotarlo per far crollare la partecipazione. C’è sempre un Cuperlo
di turno pronto alla bisogna.
I sostenitori, per prima la
CGIL ma anche movimenti e frammenti della sinistra e in aggiunta il M5Stelle, a
ragione protestano per l’ennesimo tentativo di affossare l’espressione di
“democrazia diretta” dei tre quesiti abrogativi del referendum. Naturalmente
con qualche elemento di entusiasmo motivato dai risultati del 4 dicembre. Però
con qualche difficoltà, nella pratica, a fare proposte che sciolgano
l’oggettivo intasamento di scadenze che si sta accumulando.
Non condivido naturalmente le
tesi dei primi (gli oppositori ), ma neanche la superficialità e precarietà
delle tesi dei secondi e spiego perché. Le ragioni sono due e la proposta per
uscirne una.
Prima ragione: Nella
primavera del 2017 (fra aprile e giugno) è prevista una manciata di elezioni
comunali di rilievo: ben 978 comuni (ed altri di cui è previsto lo scioglimento
entro il 24 febbraio). Fra questi 4 comuni capoluogo di regione (Palermo,
Catanzaro, Genova, L’Aquila) e 22 comuni capoluogo di provincia (Alessandria,
Asti, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lanusei, Lecce,
Lodi, Lucca, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto,
Trapani e Verona). Superano i 100.000 abitanti 8 città: Palermo, Genova, Monza,
Padova, Parma, Piacenza, Taranto e Verona. In aggiunta sono previste le
elezioni della Regione Sicilia che non
sono programmate insieme a quelle del capoluogo, (fissate da Crocetta, o meglio
da PD e UDC alleati di ferro in Sicilia, per il 5 e 19 giugno), ma al 15 e 29
ottobre (con un singolare doppio turno “alla siciliana” che non c’è nelle altre
regioni). Tralascio, per pietà, la sorte
delle Provincie che vedranno nel 2017 una folta manciata di elezioni (di
secondo grado dove al posto di elettori ci saranno i consiglieri comunali,
stile Senato bocciato del renzismo).
Seconda ragione: I referendum
abrogativi sono uno strumento serio, da tempo in crisi per mancanza di quorum.
I quattro referendum del 2011 e quello del 4 dicembre fanno eccezione per
l’importanza dei temi ma soprattutto per la molteplicità dei promotori e degli
argomenti sommati alla contingenza del momento. Nel 2011 si votava insieme per
l’acqua pubblica, contro il nucleare e di fatto contro Berlusconi e a tre mesi
dall’incidente di Fucushima. Il 4 dicembre scorso si sono uniti insieme il
rifiuto di snaturare e impoverire la nostra Costituzione, un voto contro il
governo proveniente da partiti di aree molto diverse (un caso molto raro) ed un
diffuso voto contro Renzi e il renzismo come “governanti arroganti e
indifferenti” da parte dei settori più disagiati della società italiana, ad
esempio giovani precari ed elettori delle aree del sud. Sulla crisi dello strumento referendum sono
state lanciate proposte in più occasioni, probabilmente con una certa
superficialità, basate sull’idea di ridurre il quorum al di sotto del 50%. Una
cura peggiore del male, pericolosissima, con la quale si legittima l’ipotesi
che anche una minoranza decide per tutti e che l’astensionismo diffuso è una
singolare malattia a cui ci si può anche abituare.
Siamo insomma di fronte ad un
accavallarsi di scadenze e di strumenti istituzionali degradati negli anni a causa
della incapacità riformatrice dell’intero sistema dei partiti concentrati a
tutelare solo l’integrità del proprio ombelico. Per fare un esempio qualcuno ha
pensato che un elettore palermitano dovrebbe votare nel corso di dodici mesi quattro
volte, che potrebbero anche diventare 5 o 6?
La proposta per cominciare ad
uscirne è in realtà la scoperta dell’acqua calda perché è già attuata in altri
paesi. E cioè l’introduzione dell’Election Day, cioè del progressivo
concentrare delle scadenze elettorali in una data precisa di uno stesso anno (
ad esempio la domenica vicina al 25 aprile ) e in più concentrando nell’ anno
di scadenza più vicino ( per le regionali e comunali, o per le politiche o per
le europee ) anche gli eventuali
referendum promossi nel frattempo; con
maggiori possibilità di partecipazione mantenendo il
quorum attuale del 50%.
In un recente intervento ( qui ) ho indicato questa proposta in un più largo insieme di proposte di
riforma che sono la vera emergenza del nostro paese dove si dice riforma ma si
intende, fino ad oggi, restaurazione.
Possiamo ignorare che con l’abolizione (simulata) delle Province, che
andavano invece ridotte da 110 a una cinquantina, siamo in pieno caos? Che dovremmo
ridurre di almeno un quarto il numero di Regioni accorpando le più piccole? Che
sarebbe ragionevole ridurre di altrettanto i 1000 parlamentari, se la loro rappresentanza è proporzionale ai voti espressi, fuori da
qualunque venatura populista e senza toccare neanche una virgola della nostra Costituzione?
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