4 aprile 2019

Turchia: L’ambiguo «dopoguerra» dell’erede del Califfato


Elezioni in Turchia. L’Ue tace sulla repressione dell’opposizione e dei curdi, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui giornalisti dietro le sbarre


di Alberto Negri *

L’erede della sconfitta del Califfo Al Baghadi è proprio lui, Erdogan. «Risolveremo la crisi siriana sul campo», ha dichiarato prima del voto. La Turchia intanto fa «ciaone» alla Nato, conferma l’acquisto dei missili dalla Russia e annunciando che Santa Sofia tornerà moschea, raccoglie la bandiera delle istanze islamiste dalle rovine dell’Isis.

Che per altro in questi anni ha ampiamente sostenuto, come confermato dall’«ambasciatore dell’Isis» in Turchia, Abu Mansour, in una lunga conversazione riportata da Homeland Security Today, un sito diretto dall’ex segretario alla sicurezza di Bush junior, Michael Chertoff. Alla vigilia di un incerto e rischioso voto alle amministrative di oggi, segnato dalle difficoltà economiche, finanziarie e da una forte crisi occupazionale, il presidente turco ha provato a compattare l’elettorato più devoto all’Islam religioso con quello che ormai è un classico: la riapertura al culto islamico di Santa Sofia, l’ex basilica bizantina, trasformata in museo nel 1935 da Atatürk. Ankara ha poi annunciato l’acquisto del sistema missilistico S-400 dalla Russia durante la visita di Sergei Lavrov ad Antalya mentre gli Usa si preparano a bloccare la consegna dei caccia F-35 nella cui produzione è coinvolta anche la Turchia, membro della Nato dal 1953. Con una crescita economica quasi ferma, la lira sotto pressione e gli effetti dell’afflusso dei migranti siriani, usati per ricattare l’Unione europea, Erdogan ha cercato di sfruttare l’onda emotiva provocata dall’attentato terroristico contro le due moschee a Christchurch. Non solo ha fatto circolare il video della strage, a Gallipoli, in occasione delle commemorazioni della battaglia del 1915, cui parteciparono con gli inglesi anche reparti australiani e neozelandesi, ha dichiarato: «I vostri nonni vennero qui e li abbiamo rimandati indietro nelle bare. Non abbiamo dubbi: rimanderemo a casa nelle bare anche voi nipoti». Ci sarà un giorno in cui, riscrivendo le cronache di questi anni, che qualcuno si domanderà come mai gli stati dell’Ue non abbiano detto o fatto nulla nei confronti Turchia di Erdogan.

E quando vorranno trovarne le ragioni sarà per constatare che i Paesi trainanti dell’Unione, insieme agli Stati Uniti, sono stati suoi complici e allo stesso tempo l’hanno preso in giro con la chimera dell’ingresso in Europa.


Non c’è ovviamente soltanto la questione di profughi siriani ma anche quella del Golan e di Gerusalemme. Erdogan ha gioco facile a presentarsi come un leader perché l’Europa non si oppone davvero al riconoscimento americano di Gerusalemme capitale dello stato ebraico o all’annessione del Golan, contro ogni risoluzione dell’Onu. Anzi si divide e la Romania, che ha la presidenza di turno del Consiglio Ue, si accoda alle decisioni americane. Ormai, euro a parte e consorzi di armamenti compresi, non si capisce neppure perché stiamo insieme, visto che non esiste una politica estera comune nemmeno su fatti eclatanti come questi.

L’Europa non dice nulla sulla repressione dell’opposizione in Turchia, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui politici, i giornalisti e gli intellettuali dietro le sbarre con condanne all’ergastolo, sui curdi in Turchia e in Siria: non pervenuta. Gli europei e i loro governi vivono una contraddizione perenne nei confronti di Erdogan e del Medio Oriente, come se non nascessero lì guerre devastanti cui noi stessi contribuiamo come volonterosi carnefici di un’intera regione.


Tutto questo lo racconta – dal suo punto di vista naturalmente – l’ambasciatore del Califfato Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino che arrivò in Siria del 2013. «Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia, pagare il network locale per i trasferimenti e tenere d’occhio il confine turco-siriano, C’erano degli accordi tra l’intelligence della Turchia e l’Isis. Mi incontravo direttamente con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e anche con rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato». L’Isis, racconta Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera con Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan e alla sua ambizione di inglobare Aleppo. E quando il Califfato, dopo la caduta di Mosul, ha negoziato nel 2014 con Erdogan il rilascio dei diplomatici turchi ha ottenuto in cambio a scarcerazione di 500 jihadisti per combattere nel Siraq. «La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 chilometri: avevamo una strada sempre aperta per far curare i feriti e avere rifornimenti di ogni tipo, mentre noi vendevamo la maggior parte del nostro petrolio in Turchia e un quantitativo inferiore anche ad Assad». Mansour per il suo ruolo era asceso al titolo di emiro nelle gerarchie del Califfato. «Erdogan, con le sue aspirazioni islamiste, ha lavorato con noi mano nella mano», dice Mansour dalla carceri irachene. Oggi Erdogan promette a modo suo di «sistemare» la Siria: c’è da fidarsi?


* il manifesto – 31 marzo 2019  - leggi anche:



Il raìs sa già dove reagire: a Rojava

Turchia post-voto. Erdogan resiste nell'Anatolia profonda, ma cede nelle grandi città. La risposta è dietro l'angolo: una nuova operazione contro i curdi. Quella che anche il rivale Chp appoggerebbe.

di Alberto Negri   ( 3 aprile 2019 )

La reazione del leader turco Erdogan alla sconfitta di Ankara e Istanbul non si farà attendere. O’ Sarracino si sente tradito. Lui è smanioso ma anche freddo, come un giocatore di poker, e vuole essere ammirato, al punto che una sera a cena offrì a noi, attoniti giornalisti italiani, un telefonino per parlare con Berlusconi allora presidente del Consiglio. Ha manie di grandezza, quindi è imprevedibile. I raìs non sono tutti uguali. A differenza di Erdogan, l’egiziano al-Sisi, giustiziere dei Fratelli Musulmani, è un dittatore che ce l’ha fatta. Piace alla Russia, a Israele con cui collabora nel Sinai, è gradito agli americani, alle ricche monarchie del Golfo e in fondo anche a noi europei, nonostante l’orrore del caso Regeni. Erdogan non piace neppure ai suoi amici, o presunti tali. I russi ne diffidano, anche se gli vogliono vendere i missili S-400, gli americani lo detestano perché la Turchia è un Paese della Nato che fa quello che vuole. E così il Pentagono gli ha appena bloccato la consegna dei caccia F-35. Erdogan si oppone anche a Israele, eppure con Netanyahu condivide l’idea di essere alla testa di una nuova «grandeur» mediorientale. Il premier ebraico è forse il politico della regione che gli somiglia di più: tutti e due sanno come usare le corde del nazionalismo più esasperato, della religione e soprattutto della paura popolare. A trattarlo bene sono gli iraniani che ne hanno bisogno per aggirare le sanzioni Usa. Ma gli ayatollah di Teheran sono troppo astuti per non sapere che Erdogan corre sul filo. La repubblica islamica è in agguato, tra Siria e Iraq, per capire quali errori può compiere per dargli una mano interessata a venire fuori dai guai.

L’errore più grosso Erdogan lo ha fatto con l’Isis. Ha creduto alle promesse della signora Clinton che gli Usa avrebbero acconsentito a uno Stato sunnita cuscinetto tra Siria e Iraq per contenere l’influenza della mezzaluna sciita e poi lo hanno abbandonato al suo destino. Per questo Erdogan è furibondo: pensa che gli Usa siano dietro al fallito tentativo di colpo di stato gulenista del 15 luglio 2016. Non solo. Ritiene che le sue difficoltà derivino dalla «lobby dei tassi di interesse» manovrata dalle banche americane che ritirano gli investimenti e fanno precipitare la lira turca.


Sarebbe sbagliato credere che la perdita di Istanbul e Ankara sia l’inizio della fine di Erdogan. Come ha annunciato, non intende convocare elezioni fino al 2023, l’anno in cui si celebreranno i cento anni della repubblica fondata da Ataturk. È vero che le classi urbane hanno in parte voltato le spalle al suo messaggio incentrato sull’Islam politico ma è anche vero che la Turchia è rappresentata non soltanto dalle grandi megalopoli ma anche dalla provincia, quell’Anatolia profonda alla base del successo del partito Akp, al potere da 17 anni, e che per ora non lo ha abbandonato. Certo la crisi economica si fa sentire ma è ancora presto per capire se basterà a rovesciare un leader che finora è stato capace di superare molte avversità, tra cui il fallito golpe del 2016 quando già nelle cancellerie europee esultavano per la sua defenestrazione. In realtà Erdogan si prepara a usare la sua arma più acuminata, il nazionalismo radicale, quello che lo ha portato ad allearsi con la destra fascista dei Lupi Grigi. A farne le spese saranno i curdi, in primo luogo quelli del Rojava massacrati con l’avanzata delle forze turche nel cantone di Afrin. Bastonare i curdi, accusandoli di terrorismo, è lo sport nazionale, risfoderato ogni qual volta il Paese è in difficoltà. L’anticipo dell’offensiva turca contro i curdi Erdogan l’ha data alla vigilia del voto. «Risolveremo sul campo la questione curda, non con la diplomazia», ha detto. 
Quando si tratta di attaccare i curdi anche il partito repubblicano Chp, nonostante i favori ricevuti alle urne, si adegua alla sua ala kemalista e non tollera deviazioni dalla turchizzazione. Inutile giraci intorno: Erdogan, anche con i nostri inganni e il ricatto sui profughi siriani, ce lo siamo meritato.

Nessun commento:

Posta un commento