di Lorenzo Guadagnucci *
All’epoca
d’oro del movimento per la giustizia globale uno degli slogan più diffusi era:
«Per un’economia di giustizia». Capitava di leggerlo sugli striscioni esibiti
dagli attivisti della Rete Lilliput ma era anche la sintesi di un largo e
profondo dibattito sui fondamenti dell’economia e quindi della società. La
costruzione di una “economia di giustizia”, naturalmente, implica il
ribaltamento degli assetti produttivi, finanziari e politici attuali e tanto
osavano pensare gli studiosi e gli attivisti che davano vita a quelle
discussioni e a quelle azioni politiche e di piazza che siamo soliti definire,
sui media mainstream, “movimento no global”.
Finita
quella stagione di grandi ideali e vaste mobilitazioni – anche sotto il braccio
violento dei poteri stabiliti – il pensiero economico contemporaneo ha
proseguito il suo stanco e uniforme percorso. L’ideologia neoliberale continua
a dominare incontrastata nel mondo politico e resta largamente prevalente anche
nelle università, dove lo stesso approccio keynesiano è finito in disparte,
nonostante la lunga egemonia di cui aveva goduto prima che la prassi mercatista
si imponesse (grosso modo all’epoca della “rivoluzione politica” di Reagan e
Thatcher).
Per queste
ragioni ogni volta che si alza dal mondo degli economisti una voce dissonante,
sembra di respirare aria di montagna dopo una lunga permanenza in un ambiente
chiuso, sovraffollato e zeppo di fumatori compulsivi.
In questi
giorni si tiene a Bruxelles la prima “Post Growth Conference”,
organizzata da alcuni gruppi parlamentari ed enti vari con l’obiettivo di
mettere in discussione il dogma della crescita (di produzioni, consumi,
ricchezze), attorno al quale ruotano sia il neoliberismo classico sia il
keynesismo vecchio e nuovo.
Un gruppo di
economisti e studiosi ha diffuso in questa occasione un documento-appello
rivolto alle istituzioni dell’Unione europea con una serie di richieste legate
fra loro da un preciso intento: costruire le premesse necessarie a immaginare
un’economia nuova. Ricercatori e professori chiedono di costituire una
commissione speciale che studi i possibili scenari del dopo crescita; di
utilizzare indicatori alternativi al PIL; di cambiare il Patto di stabilità e
crescita verso una logica più sostenibile, sia socialmente che sotto il profilo
ambientale; di istituire in ogni paese un ministero della Transizione
economica.
Come si
vede, si tratta di propositi politicamente inattuali, nel senso che non fanno
parte in alcun modo dell’agenda dell’Unione e sono assenti o del tutto marginali
(il che, alla fine, è la stessa cosa) anche nei programmi della varie forze
politiche, nonostante le premesse indicate dal documento della “Post Growth
Conference” siano consolidate e pressoché incontestate: il collasso ambientale
in corso, l’impossibilità di mantenere a lungo un’economia della crescita,
l’instabilità politica conseguente.
Qual è,
allora, il senso dell’appello, che porta in calce numerose firme di studiosi e
attivisti noti per essere “alternativi” rispetto all’estabilishment politico e
accademico (da Susan George e Serge Latouche a Saskia Sassen, Ann Pettifor, Tim
Jackson, David Graeber, Juan Carlos Monedero, tanto per fare qualche nome fra i
più conosciuti, in un elenco che include anche l’attuale vice ministro italiano
all’istruzione Lorenzo Fioramonti, docente all’Università di Pretoria prima di
mettersi in politica)?
Il
contributo principale dell’appello è probabilmente d’ordine culturale: conferma
che l’area degli economisti non allineati esiste ancora e che si avverte la
necessità di ridiscutere tutto, vista la gravità degli eventi in corso e
l’incapacità/impossibilità del sistema dominante di farvi fronte: e qui
pensiamo ovviamente alle diseguaglianze crescenti sia fra Nord e Sud del mondo
sia all’interno dei singoli Paesi, all’estrazione incontrollata e
tendenzialmente illimitata di risorse naturali, alla disoccupazione di massa
nel mondo occidentale, alla povertà estrema in molte zone dell’Africa (e non
solo), alla drammatica e progressiva perdita di biodiversità… (e si potrebbe
naturalmente continuare nell’elenco attingendo alle conoscenze scientifiche,
giornalistiche accumulate negli ultimi anni).
Dunque si
discute, si propone alle autorità del momento di compiere qualche passo nella
direzione giusta, ma su tutto aleggia qualcosa di non-detto, ossia la
dimensione politica e conflittuale implicita in un serio progetto di
transizione economica. Viviamo in un mondo dominato dall’ideologia del mercato
e all’interno di istituzioni modellate nel tempo in modo da essere funzionali al
progetto del capitalismo neoliberale, un progetto tanto semplice quanto – nelle
intenzioni – totalitario: estendere la logica della crescita, del profitto, del
superamento di barriere e controlli all’intera società, possibilmente in tutto
il mondo. Se questo è vero, ne consegue una valutazione radicale: non si esce
da questo sistema-mondo senza un conflitto, senza combattere interessi
fortissimi e consolidati, senza cambiare radicalmente le strutture che tutelano
quegli interessi.
Da almeno un
trentennio è scomparsa dalla scena politica, almeno in Europa, ciò che
chiamavamo sinistra, ossia un progetto di società concepito nell’interesse di
chi sta in basso nella piramide sociale, un progetto quindi proteso a
privilegiare la dimensione collettiva e solidale della vita pubblica rispetto
alla dimensione individuale, la lunga durata, inclusa la protezione del pianeta
pensando alle generazioni future, rispetto all’uso immediato a fini di profitto
delle risorse disponibili. La sinistra, per varie ragioni, ha finito per
accettare e fare proprio il paradigma tipico della destra, in sostanza il
modello neoliberale, e si è così liquefatta la possibilità di immaginare
collettivamente un modello di società diverso, più equo, più giusto, più lieve.
Stiamo pagando ancora le conseguenza di questa bancarotta politica, scolpita
nelle pagine di storia dalla famosa risposta di Margaret Thatcher, ormai
pensionata, a chi gli chiedeva quale fosse stato il suo maggiore successo
politico. La lady di ferro fu lapidaria: «Il New Labour». Ossia l’approdo degli
storici avversari socialisti, sotto la gestione di Tony Blair, alla stessa
visione della destra liberale: mercato, competizione, deregulation.
Gli
economisti e i ricercatori firmatari dell’appello hanno compiuto dunque un atto
significativo, portando nei palazzi di Bruxelles la necessità di pensare a un
progetto di economia della “post crescita”, un’idea di per sé “scandalosa”, ma
è difficile pensare a una trasformazione così radicale che passi attraverso
un’autoriforma decisa improvvisamente dall’alto. Le istituzioni dell’Unione
europea – destinatarie dell’invito a cambiare rotta – potranno trasformarsi e
diventare punti di riferimento di un’economia post crescita solo al termine di
un processo di lotta politica e di radicale democratizzazione. Non c’è da farsi
illusioni. La moneta comune, per come è stata realizzata; la Banca centrale
europea, per i compiti che le sono stati affidati; la Commissione e il
Consiglio dei ministri dell’Unione, per il ruolo che hanno, sono i principali ostacoli
che ingombrano il cammino dell’ipotetica trasformazione.
In altre
parole, è possibile immaginare una società liberata dal giogo della crescita
continua solo a patto di ingaggiare un corpo a corpo con la dittatura della
finanza e quel sistema istituzionale che per anni ne ha favorito e sorretto il
dominio. Per limitarci all’ambito europeo, servirebbe probabilmente un modello
istituzionale di tipo federale, con un parlamento democratico e titolare di
pieno potere legislativo, una Banca centrale rivoluzionata e messa al servizio
di un’economia diversa, con parole d’ordine come equità, diritti, ecologia al
posto di quelle correnti. Se mai ci avvicineremo a qualcosa del genere, sarà
perché avremo saputo ingaggiare uno scontro politico a tutto campo e perché i
cittadini che stanno sotto – al momento senza parola – avranno rivendicato
un’economia di giustizia e capace di futuro. Non esistono scorciatoie
credibili.
* da volerelaluna.it - 19 settembre 2018
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