Dalle prime mosse e dal programma su cui Trump ha
basato la propria campagna elettorale, sembra che il ribaltamento delle
priorità sul clima avrà conseguenze negative sia interne che a livello
internazionale. Ma questo dietrofront arriva troppo tardi per fermare il
cambiamento.
di Gianni
Silvestrini *
Le posizioni del tycoon sono note. Ritiene che
il riscaldamento del pianeta sia una bufala e intende quindi
sfilarsi dall’Accordo di Parigi. Vuole tagliare gli investimenti climatici sia
negli Usa che a livello internazionale. Ha dichiarato che il Paese deve raggiungere
durante il suo mandato la piena indipendenza ed intende quindi rilanciare
l’estrazione dei combustibili fossili, ad iniziare dal carbone. Ha attaccato le
fonti rinnovabili considerate costose e impattanti. E i primi segnali
del cambio di guardia sono decisamente preoccupanti. Alla testa dell’EPA è
stato proposto Myron Ebell, indicato dagli ambientalisti a Parigi come
uno dei sette "criminali del clima". Il prossimo responsabile
dell’ambiente Usa, che proviene dal Competitive Enterprise Institute, una
associazione finanziata tra gli altri dal gruppo carbonifero Murray Energy,
intende smantellare il Clean Power Plan, predisposto proprio per
eliminare gli impianti a carbone più inquinanti.
Ma andiamo con ordine per valutare quali potranno
essere gli impatti di questa presidenza considerando che potranno
esserci significative differenze tra le roboanti declamazioni elettorali e le
scelte che verranno adottate, come dimostra il cambio di marcia di Trump
sull’Obamacare o sull’inchiesta da aprire sulla Clinton. La prima impressione è
che il ribaltamento delle priorità sul clima avrà conseguenze
negative sia interne che a livello internazionale, ma che esso
arriva troppo tardi per fermare il treno del cambiamento.
Nel merito dell’Accordo di Parigi, la sua fulminea
entrata in vigore propiziata dalla tempestiva adesione congiunta di Usa e Cina,
prevede tempi lunghi, quattro anni, per i paesi che volessero uscirne. Trump
dunque potrebbe ignorare gli impegni previsti, ma non abbandonare platealmente
l’Agreement sul Clima. C’è però un’altra possibilità, ancora più radicale, che
prevede l’uscita degli Usa dalla Convenzione quadro sui cambiamenti
climatici firmata a Rio de Janeiro nel 1992 da George Bush padre, nel cui
ambito sono maturati sia il Protocollo di Kyoto che l’Accordo di Parigi. Sarà
interessante quindi osservare i primi passi che verranno adottati sul fronte
diplomatico. Il voltafaccia statunitense potrebbe infatti incidere sulle scelte
di alcuni paesi non particolarmente sensibili ai rischi climatici come la
Russia, dove forti interessi come quello dell’acciaio e del carbone ostacolano
le politiche di contenimento delle emissioni. Ma non è detto che questo
avvenga, come dimostra il segnale positivo della ratifica della carbonifera
Australia guidata dai conservatori, giunto proprio all’indomani dei risultati
della corsa alla Casa Bianca. Certamente il nuovo corso comporterà un taglio
dei finanziamenti che dovevano andare ai paesi in via di sviluppo. Sono in
particolare in pericolo i contributi Usa al fondo di 100 miliardi $ annui da
trasferire a partire dal 2020 (sempre che Trump fra quattro anni venga
rieletto).
Un altro impegno assunto da Obama a forte rischio è il
raddoppio, nell’arco di cinque anni, dei finanziamenti alla ricerca sulle
fonti rinnovabili e sulle tecnologie pulite. Si tratta di una decisione
prevista dal programma Mission Innovation, lanciato proprio a Parigi da
una coalizione di 20 paesi: dagli Usa alla Cina, dalla Germania all’Italia, dal
Giappone all’Australia, dall’Arabia Saudita al Brasile. Un eventuale rallentamento
della presenza attiva degli Usa sulla scena dell’energia green
rappresenterebbe però un boomerang. Visto infatti il ruolo crescente
delle "clean technologies" sulla scena mondiale, le imprese
statunitensi rischiano infatti di indebolirsi di fronte alla concorrenza. Va
comunque detto che, pur essendo prevedibile una minore attenzione per il
settore delle rinnovabili, le conseguenze non dovrebbero essere drammatiche.
Gli incentivi al solare e all’eolico, approvati dal Congresso dopo la COP21 con
votazioni bipartisan, sono infatti validi fino alla fine del decennio ed è
improbabile che vengano smantellati, visto il consenso di cui godono. È,
invece, certo il taglio delle risorse destinate alla ricerca in questi
ambiti, a fronte di una maggiore attenzione ai combustibili fossili. Tra il
2008 e il 2013 il governo Usa ha speso 77 miliardi $ per il clima, per tre
quarti rivolti alla ricerca e allo sviluppo delle nuove tecnologie. La
riallocazione dei fondi rappresenterà però una scelta assolutamente
controproducente e farà perdere risorse in percorsi incerti o senza futuro. Uno
dei comparti che dovrebbe essere valorizzato è infatti quello del "carbone
pulito". Parliamo del sequestro della CO2 (CCS), eventualmente
abbinato a processi di gassificazione.
La fattibilità tecnico-economica dell’iniezione
di anidride carbonica prodotta dalle centrali a carbone nel sottosuolo, al
momento non è provata. Inoltre, è molto dubbia la sostenibilità di questa
opzione, come dimostra la sperimentazione in atto nel Mississippi da parte
della Southern Company’s Kemper che include anche la gassificazione, per
eliminare i vari inquinanti e produrre Syngas, una miscela di idrogeno e
monossido di carbonio. Un esempio non proprio rassicurante, visto che i costi
sono aumentati di oltre 4 miliardi $ rispetto alle previsioni.
La gassific
azione potrebbe essere utilizzata
anche solo per "pulire" il carbone senza poi sequestrare la CO2,
vista la posizione della futura amministrazione sul clima, ma i suoi
elevatissimi costi rendono questa soluzione quanto mai problematica. Ricordiamo
che già negli anni Ottanta, sotto la presidenza Carter, venne lanciato un
programma da 88 miliardi $ sulla gassificazione del carbone che venne poi
abbandonato proprio per la non economicità di queste tecnologie. A
maggior ragione questa scelta pare poco sensata oggi in uno scenario di bassi
prezzi dell’energia. È invece molto probabile che vengano allentati i
controlli ambientali sulla produzione di gas e petrolio, in particolare per
il fracking e le estrazioni in acque profonde a partire dall’Artico.
E qui veniamo ad una delle principali
contraddizioni del programma di Trump. L’aumento della produzione del
metano a basso costo confliggerà infatti direttamente con l’uso del carbone, il
cui declino potrà essere rallentato ma non arrestato. Nel solo 2015
l’estrazione di carbone è calata del 10% e molti operatori del settore, ad
iniziare dal più importante, Peabody Energy, sono falliti. Dunque, il primo
smacco per Trump verrà proprio dall’impossibilità di risollevare le sorti
del carbone. Il numero di occupati nelle rinnovabili supera già oggi quelli
dell’ex "King Coal" (e, peraltro, anche quelli legati all’estrazione
di petrolio e gas). La distanza tra green and black è destinata ad aumentare,
malgrado gli sforzi della prossima Amministrazione. Lo scorso anno, solare ed
eolico hanno rappresentato ben due terzi della nuova potenza
installata negli Usa e il ruolo delle rinnovabili continuerà ad essere rilevante,
così come crescerà il ruolo del metano.
Ma torniamo agli impatti più generali delle politiche
climatiche, che indubbiamente ci saranno. Secondo una valutazione effettuata da
Lux Research prima delle elezioni, gli otto anni di gestione Trump
rischierebbero di comportare un aumento del 16% delle emissioni di CO2
rispetto alle scelte di una presidenza Clinton. Un impatto forte, che però non
è detto che si materializzi su questi valori. Gli Usa sono infatti una realtà
molto articolata. Innanzitutto è probabile che i gruppi di base, le università,
le grandi associazioni ambientaliste scendano sul piede di guerra creando un
forte movimento di pressione per riorientare le scelte climatiche. Le
manifestazioni di questi giorni rappresentano in questo senso un segnale da non
sottovalutare. Ci sono poi le città e gli Stati che hanno già definito propri
ambiziosi obiettivi e non hanno nessuna intenzione di abbassare la guardia. Lo
Stato di New York intende produrre con le rinnovabili il 50% della
propria elettricità per la fine del prossimo decennio. La California ha
deciso, come l’Europa, di ridurre del 40% le emissioni climalteranti al 2030
rispetto al 1990. E un numero crescente di città, da San Francisco a San Diego,
da Aspen a Salt Lake City, ha avviato un percorso per soddisfare con le
rinnovabili il 100% del proprio fabbisogno elettrico. Non va poi sottovalutato
il ruolo dei grandi gruppi che hanno aderito ad una visione coerente con
la sfida climatica. Non parliamo solo delle aziende direttamente
coinvolte, da Tesla a General Electric, ma delle piccole imprese come delle
multinazionali che hanno definito propri scenari di decarbonizzazione, dei
fondi di investimento, dei fondi pensione, di realtà economiche e finanziarie
importanti che continueranno a svolgere un ruolo di stimolo e di indirizzo. Insomma,
la partita del clima è tutt’altro che persa e il ruolo degli Usa, malgré Trump,
per quanto indebolito continuerà ad essere significativo.
(L'articolo è stato originariamente pubblicato su
Nextville.it, ripubblicato su qualenergia con il consenso della testata)
* da qualenergia.it , 14 novembre
2016
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