7 gennaio 2022

Aiuti di Stato e gestione autoritaria così sopravvive il nucleare

L'atomo fuggente. Già nel 1986 Forbes lo considerava il più clamoroso fallimento industriale degli Usa. E per questo i grandi partiti motivarono il loro Sì al referendum

di Gianni Mattioli, Massimo Scalia *

I recenti articoli del manifesto sul nucleare non potevano non evocare i versi di Tennyson, rivolti da Ulisse ai compagni ormai vecchi: “… ma può qualche opera compiersi prima. D’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi! … Venite: tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.”

I contributi, come sempre ottimi e abbondanti, vengono infatti da cari amici dei quali il più giovane è in vicinanza di quota 100. E si è di nuovo costretti a parlare di nucleare, dopo la campagna di “distrazione di massa” che Cingolani ha portato avanti per mesi – generazione III+, generazione IV, nucleare “piccolo e sicuro”, fusione “come per le stelle”. In realtà è una cortina fumogena, diffusa da questo appassionato press agent, per nascondere la feroce determinazione dell’Eni a non modificare i suoi asset fondati sugli idrocarburi, ora e sempre, come testimoniano gli obiettivi al 2030: 25% di riduzione delle emissioni climalteranti a fronte del 55% della Ue, 15 Gw di rinnovabili (BP 50 Gw, Total 100 Gw).

Il rilancio della questione ha però percorso tutta la Ue. La Francia è riuscita a tirarsi dietro, nella richiesta di nuovi investimenti sul nucleare come fonte “verde”, oltre a Belgio, Danimarca e Svezia, i pezzentoni di Visegrad con i loro reattori Vver ancora di stampo sovietico. Incombono sulla Francia i costi del fallimento dell’industria nucleare di Stato, Areva, e, peggio dell’ombra di Banco, i costi del decommissioning del surdimensionato parco nucleare francese. Perché non approfittare del Recovery fund? Far pagare alla Ue la grandeur de France, che fa rima con force de frappe, cioè avere la propria bomba atomica. Un capolavoro!

Astuta, poi, la mossa di unire alla richiesta per nuovi investimenti anche il gas. La Germania, infatti, dipende ancora significativamente dal carbone per la sua produzione elettrica e conferma la chiusura del nucleare entro l’anno. Ragionevole, quindi, una transizione a gas – favorita dalle forniture del North Stream 2, il metanodotto del Baltico che bypassa Ucraina e Bielorussia – anche se con un ritardo di almeno trent’anni rispetto a quel che ottenemmo per l’Italia. Insomma, la consueta vicenda complessa delle grandi strategie energetiche, sulla quale è opportuno fissare qualche punto.

Il nucleare è un’industria morente, i cui rantoli vivono di sussidi di Stato e gestioni autoritarie. I tempi e i costi di costruzione sono divenuti incontrollabili, come il caso, a Flamanville, del reattore Epr – sì, quelli che Sarkozy voleva rifilare all’ingenuo Berlusconi, ma ci pensò il “popolo sovrano” col referendum del 2011 – divenuto materia d’intervento della Corte dei Conti francese. E il contratto dell’Edf per il reattore Epr di Hinkley Point costerà al governo inglese, nei prossimi 35 anni, dieci volte di più del solare fotovoltaico. L’industria di Stato, Areva, può caricare il suo fallimento sul Bilancio francese, ma l’AP1000 della Westinghouse, il reattore americano di terza generazione “avanzata” come l’Epr, ha portato alla bancarotta la ditta costruttrice, che ha passato la mano alla Cina, l’unico Paese in cui – vedi sopra – sono entrati in esercizio anche due Epr. Il nucleare copre neanche il 2% dei consumi finali d’energia su scala mondiale e la sua quota di produzione elettrica è scesa dal 17% al 10%: una prospettiva obsoleta, non all’altezza della lotta globale contro il cambiamento climatico.

Del resto, già nel lontano 1986 la rivista Forbes lo aveva configurato come il più clamoroso fallimento industriale degli Usa. Cosa che era arrivata non solo al nostro orecchio, ma, a quanto pare, a quello degli uffici studi dei grandi partiti, quando esistevano, a motivare molto concretamente il loro assai travagliato No al nucleare, cioè il Sì al referendum del 1987.

Last but not least, anche i mitici progetti di IV generazione prevedono miglioramenti soltanto ingegneristici, niente a che vedere con la “sicurezza intrinseca” – qualcuno ricorderà il “Pius” della Asea-Brown Boveri, partito alla fine degli anni Ottanta e mai arrivato, o, qui in Italia, il Mars dell’ottimo Maurizio Cumo, mai sceso in pista. Insomma, il nucleare è vecchio come il cucco o, secondo Giorgio Parisi, “è più vecchio del transistor”. Il dispositivo usato nelle radioline degli anni ’60, ignoto dai quarant’anni in giù.

Il nucleare in Italia “no esiste”, direbbe il Lorenzo di Corrado Guzzanti. Come ha confermato non Cappuccetto Rosso, ma l’Ad dell’Enel, Starace. Qui da noi il problema vero è il gas. La protervia dell’Eni a farci restare nell’era dei fossili ha trovato il suo sacramento nel Ccs, il progetto di sequestro della CO2 nella produzione di idrogeno da metano, da localizzare a Ravenna. Le richieste di finanziamento pubblico sono state battute in Regione Emilia-Romagna, umiliate nella gara Ue e sonoramente sconfitte giorni fa nella sessione di Bilancio. Le Istituzioni elettive hanno saputo raccogliere una mobilitazione, non clamorosa ma efficace. E incombono, ora, 48 progetti a turbogas per un complesso di 20 Gw!

Dopo il cedimento della Commissione Ue alle pressioni orchestrate dalla Francia, la battaglia sulla “tassonomia verde” per nucleare e gas si sposta sugli atti delegati che verranno inviati al Parlamento Ue. Lì lo scontro è del tutto aperto e la punta di diamante saranno i Verdi, ma non mancherà un convinto supporto da tutti coloro che hanno continuato a militare e mobilitarsi in questa grande battaglia.

nella foto: la centrale nucleare di Nogent gestita dalla Edf a Nogent-sur-Seine, Francia

* da il manifesto – 6 gennaio 2022

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