Le
conseguenze della crescita della popolazione mondiale, tra cambiamento
climatico e politiche di contenimento.
di Davide Michielin *
“Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la
terra, rendetevela soggetta, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del
cielo e sopra ogni animale che si muove”. Così, nel capitolo della Genesi
dedicato alla creazione, il padreterno si rivolge ad Adamo ed Eva. Oggi gli
esemplari di Homo sapiens sono 7,5 miliardi. Un numero impressionante se
si tiene conto che appena due secoli fa l’umanità festeggiava il suo primo
miliardo. In questo lasso di tempo, il progresso ha aumentato qualità e
aspettative di vita, spingendo la nostra specie a intraprendere una crescita
vertiginosa dai ritmi sempre più serrati: eravamo 1.6 miliardi nel 1900, 2.5
miliardi nel 1950, 4 miliardi nel 1975, 6 miliardi nel 2000, 7 miliardi nel
2011.
Nonostante
il tasso di crescita sia oggi quasi dimezzato rispetto all’apice raggiunto nel
1964, è quasi certo che entro il 2100 la popolazione mondiale sarà ben più numerosa
dei 9 miliardi di individui storicamente previsti, e potrebbe persino superare
gli 11 miliardi. Uno studio apparso su Science nel 2014, condotto dai
ricercatori dell’Università di Washington e dagli esperti delle Nazioni Unite,
ha calcolato che la probabilità che la popolazione mondiale non si stabilizzi
entro questo secolo è superiore al 70%. La ricerca ha costretto le stesse
Nazioni Unite a redigere una revisione del consueto rapporto biennale: il
problema demografico deve fare ritorno nell’agenda delle organizzazioni
mondiali. Allo storico interrogativo sulla sicurezza alimentare, nell’ultimo
decennio si sono aggiunti il cambiamento climatico e l’inurbamento della
popolazione, due elementi che minacciano di far saltare un banco già
traballante.
Il progresso
non ha migliorato solamente le condizioni igienico sanitarie e le rese agricole
ma ha plasmato stili di vita sempre più energivori: le emissioni di CO2 pro
capite sono passate da 3,1 tonnellate equivalenti nel 1960 a 5 nel 2013.
Tuttavia, la popolazione del pianeta cresce, mangia e consuma a velocità molto
diverse. Uno statunitense produce 15 tonnellate equivalenti di CO2 all’anno, un
italiano 9 tonnellate equivalenti mentre un abitante dell’Africa sub-sahariana
non raggiunge la tonnellata equivalente. Un maggiore numero di automobili,
smartphone e climatizzatori comportano una maggiore richiesta energetica che,
se dovesse provenire dalla combustione di fonti fossili, porterebbe
all’esasperazione gli effetti del cambiamento climatico. Cosa ne sarebbe del
pianeta se la transizione alle rinnovabili stentasse a decollare e nel
frattempo i restanti sei miliardi di persone adottassero l’insostenibile stile
di vita occidentale? Fuori dall’Europa della stagnazione demografica, si è
ripreso timidamente a parlare della questione.
Malthus, la
povertà e le colonie del New England
Il dibattito
sul controllo della popolazione ha inizio nel 1798 con la pubblicazione,
inizialmente anonima, del Saggio sul principio di popolazione da parte
di Thomas Malthus.
Cresciuto in
una famiglia benestante del Surrey e presto ordinato pastore anglicano, Malthus
fu un brillante economista, fondatore della controversa dottrina politica che
da lui prende il nome. Osservando le colonie del New England, dove la
disponibilità “illimitata” di terra fertile forniva lo scenario ideale per
indagare il rapporto tra risorse naturali e demografia, Malthus teorizzò che
popolazione umana e disponibilità delle risorse seguano modelli di progressione
differenti: geometrica la prima, aritmetica la seconda. Un maggior numero di
esseri umani si traduce, proporzionalmente, in una minore disponibilità di
risorse per sfamarli. Qualora i mezzi di sussistenza non siano illimitati,
scriveva il reverendo, si sarebbero periodicamente verificate carestie con
conseguenti guerre ed epidemie.
Allo storico interrogativo sulla
sicurezza alimentare, nell’ultimo decennio si sono aggiunti il cambiamento
climatico e l’inurbamento della popolazione. Convinto di aver individuato una
legge naturale, Malthus propose che il governo abolisse i sussidi alle classi
più povere, invitasse i giovani a ritardare l’età del matrimonio e si sforzasse
di diffondere tra gli strati sociali meno abbienti la coscienza del danno che una
prole numerosa recava alle famiglie e all’intera comunità. I rapidi progressi
del settore agronomico sconfessarono già nel corso del XIX secolo il suo
impopolare principio, che tuttavia ebbe un’influenza decisiva sia su Charles
Darwin che su Alfred Wallace nella formulazione della teoria dell’evoluzione.
Tuttavia, l’idea malthusiana che i ricchi siano minacciati dalle masse di
poveri ha proiettato un’ombra cupa che si allunga fino a oggi.
Chi ha paura
di Malthus?
Negli anni
Sessanta la Banca Mondiale e le Nazioni Unite incominciarono a concentrarsi
sull’esplosione demografica del cosiddetto Terzo Mondo, ritenendola la
principale causa del degrado ambientale, del sottosviluppo economico e
dell’instabilità politica di questi paesi. Alcune nazioni industrializzate
quali Giappone, Svezia e Regno Unito finanziarono progetti per ridurre i tassi
di natalità del Terzo Mondo. Non si trattava di filantropia: secondo Betsy
Hartmann, autrice del saggio “Reproductive Rights and Wrongs: The Global
Politics of Population Control and Contraceptive Choice”, c’era il timore che
le “masse di affamati” minacciassero il capitalismo occidentale e l’accesso
alle risorse naturali.
Nel 1968
suscitò scalpore la pubblicazione di “The Population Bomb” del biologo Paul
Ehrlich. In questo saggio, divenuto in breve un bestseller e il manifesto del
neomalthusianesimo, Ehrlich sosteneva che fosse già tardi per salvare alcuni
Paesi dagli effetti della sovrappopolazione, prospettando un disastro ecologico
nel quale avrebbero perso la vita centinaia di milioni di persone.
Fortunatamente, l’avvento della cosiddetta “rivoluzione verde” consentì negli
anni Sessanta e Settanta un incremento significativo delle produzioni agricole,
disinnescando la bomba demografica predetta da Ehrlich. La più celebre politica
di contenimento della popolazione è quella del figlio unico adottata dal
governo cinese: controversa ma efficace, ebbe profonde conseguenze sulla
società.
Nonostante
Karan Singh, ministro della Salute indiano, avesse dichiarato nel 1974 che “lo
sviluppo è il miglior contraccettivo”, il suo governo aveva avviato nel
frattempo una subdola politica di controllo delle nascite. A emarginati e
mendicanti di Delhi fu offerta un’abitazione purché accettassero di sottoporsi
a sterilizzazione. Il programma indiano è durato meno di due anni, ma nel solo
1975 furono sterilizzati quasi otto milioni di cittadini indiani,
principalmente maschi. La più celebre politica di contenimento della
popolazione, è però quella del figlio unico adottata dal governo cinese tra il
1979 e il 2013. Una misura draconiana che, secondo alcune stime, nei suoi primi
25 anni di attuazione ha prevenuto la nascita di circa 300 milioni di
individui: nel solo 1983 furono sterilizzati oltre sedici milioni di donne e
quattro milioni di uomini. La controversa ma efficace politica del figlio unico
ebbe profonde conseguenze sulla società cinese. Crebbero infatti il numero di
aborti e l’abbandono di neonate, creando le basi per l’attuale sbilanciamento
nel rapporto tra i sessi all’interno del paese.
Nei primi
anni ‘80 cominciarono a farsi strada le prime obiezioni alle politiche di
controllo della popolazione, soprattutto negli Stati Uniti. L’amministrazione
Reagan sospese il sostegno finanziario ai programmi che prevedessero l’aborto o
la sterilizzazione, riscuotendo l’approvazione delle principali confessioni
religiose. Nel Paese, il consenso sulla necessità di arginare il tasso di
natalità mondiale cominciò a dissolversi, sebbene per ragioni differenti in
base allo schieramento politico. Tra i Repubblicani si facevano strada
obiezioni morali al controllo della popolazione, i Democratici vedevano queste
politiche come una forma di neocolonialismo.
Le politiche
demografiche oggi
La
definitiva messa al bando dei modelli top-down nel controllo della popolazione
non fu opera né dei democratici né dei repubblicani americani: avvenne sulla
spinta delle associazioni per i diritti delle donne. In occasione della prima
conferenza internazionale su sviluppo e popolazione, tenutasi a Il Cairo nel
1994, i delegati di 179 paesi ratificarono un programma di azione basato sulla
legittimazione della donna.
Nella
dichiarazione si sosteneva per la prima volta che i bisogni di istruzione e
salute, compresa quella riproduttiva, sono strumenti fondamentali per il miglioramento
delle condizioni di vita individuali e per uno sviluppo equo e sostenibile.
Promuovere la parità di genere, eliminare la violenza contro le donne,
consentire loro di avere il controllo delle risorse e partecipare direttamente
alle decisioni che riguardano la propria vita – a partire dalla scelta di
quanti figli avere e quando – sono oggi ritenuti elementi essenziali per il
successo delle politiche di sviluppo. Di esempio sono i nuovi Sustainable
Development Goals delle Nazioni Unite nei quali gli aspetti demografici non
sono più calati sulla testa delle persone persone ma si articolano piuttosto
sui processi partecipativi.
Tanti oppure
troppi?
Troppo,
troppo, troppo: le persone, il divario tra ricchi e poveri e pure
l’inefficienza nella distribuzione del cibo. Così Ehrlich, oggi direttore del
Centro di Biologia della Conservazione dell’Università di Standford, riassumeva
nel luglio del 2015 l’attuale spinta demografica in un’intervista rilasciata al
Washington Post. Confrontando l’attuale popolazione mondiale con qualsivoglia
epoca precedente, è impossibile negare che siamo tanti. Ma quand’è che il tanto
diventa troppo?
In ambito
ecologico, la capacità portante di un ambiente è la capacità delle sue risorse
di sostenere un certo numero di individui. Se in ambienti ridotti o isolati è
relativamente semplice stimarne la dimensione, il calcolo della capacità
portante dei grandi sistemi è estremamente complesso. Una relazione del 2012 delle Nazioni
Unite ha stimato la dimensione massima di popolazione in 65 diversi
scenari sostenibili. La dimensione più ricorrente è di otto miliardi di
individui, tuttavia l’intervallo varia tra un minimo di due miliardi e uno
sconcertante 1024 miliardi. È difficile sbilanciarsi su quale di queste sia la
più prossima al valore effettivo. Secondo gli esperti, il fattore determinante
sarà il modello che le nostre società sceglieranno di adottare e, in
particolare, la quantità di risorse consumate pro capite. Confrontando
l’attuale popolazione mondiale con qualsivoglia epoca precedente, è impossibile
negare che siamo tanti. Ma quand’è che il tanto diventa troppo?
Le incognite
riguardano principalmente il compartimento agricolo. Al contrario della
popolazione umana, la disponibilità di suolo fertile diminuisce a causa del
sovrasfruttamento e dei cambiamenti climatici. Secondo i dati della FAO, da qui
alla fine del secolo la produzione agricola dovrebbe aumentare almeno del 50% per
sfamarci tutti, a partire da una modesta area di terreno fertile, che copre
solo l’11% della superficie globale della terra. Eppure, l’agricoltura mondiale perde ogni anno 75 miliardi di
tonnellate di suolo fertile, l’equivalente di 10 milioni di ettari,
a causa di urbanizzazione, erosione e avanzata del deserto e del mare. Altri 20
milioni di ettari vengono abbandonati perché il terreno è troppo degradato per
coltivare, in larga misura per colpa delle tecniche agricole intensive. La
perdita di fertilità del suolo porta alla riduzione della produzione agricola:
un calo del 50% della materia organica porta a un taglio del 25% dei raccolti.
Il fenomeno non è uguale dappertutto, ma procede particolarmente veloce proprio
nelle aree che avrebbero più bisogno di ampliare le coltivazioni come la Cina,
flagellata dalla desertificazione.
A tutto gas
Le
conseguenze ambientali dell’esplosione demografica non si esauriscono nel
consumo di risorse naturali (acqua, suolo, biodiversità) ma sono correlate alla
quantità di emissioni di gas serra liberata in atmosfera. La crescita dei
consumatori, l’inurbamento della popolazione rurale e la rapida diffusione nel
pianeta di standard di vita ad alta emissione di gas serra sono le principali
tendenze su cui basare le proiezioni sul
destino del pianeta.
L’inurbamento
è spesso considerato un fenomeno positivo, accompagnato da miglioramenti
dell’istruzione, riduzione dei tassi di natalità, dello sfruttamento di risorse
naturali. Tuttavia, esso comporta l’adeguamento a standard di vita con alti
consumi e il conseguente aumento dell’inquinamento (come osservato nelle
megalopoli asiatiche degli ultimi decenni) con ricadute dirette sulla salute
dei cittadini. A livello globale, le emissioni domestiche rappresentano oltre il 60% del totale;
un ulteriore 14.5% delle emissioni di CO2 proviene
dagli allevamenti, i quali riforniscono principalmente le tavole di
europei e nordamericani.
Nei soli
paesi industrializzati, i consumi individuali rappresentano il 32.6% del totale
delle emissioni. È stato calcolato che l’abbandono di una dieta
basata sul consumo di carne comporterebbe entro il 2050 una riduzione
dell’emissione di gas serra tra il 29% e il 70%.
Alcuni
ricercatori sono perfino arrivati a stimare “il costo” ambientale di ogni
figlio: negli Stati Uniti, ogni fiocco appeso alla porta equivale a
9.441 t.e. di CO2, il 5,4% in più rispetto a quanto avrebbe emesso la donna se
nella sua vita avesse deciso di non procreare.
Una
provocazione, forse.
* Davide Michielin è biologo di formazione, scrive
di viaggi e ambiente con particolare occhio di riguardo per le tematiche legate
ai fiumi e all'inquinamento.
Articolo da www.iltascabile.com
, 18 maggio 2017 - Immagine: Philippe Desmazes/Getty Images
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