di Linda Maggiori *
La grande attenzione mediatica data
alla morte di Sergio Marchionne – al di là della pietà umana,
sacrosanta verso ogni uomo che muore – è la spia dell’italica adorazione per
l’auto. Le uniche voci critiche sono quei sindacati che lamentano la
scarsa collaborazione, il taglio di posti di lavoro, ma anche loro guardano con
preoccupazione al calo delle vendite in questo trimestre.
Perché nessuno si augura che le
vendite delle auto continuino a calare, che diminuisca il tasso di
motorizzazione, che l’industria automobilistica vada in crisi e sia
convertita in industria di mobilità sostenibile e collettiva? È
un’eresia così grande? Secondo il Fondo monetario
internazionale, “l’uso di veicoli privati produce traffico,
morti premature, incidenti con feriti. Si stima che i costi associati a questi
fenomeni siano pari a circa 10 dollari per litro (di petrolio)”.
Secondo l’Istat, 3378 persone in Italia
sono morte per incidenti stradali nel 2017, in aumento rispetto al 2016: un
eccidio l’anno, un intero paese massacrato. Eppure nessuno si scompone. “Tutti
lo considerano un male talmente necessario da diventare nessun male, da essere
confuso con la casualità” come scritto da Franco La Cecla nella
prefazione a Dopo l’automobile di Colin Ward. Il tasso di motorizzazione in
Italia continua ad aumentare, superiamo le 62 auto ogni 100
abitanti, circa due ogni tre persone compresi i bambini. Gli spostamenti
privati avvengono al 66,4% in auto, al 3% in moto, al 3,8%
in bici, al 10,8% coi mezzi pubblici, al 15% a piedi. Siamo dipendenti
fisicamente e psicologicamente dall’auto: una dipendenza pagata a caro prezzo
visto che abbiamo uno dei più alti tassi di obesità e sovrappeso infantili
(circa il 40% dei bambini è sovrappeso o obeso), il record europeo di
morti premature per inquinamento dell’aria (91mila morti l’anno) e il
cemento che avanza implacabile.
Una “dipendenza” germogliata nel fascismo,
grazie alla stretta collaborazione tra Agnelli e Mussolini e alla
martellante propaganda del regime a favore della “motorizzazione italica”. Una
dipendenza consolidata negli anni 50, anni del boom economico e del disastro
urbanistico. Una dipendenza solo in parte intaccata negli anni 70, dalla
crisi del petrolio. Allora anche i sindacati si erano mostrati
coraggiosamente aperti a una riconversione del settore automobilistico, come
testimoniato da un’intervista a Bruno Trentin (segretario della Fiom)
apparsa sull’Espresso il 20 ottobre 1974 : “Noi sappiamo che l’auto è in
crisi e che bisogna riconvertire l’azienda. La Fiat dovrebbe puntare
molto di più sul trasporto collettivo, sul materiale ferroviario e noi siamo
pronti a consentire lo spostamento della manodopera verso quei settori. (Ma)
Agnelli continua a puntare testardamente sull’automobile”.
Il liberismo e la colata di cemento
degli anni 80 e 90 spazzarono via ogni ipotesi di conversione, per lo meno in
Italia. L’industria automobilistica crebbe nonostante la crisi e la dipendenza
degli italiani dall’automobile divenne quasi patologica. Il XIII Rapporto automobile
dell’Aci-Censis (2003) sottolineava la “bassa motivazione al
cambiamento” di una buona fetta di automobilisti. Ancora oggi chi usa l’auto la
usa per tragitti brevi, sotto i 5 km (il 60% degli spostamenti
abituali non superi i cinque chilometri, il 40% i due chilometri).
Iniziava la moda dei Suv e
delle Jeep, veicoli energivori, potenti, prepotenti, simbolo di ciò che
i clienti cercano nell’auto: non un mezzo di trasporto, ma un mezzo di dominio.
Più auto, più cemento, più centri commerciali fuori città, più strade e autostrade.
Il circolo vizioso è implacabile e così le auto hanno trasformato (in peggio)
le nostre città e i nostri territori. Secondo il rapporto Legambiente
Pendolaria, dal 2002 ad oggi i finanziamenti statali e
regionali hanno premiato per il 60% gli investimenti su strade e autostrade. Di
contro in tutta Italia sono stati chiusi 1323,2 chilometri di linee
ferroviarie.
In molti parlano di auto elettriche
come la nuova salvezza, ma queste non saranno una soluzione. L’auto
elettrica occupa lo stesso spazio, genera gli stessi problemi di traffico,
parcheggi, incidenti mortali. Non inquina localmente ma inquina là dove viene
prodotta l’energia elettrica (centrali a carbone, gasolio). Tante città si
stanno liberando dalle auto (Oslo, Copenhagen, Friburgo, Parigi).
Noi che aspettiamo? Speriamo che le parole del ministro Toninelli, lunedì 23 luglio a Montecitorio,
diventino presto azioni concrete: “Andare in bici deve smettere di essere un
atto di coraggio e deve diventare una scelta di normalità. Il governo inizia a
mettere il traffico a dieta.
* da ilfattoquotidiano
1 agosto 2018
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