di Norma
Rangeri *
Sorprendentemente,
i risultati diffusi dai promotori del referendum
dicono che è andato a votare circa il 40 per cento dei cittadini catalani.
Significa che il 60 per cento è rimasto a casa, non ha accettato la forzatura
secessionista del governo di Puigdemont, non ha aderito a una battaglia
elettorale che puzzava di propaganda. Oltretutto qualcuno sarà andato al seggio
anche per reazione alla mano dura di Madrid e magari avrà anche votato no. Il
dato politico del risultato è evidente: chi non è riuscito a convincere nemmeno
la maggioranza dei catalani dovrebbe innanzitutto prenderne atto e prepararsi a
dichiarare fallimento, anziché l’indipendenza. Naturalmente la repressione non
ha favorito la partecipazione, le cariche della polizia ai seggi di un paese
europeo, la violenza contro persone inermi sicuramente non depongono a favore
di Rajoy. Di cui sarebbero sacrosante le dimissioni per aver portato il paese,
lui ne è principalmente responsabile, a questo punto di rottura.
Dopo aver
acceso la miccia e soffiato sul fuoco, adesso spegnere l’incendio è complicato.
L’Europa ci prova e interviene a posteriori, auspicando il dialogo. Ma gli
interlocutori sono Puigdemont e Rajoy, due tigri di carta che la lunga crisi ha
incattivito, con i tagli al welfare toccati anche alla ricca Catalogna, alla
base della volontà di separarsi non solo da Madrid ma anche dagli spagnoli – i
lavoratori e le classi subalterne – più colpiti dalla crisi. Da questo punto di
vista i referendum del Lombardo-Veneto sono molto somiglianti a quello
apparecchiato da Puigdemont. Simili perché la richiesta di maggiore autonomia è
un cuore che batte in sintonia con il Pil, del nordest come della Catalogna.
«Il Pil
della Catalogna cresce il triplo rispetto al deficit. Non ci sono molte altre
economie che possano mostrare risultati simili». Sono parole di Oriol
Junqueras, leader di un partito di sinistra che rivendica con orgoglio la
secessione. Viceversa, è proprio quella sinistra che si batte per l’uguaglianza
a doversi interrogare sulla contraddizione di ritrovarsi dentro lo schieramento
indipendentista. E a doversi chiedere perché i due maggiori sindacati non hanno
aderito al proclamato sciopero generale. L’impressione è che sulla scena
politica spagnola si siano affrontati, in una battaglia di potere, due
leadership di destra ben mimetizzate dietro la maschera del conflitto tra unità
del paese e secessione, bandiere usate per coprire con la retorica
nazionalista, maggioranze traballanti, a Madrid come a Barcellona. Se la
costituzione spagnola non funziona, se quel patto va cambiato, la democrazia
costituzionale insegna come farlo. Pur nella diversità dei contesti, di natura
storica e istituzionale, l’esperienza italiana insegna.
Anche in
Italia c’era chi la costituzione la voleva cambiare e chi invece la difendeva.
Siamo arrivati, faticosamente, dopo molto tempo, a un referendum che ha
coinvolto l’intero paese. L’abbiamo fatto e l’abbiamo anche stravinto.
In fondo non
è una lezione banale.
nella
foto: Puigdemont e Rajoy * da il manifesto, 3 ottobre 2017
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