Nel discorso al Labour la cura dei lavoratori, del
pianeta e delle persone deve far parte dello stesso programma. Perché oggi è
impossibile separare una crisi dall’altra: caos climatico, colonialismo, élite
dedite alla rapina e democrazia disfunzionale si sono tutte fuse insieme, come
un mostro a più teste. I millennial non sopportano le false promesse. Sanders,
Podemos e Corbyn dimostrano che partiti e movimenti devono allearsi *
La
situazione là fuori è desolante. Come descrivere un mondo capovolto?
Capi di
stato che twittano minacce di distruzione nucleare, intere regioni sconvolte
dai cambiamenti climatici, migliaia di migranti che affogano lungo le coste
dell’Europa e partiti apertamente razzisti che guadagnano terreno, nel caso più
recente – e allarmante – in Germania. Faccio solo un esempio, i Caraibi e gli
Stati Uniti del Sud sono nel pieno di una stagione degli uragani senza
precedenti. Porto Rico è completamente senza energia elettrica, e potrebbe
restarlo per mesi, il suo sistema idrico e quello di comunicazione sono
gravemente compromessi. Su quell’isola, tre milioni e mezzo di cittadini
americani hanno un disperato bisogno dell’aiuto del loro governo. Ma, come
durante l’uragano Katrina, la cavalleria stenta ad arrivare. Donald Trump è
troppo impegnato a cercare di far licenziare atleti neri, colpevoli di aver
osato attirare l’attenzione sulla violenza razzista. Per quanto sia
incredibile, non è ancora stato annunciato un pacchetto federale di aiuti per
Porto Rico. Secondo alcune analisi, sono già stati spesi più soldi per rendere
sicuri i viaggi presidenziali a Mar-a-Lago. E se tutto questo non fosse già
abbastanza, hanno anche cominciato a spuntare gli avvoltoi: la stampa economica
ribolle di articoli che spiegano come l’unico modo per far tornare la luce a
Porto Rico sia vendere il loro sistema energetico nazionale. Magari anche
le loro strade e i loro ponti.
Ho
soprannominato questo fenomeno la «Dottrina dello Shock»: lo sfruttamento di
crisi strazianti per approvare politiche che erodono la sfera pubblica e
arricchiscono ulteriormente una ristretta èlite. Abbiamo visto questo
lugubre circolo vizioso ripetersi ogni volta: dopo la crisi finanziaria del
2008, e oggi con i Tories che vogliono sfruttare la Brexit per far passare
senza dibattito dei disastrosi accordi commerciali che avvantaggeranno le
corporation. Ho messo in evidenza Porto Rico perché lì la situazione è
particolarmente urgente, ma anche perché rappresenta il microcosmo di una crisi
globale molto più vasta, che contiene molti degli stessi elementi: un caos
climatico sempre più rapido, storie colonialiste, una sfera pubblica debole e
trascurata, una democrazia completamente disfunzionale. La nostra è un’epoca in
cui è impossibile separare una crisi dall’altra: si sono tutte fuse insieme,
rinforzandosi e sprofondandosi a vicenda, come un mostro a più teste sull’orlo
del collasso. Si può pensare al presidente degli Stati uniti nello stesso modo.
Avete presente quell’orribile blob di grasso che sta intasando le fogne
londinesi, che voi chiamate fatberg? Trump è il suo equivalente
politico. Un concentrato di tutto ciò che è nocivo a livello culturale,
economico e politico, tutto appiccicato insieme in una massa autoadesiva che
abbiamo molte difficoltà a rimuovere. Che si tratti di cambiamento climatico o
di minaccia nucleare, Trump rappresenta una crisi che rischia di echeggiare
attraverso molte ere geologiche. Ma i momenti di crisi non devono
necessariamente seguire la strada della «Dottrina dello Shock», non sono
destinati per forza a creare opportunità per chi è già schifosamente ricco di
arricchirsi ancora di più. Possono anche andare nella direzione opposta. Possono
rappresentare dei momenti in cui scopriamo il meglio di noi, e riusciamo a fare
appello a riserve di forza e determinazione che non sapevamo di avere.
(…) Ma non è
solo a livello della società civile che possiamo osservare il risveglio di
qualcosa di ammirevole in noi quando si verifica una catastrofe. Esiste una
lunga e gloriosa storia di trasformazioni progressiste a livello sociale
innescate dalle crisi. Basta pensare alle vittorie della working class
per quanto riguarda l’edilizia popolare all’indomani della prima guerra
mondiale, o per il sistema sanitario nazionale dopo la seconda. Questo ci
dovrebbe ricordare che i momenti di grande difficoltà e pericolo non devono
necessariamente riportarci indietro: possono anche catapultarci in avanti. Queste
lotte progressiste però non vengono mai vinte solo resistendo, o opponendosi
all’ultimo di una lunga serie di oltraggi. Per trionfare in un momento di vera
crisi dobbiamo anche essere in grado di pronunciare dei coraggiosi e
lungimiranti «sì»: un piano per ricostruire e affrontare le cause che
soggiacciono alla crisi. E questo piano deve essere convincente, credibile e,
più di tutto, accattivante. Dobbiamo aiutare una società stanca e timorosa a
immaginarsi in un mondo migliore.
Caos climatico, colonialismo, élite
dedite alla rapina, democrazia disfunzionale. È impossibile separare una crisi
dall’altra: si sono tutte fuse insieme, come un mostro a più teste. Theresa May
ha condotto una campagna elettorale cinica facendo leva sulla paura e sui
traumi degli inglesi per accaparrarsi più potere – prima la paura di un cattivo
accordo per la Brexit, poi quella per gli orribili attentati terroristici a
Manchester e Londra. Il Labour e il suo leader hanno invece risposto
concentrandosi sulle cause: una «guerra al terrore» fallita, le diseguaglianze
economiche e una democrazia indebolita. E soprattutto avete presentato agli
elettori un programma coraggioso e dettagliato, un piano per migliorare in modo
tangibile la vita di milioni di persone: istruzione e sanità gratuite,
un’azione aggressiva contro il cambiamento climatico. Dopo decenni di
aspettative al ribasso e di un’immaginazione politica asfittica, finalmente gli
elettori hanno avuto qualcosa di promettente ed entusiasmante a cui dire «sì». Le
persone vogliono un cambiamento profondo – lo richiedono a gran voce. Il
problema è che in fin troppi paesi è solo l’estrema destra a offrirlo, con un
mix tossico di finto populismo economico e reale razzismo. In questi ultimi
mesi il partito laburista ha dimostrato che esiste un’altra via. Una via che
parla la lingua della decenza e della giustizia, che non teme di chiamare col
loro nome le forze responsabili di questa crisi, senza timore del loro potere.
Le passate
elezioni hanno anche evidenziato un’altra cosa: che i partiti politici non
devono temere la creatività e l’indipendenza dei movimenti civili – e che a
loro volta i movimenti civili hanno molto da guadagnare dall’incontro con la
politica tradizionale. È un dato molto importante, perché i partiti tendono a
voler esercitare il controllo, mentre i movimenti dal basso tengono alla loro
indipendenza e sono quasi impossibili da controllare. Ma ciò che testimonia il
rapporto tra Labour e Momentum (il movimento che sostiene Corbyn, ndr),
o con altre ottime organizzazioni, è la possibilità di combinare il meglio di
entrambi questi mondi e dare vita a una forza al contempo più agile e incisiva
di qualunque impresa condotta in solitudine da partiti o movimenti. Ciò che è
accaduto in Gran Bretagna è parte di un fenomeno globale. È un’ondata guidata
da giovani che sono entrati nell’età adulta nel momento del collasso del
sistema finanziario, e mentre la catastrofe climatica ha iniziato a bussare
alla porta. Molti vengono da movimenti come Occupy Wall Street, o gli
Indignados in Spagna. Hanno cominciato dicendo no: all’austerità, ai salvataggi
delle banche, al fracking e agli oleodotti. Ma col tempo hanno capito
che la sfida più grande è il superamento della guerra dichiarata dal
neoliberismo al nostro immaginario collettivo, alla nostra capacità di credere
in qualcosa al di là dei suoi cupi confini. L’abbiamo visto accadere con la
storica campagna alle primarie di Bernie Sanders, alimentata dai millennial
consapevoli che una prudente politica centrista non offre loro alcun futuro.
Abbiamo visto qualcosa di simile con il giovane partito spagnolo Podemos,
erettosi sulla forza dei movimenti di massa sin dal primo giorno.
Campagne
elettorali, le loro, che si sono infiammate a velocità incredibile. E sono
arrivati vicini alla vittoria – più vicini di qualunque altro movimento
politico genuinamente progressista statunitense o europeo di cui sia stata
testimone nel corso della mia vita. Ma non abbastanza vicini. Per questo, nel
tempo che ci separa delle elezioni, dobbiamo pensare a come assicurarci che, la
prossima volta, i nostri movimenti arrivino fino in fondo. In tutti i nostri
paesi, dobbiamo fare in modo di sottolineare il legame tra ingiustizia
economica, razziale e di genere. Ci spetta capire, e spiegare, come i sistemi
di potere che mettono un gruppo in posizione dominante rispetto agli altri –
sulla base del colore della pelle, della religione, dell’orientamento sessuale
e di genere – servano sempre gli interessi del potere e del denaro. È nostro
dovere evidenziare il rapporto tra gig economy – che tratta gli esseri umani
come materie prime da cui estrarre ricchezza per poi buttarle – e dig economy,
quella delle industrie estrattive che trattano la terra con la stessa
indifferenza. Dobbiamo indicare la strada per passare a una società fondata
sulla cura reciproca e del pianeta, dove il lavoro di chi protegge la nostra
terra e la nostra acqua viene stimato e rispettato. Un mondo dove nessuno, da
nessuna parte, viene abbandonato – che si tratti di un edificio popolare in
fiamme (come Grenfell a Londra, ndr) o di un’isola prostrata da un uragano.
È il momento
di innalzare le nostre ambizioni e dimostrare come la battaglia al cambiamento
climatico sia una sfida epocale per costruire una società più giusta e
democratica. Perché mentre usciamo rapidamente dall’epoca dei combustibili
fossili, non potremo replicare la concentrazione del benessere e l’ingiustizia
proprie dell’economia del petrolio e del carbone, in cui le centinaia di
miliardi di profitti sono stati privatizzati, mentre i tremendi rischi che ne
conseguono sono pubblici.
Sanders, Podemos e Corbyn
dimostrano che partiti e movimenti devono allearsi. I millennial non
sopportano le false promesse. Il nostro motto deve essere: lasciamoci alle
spalle il gas e il petrolio, ma non lasciamo indietro nessun lavoratore. Ci
spetta immaginare un sistema in cui sia chi inquina a pagare la maggior parte
del costo della transizione. E in paesi ricchi come la Gran Bretagna o gli
Stati Uniti, abbiamo bisogno di politiche sull’immigrazione e di una finanza
internazionale che riconoscano il nostro debito nei confronti del sud del mondo
– il nostro ruolo storico nella destabilizzazione delle economie e delle
ecologie di paesi poveri per lunghissimi anni, e l’immensa ricchezza estratta
da queste società sotto forma di esseri umani ridotti in schiavitù. Più il
partito laburista sarà ambizioso, perseverante e globale nel dipingere
l’immagine di un mondo trasformato, più credibile diventerà un suo governo. In
tutto il mondo, vincere è un imperativo morale per la sinistra. La posta in
gioco è troppo alta, e il tempo che ci resta troppo poco, per accontentarci di
niente di meno.
Testo
estratto dal discorso pronunciato il 26 settembre scorso alla conferenza del
partito laburista di Brighton, courtesy LabourPress. Traduzione in italiano di Giovanna Branca
L’ultimo
libro di Naomi Klein si chiama «No is not enough» ed è stato pubblicato da
Haymarket books a giugno scorso. L’edizione italiana uscirà per Feltrinelli
Nella foto: Naomi
Klein alla conferenza del Labour di Brighton ( GB) il 26 settembre scorso
* da il manifesto , 1 ottobre 2017
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