Il 40%
dell’energia elettrica tedesca viene dal carbone. Nonostante l'impetuosa
crescita delle rinnovabili, il paese non raggiungerà il taglio previsto delle
emissioni al 2020 per almeno 10 punti di scarto. Il tema di un'uscita dal
carbone è ancora tabù per governo e sindacati.
La Germania
è vista ancora come un paese leader negli investimenti in fonti rinnovabili
e nella lotta al global warming con il suo ambizioso obiettivo di tagliare le
emissioni di CO2 del 40% al 2020 rispetto ai valori del 1990. Quasi un terzo
della sua elettricità è generato da eolico e fotovoltaico, una quota
doppia, ad esempio, rispetto a quella degli Stati Uniti. Tuttavia la Germania
non sembra meritare questo ruolo di leadership di paese green, ancora tutta da
conquistare. Nel grafico (elaborazione Clean Energy Wire su dati AG
Energiebilnzen) la quota delle diverse fonti sul mix elettrico: la forte
crescita delle rinnovabili, ma al contempo il peso ingombrante dei quasi 250
TWh da carbone.
Nei fatti
sappiamo quindi che il 40% dell’energia elettrica tedesca viene ancora dal
carbone, e parliamo di quello sporco, lignite e carbone pesante (hard
coal). Questa quota di carbone sull’elettrico è la seconda in Europa, subito dopo
la Polonia che ha una dipendenza da questa fonte fossile prossima
all'80%.
Per capire
la fatica del processo di transizione energetica in Europa, segnaliamo che in
quest’ultimo paese, che ospiterà persino la prossima Cop sul clima nel 2018, si
è appena inaugurata un’unità nella più grande centrale a carbone europea, a
Kozienice: brucerà circa 3 milioni di tonnellate di carbone ogni anno. E poi ci
chi chiediamo perché i governi europei tutelino
ancora economicamente queste centrali, che solo in Polonia hanno ricevuto 60
miliardi di euro sovvenzioni negli ultimi due decenni, e al contempo provino a
rallentare in tutti i modi sulle rinnovabili?
Tornando
alla Germania, va detto che anche per questo eccessivo peso del carbone l’obiettivo
di riduzione delle emissioni al 2020 verrà mancato: basti pensare che a
fine 2016 il taglio risultava appena del 27%. Quasi certamente il target
rimarrà lontano di almeno 10 punti percentuali. Eppure di chiusura di centrali
a carbone se ne parla poco nel paese, considerando anche l’irritazione dei sindacati
di settore che, tra centrali e settore minerario, curano gli interessi di
circa 130mila lavoratori.
I consumi
sull’energia primaria di hard coal e lignite sono comunque calati nel
2017, rispettivamente del 10,4% e dello 0,6% in confronto al 2016. Tuttavia,
nonostante l’incremento delle rinnovabili del 6,1% (passano dal 12,5 del 2016
al 13,1% sui consumi primari nel 2017), con l’aumento dei consumi energetici
dello 0,8%, le emissioni di CO2 legate al settore energetico
resteranno stabili anche per quest’anno. Alternative alla fuoriuscita graduale ma
rapida dal carbone non se vedono.
La
dipendenza dal carbone è un tema così delicato che in campagna elettorale la
Merkel si è guardata bene dall’affrontarlo di petto. Con l’ipotesi, ormai
fallita, di una possibile coalizione a tre insieme ai Verdi, sul tavolo
c’era l’opzione della chiusura dei 20 impianti a carbone più inquinanti del
paese. Non si sarebbe raggiunto il target 2020, ma almeno si sarebbe messo il
paese su un percorso virtuoso di riduzione delle emissioni. Non sembra il
momento giusto per questo passaggio, nonostante il tasso di disoccupazione
in Germania sia ai minimi storici e migliaia di lavoratori siano stati assunti
nei settori delle rinnovabili, dando persino l’idea che vi possano
essere trasferiti anche i lavoratori in uscita dal settore del carbone.
Inoltre la
chiusura di diverse centrali a carbone, in un quadro di sovracapacità,
non porterebbe nemmeno ad un aumento significativo dei prezzi dell’elettricità,
almeno nel breve periodo.
Forse
l’unica possibilità di vedere la chiusura di questi impianti inquinanti è
sperare nell’aumento del prezzo della CO2. La prossima riforma
dell’ETS entro il 2020 potrebbe portare a una riduzione dei permessi
di emissione distribuiti, facendo così innalzare il prezzo della CO2 anche
di tre volte rispetto ad oggi (intorno ai 24 €/tonnellata), abbastanza da
indurre ad una uscita dal carbone.
Nonostante
alcuni affermino che il peso del carbone nel paese sia in aumento a causa della
decisione governativa di uscire dal nucleare dopo Fukushima, più verosimilmente
si può dire che abbia inciso, oltre al basso prezzo della CO2, anche il fatto
che dal 2011 i costi della generazione elettrica da carbone sono calati del
30%, spinti dall'oversupply della materia prima. Fattore, questo, legato al
boom dello shale gas negli Usa che ha portato gli States ad esportare più
carbone, in concomitanza ad una crescita della produzione anche in Asia.
Uno studio pubblicato ad inizio 2017
commissionato dal WWF tedesco, dal titolo "Germany’s electric
future/Coal phase-out 2035, e condotto da Öko-Institut e Prognos, riteneva
anche in un’ottica di più lungo periodo (vedi obiettivi post accordo di Parigi)
di smantellare le centrali a carbone operative da più di 30 anni,
fissare al 2035 lo stop totale e definitivo di tutti gli impianti
fossili, escluso il gas, accelerare l’espansione delle rinnovabili
secondo il piano previsto dalla EEG 2014. Al momento tutte ipotesi difficili da
incastrare insieme. Il processo di transizione energetica tedesca (Energiewende)
resta pertanto in grossa difficoltà e il problema si chiama soprattutto
carbone.
Un problema
che non può nemmeno essere circoscritto alla sola Germania perché, come ha
spiegato uno studio pubblicato da Health and Environment Alliance, Climate
Action Network Europe, Wwf e Sandbag, dal titolo “La nuvola scura
sull’Europa: come i paesi a carbone fanno ammalare i loro vicini”,
l’inquinamento da carbone europeo, specialmente da PM 10 e PM 2,5, e i suoi
effetti sulla salute delle persone arrivano ben oltre i confini nazionali
(QualEnergia.it), Italia inclusa.
* 22 dicembre 2017
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