di Laura Marchetti e Piero Bevilacqua *
Ricordiamo che l’art. 5 della Costituzione sancisce
un’opera di bilanciamento fra lo Stato-Nazione e gli altri Enti intermedi
(Comuni, Province, Regioni), togliendo al Centro l’onnipotenza del comando e
permettendo alle periferie di esprimere controforze politiche e sociali più
legate ai bisogni dei cittadini, alla prossimità ai luoghi, alla diversità di
interessi territoriali differenziati. Un principio che ha consentito forme di
controllo dal basso, pratiche di consultazione sociale, decentramento
amministrativo, autorganizzazione e , in qualche caso, anche auto-governo.
Così, in coerenza, anche l’art. 9 della Costituzione, prevede che sia la
Repubblica e non lo Stato a tutelare l’ambiente, il paesaggio, i beni
culturali: la Repubblica, cioè tutti i livelli istituzionali, dal grado più
alto al più basso, i quali, avendo responsabilità, devono poter esercitare
controllo e progettualità.
Anche la riforma del 2001 del titolo V della
Costituzione, pur tra tanti limiti, manteneva questo impianto concorrente,
spostando anzi ancora più in avanti poteri e competenze delle autonomie locali,
in particolare delle Regioni. Poteri e competenze che invece sarebbero
fortemente ridimensionati se passasse la riforma, la quale smantella ogni
collaborazione fra le diverse istanze stabilendo invece, nella nuova
formulazione dell’art. 117, un “principio di supremazia” dello Stato centrale ,
esercitabile soprattutto dal Governo più che dal Parlamento, che può avocare a
sé tutte le decisioni in materia ambientale (che riguardano cioè la salute dei
cittadini, il governo del territorio, le infrastrutture e le grandi reti
strategiche di trasporto), ove lo richiedesse “l’interesse nazionale e la
tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”.
Tale “supremazia” centralistica – che non vale però
per le Regioni a statuto speciale, in violazione palese del principio di
uguaglianza – proviene da una valutazione politica discrezionale, non
controllata nemmeno dalla stessa Corte Costituzionale che non può che prendere
atto. Così ogni “grande opera”, anche privata, può diventare di interesse
nazionale e di tutela dell’unità giuridica ed economica della nazione: la costruzione
del Ponte sullo stretto, la linea dell’Alta velocità, i termovalorizzatori e
gli inceneritori, gli elettrodotti, i gasdotti, le autostrade, i depositi di
radioattività. Anche una nuova base americana potrebbe essere imposta nel
territorio di qualunque comune d’Italia senza alcuna possibilità di opposizione
da parte dei cittadini.
Sicuramente di interesse nazionale è “la produzione,
il trasporto e la distribuzione dell’energia “, la quale , già dal Decreto del
16 aprile del 2008, è legata anche al segreto di Stato e sottoposta ad una
legislazione militare. Dunque sono di interesse nazionale , su cui comunità e
cittadini ed Enti Locali non devono mettere il naso, le concessioni di carbone
e di gas, le trivellazioni petrolifere che stanno per devastare la Puglia e la
Calabria, la decarbonizzazione dell’Ilva, la deviazione possibile del Tap, e
tutti gli impianti di interconnessione con i Balcani e con il Nordafrica.
Ma, facendosi sospettosi, si può pensare che l’
“interesse nazionale” che, per Costituzione, sottrae i beni ambientali alla
vigilanza locale, potrebbe estendersi a tutto ciò che riguarda il cosiddetto
Decreto “sblocca-Italia”, un decreto che parla lo stesso linguaggio
“dell’interesse economico nazionale” e che, non a caso , è stato dichiarato
incostituzionale (sentenza n. 7 del 2016) proprio per le norme che non
prevedono il coinvolgimento delle Regioni, violando gli articoli 117 e 118
della Costituzione. Senza più gli impacci delle Regioni, senza più
l’opposizione dei sindaci, molto più facilmente potrebbero essere rilanciate la
Tav, le centrali inquinanti, oltre a tutte le misure previste per favorire la
dismissione del patrimonio pubblico, la semplificazione e deregulation delle
bonifiche, la privatizzazione del servizio idrico.
Questo è il gioco, questo abbiamo in gioco: un Paese
devastato dal cemento, una democrazia sempre più ristretta da una
semplificazione concentrazionaria, un cambiamento della forma-Stato che non
diventa più moderna, ma semplicemente più autoritaria sia nella rappresentanza
politica sia per le questioni che più da vicino toccano la nostra esistenza.
* da il manifesto del 29 ottobre 2016
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