12 agosto 2020

Taglio dei Parlamentari, la sinistra sostenga il SI'


di Salvatore Cannavò

La riduzione del numero dei parlamentari, su cui si voterà al referendum del 21 settembre, mette in subbuglio persone e culture di sinistra. La difesa del Parlamento, della democrazia rappresentativa, della logica proporzionale della rappresentanza sono ingredienti essenziali di questa cultura che spingono molti a dichiararsi per il No.

Da un punto di vista saldamente di sinistra – per quanto il termine sia stato inquinato e devastato – io penso di votare Sì.

Bisogna innanzitutto sgombrare il campo dal cumulo di ipocrisie e menzogne: la legge costituzionale di riduzione dei parlamentari è stata già approvata dalle Camere, in prima lettura dalla maggioranza Lega-M5S e in seconda lettura da quella Pd-M5S-Leu-Iv (accordo ora rinnegato da Iv). Con 553 voti favorevoli e 14 contrari è stata approvata l’8 ottobre alla Camera praticamente da tutti, anche da Fdi e Forza Italia.

Se si ricorre al referendum, quindi, è solo a causa di una manovra di Palazzo che ha raccolto le firme di 71 senatori – e non tra i cittadini – tra cui, decisivi, quelli della Lega e di un paio di dissidenti M5S. Inoltre, il progetto fa parte di un disegno complessivo – promosso dall’allora ministro dei Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro – che prevedeva anche l’istituzione del referendum propositivo tramite la cosiddetta “legge di iniziativa popolare rafforzata”, proposta approvata alla Camera e che giace al momento dimenticata al Senato.

Il pacchetto di riforme quindi risponde a un’idea di ristrutturazione della democrazia rappresentativa con sperimentazioni, parziali, di democrazia diretta in una visione organica. Il punto che viene messo a tema da questa legge, quindi, è se la democrazia rappresentativa possa prevedere una sua ristrutturazione, anche per fare i conti con il distacco progressivo che si è prodotto in questi decenni tra il “palazzo” e il “popolo” o se invece debba rimanere uguale a se stessa e quindi logorarsi a poco a poco. La sinistra italiana ha sempre ipotizzato la riforma interna – ricordiamo la proposta di portare l’Assemblea dei deputati a 400 membri – ma non ha mai prodotto nulla se non leggi elettorali indecenti come l’attuale che porta il nome di Ettore Rosato di Iv.

E tra le ipocrisie da disvelare c’è ovviamente quella di chi fa finta di non ricordare la proposta di Matteo Renzi, che appena quattro anni fa voleva addirittura abolire il Senato e che, convinto di poter vincere il plebiscito inscenato, si ruppe la testa sul referendum. Ora la sinistra italiana dovrebbe decidere se intestarsi ancora una volta una battaglia di pura difesa dell’esistente, come appare la campagna per il No, oppure premere con le proprie idee (ma quali?) per una riforma complessiva.

Sentiamo già l’obiezione: non è dalla riduzione del numero dei parlamentari che si può cominciare. Ma allora da dove? La riduzione dei deputati e dei senatori, ad esempio, accompagnata da una legge proporzionale il più pura possibile, sarebbe una riforma positiva. Perché, invece, è stato stipulato l’accordo di governo vincolando il Sì alla riforma in cambio di una legge elettorale con sbarramento al 5 per cento? E perché Leu e Iv si accorgono solo ora che quel limite è insuperabile ?Dormivano?


La democrazia italiana è in una fase di coma profondo da lunghissimo tempo e la nascita del Movimento 5 Stelle ha rappresentato l’epifenomeno. Per chi non l’ha mai votato, come chi scrive, ma che comunque cerca di analizzare i fenomeni politici, è insopportabile osservare la campagna sguaiata contro il presunto populismo di chi si è sbracciato nel far notare che la politica rappresentativa non funzionava più e aveva bisogno di correttivi. Quei correttivi non disegnano una prospettiva “anti-sistema” o, peggio, “anti-parlamentare”, ma provano a dare una riorganizzata a un sistema comatoso. Semmai, una sinistra “radicale”, come viene ormai definita la sinistra più estrema, dovrebbe rivendicare forme di democrazia diretta più spinta, di strutture concrete di partecipazione popolare e di rapporto organico tra i deputati e la base popolare.

Nella Francia rivoluzionaria di fine 700 si dibatteva aspramente di “assemblee primarie” in grado di controllare gli eletti e di revocabilità del mandato. Queste sarebbero riforme radicali. Quello di cui si discute ora è un semplice aggiustamento, una autoriforma che provi a ridare credibilità a un Parlamento che ha fatto di tutto per perderla.Non è una rivoluzione e nemmeno una svolta autoritaria. È un passo che acquista senso insieme alle altre riforme, già approvate o da approvare sulla base del patto di maggioranza: legge proporzionale, elettorato attivo e passivo uguale per Camera e Senato, delegati regionali, elezione del Csm.  Si tratta di attenersi a quel patto se si vuole restare seri.

da FQ 12 agosto 2020

La pubblicazione dell’intervento non implica necessariamente la totale condivisione dei contenuti

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