Elezioni in Turchia. L’Ue tace sulla repressione
dell’opposizione e dei curdi, sulle centinaia di migliaia di persone in carcere
dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui giornalisti dietro le sbarre
di Alberto Negri *
L’erede
della sconfitta del Califfo Al Baghadi è proprio lui, Erdogan. «Risolveremo la
crisi siriana sul campo», ha dichiarato prima del voto. La Turchia intanto fa
«ciaone» alla Nato, conferma l’acquisto dei missili dalla Russia e annunciando
che Santa Sofia tornerà moschea, raccoglie la bandiera delle istanze islamiste
dalle rovine dell’Isis.
Che per
altro in questi anni ha ampiamente sostenuto, come confermato
dall’«ambasciatore dell’Isis» in Turchia, Abu Mansour, in una lunga
conversazione riportata da Homeland Security Today, un sito diretto dall’ex
segretario alla sicurezza di Bush junior, Michael Chertoff. Alla vigilia di un
incerto e rischioso voto alle amministrative di oggi, segnato dalle difficoltà
economiche, finanziarie e da una forte crisi occupazionale, il presidente turco
ha provato a compattare l’elettorato più devoto all’Islam religioso con quello
che ormai è un classico: la riapertura al culto islamico di Santa Sofia, l’ex
basilica bizantina, trasformata in museo nel 1935 da Atatürk. Ankara ha poi
annunciato l’acquisto del sistema missilistico S-400 dalla Russia durante la
visita di Sergei Lavrov ad Antalya mentre gli Usa si preparano a bloccare la
consegna dei caccia F-35 nella cui produzione è coinvolta anche la Turchia,
membro della Nato dal 1953. Con una crescita economica quasi ferma, la lira
sotto pressione e gli effetti dell’afflusso dei migranti siriani, usati per
ricattare l’Unione europea, Erdogan ha cercato di sfruttare l’onda emotiva
provocata dall’attentato terroristico contro le due moschee a Christchurch. Non
solo ha fatto circolare il video della strage, a Gallipoli, in occasione delle
commemorazioni della battaglia del 1915, cui parteciparono con gli inglesi
anche reparti australiani e neozelandesi, ha dichiarato: «I vostri nonni
vennero qui e li abbiamo rimandati indietro nelle bare. Non abbiamo dubbi:
rimanderemo a casa nelle bare anche voi nipoti». Ci sarà un giorno in cui,
riscrivendo le cronache di questi anni, che qualcuno si domanderà come mai gli
stati dell’Ue non abbiano detto o fatto nulla nei confronti Turchia di Erdogan.
E quando
vorranno trovarne le ragioni sarà per constatare che i Paesi trainanti
dell’Unione, insieme agli Stati Uniti, sono stati suoi complici e allo stesso
tempo l’hanno preso in giro con la chimera dell’ingresso in Europa.
Non c’è
ovviamente soltanto la questione di profughi siriani ma anche quella del Golan
e di Gerusalemme. Erdogan ha gioco facile a presentarsi come un leader perché
l’Europa non si oppone davvero al riconoscimento americano di Gerusalemme
capitale dello stato ebraico o all’annessione del Golan, contro ogni
risoluzione dell’Onu. Anzi si divide e la Romania, che ha la presidenza di
turno del Consiglio Ue, si accoda alle decisioni americane. Ormai, euro a parte
e consorzi di armamenti compresi, non si capisce neppure perché stiamo insieme,
visto che non esiste una politica estera comune nemmeno su fatti eclatanti come
questi.
L’Europa non
dice nulla sulla repressione dell’opposizione in Turchia, sulle centinaia di
migliaia di persone in carcere dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016, sui
politici, i giornalisti e gli intellettuali dietro le sbarre con condanne
all’ergastolo, sui curdi in Turchia e in Siria: non pervenuta. Gli europei e i
loro governi vivono una contraddizione perenne nei confronti di Erdogan e del
Medio Oriente, come se non nascessero lì guerre devastanti cui noi stessi
contribuiamo come volonterosi carnefici di un’intera regione.
Tutto questo
lo racconta – dal suo punto di vista naturalmente – l’ambasciatore del
Califfato Abu Mansour al Maghrabi, un ingegnere marocchino che arrivò in Siria
del 2013. «Il mio lavoro era ricevere i foreign fighters in Turchia, pagare il
network locale per i trasferimenti e tenere d’occhio il confine turco-siriano,
C’erano degli accordi tra l’intelligence della Turchia e l’Isis. Mi incontravo
direttamente con il Mit, i servizi di sicurezza turchi e anche con
rappresentanti delle forze armate. La maggior parte delle riunioni si
svolgevano in posti di frontiera, altre volte a Gaziantep o ad Ankara. Ma i
loro agenti stavano anche con noi, dentro al Califfato». L’Isis, racconta
Mansour, era nel Nord della Siria e Ankara puntava a controllare la frontiera con
Siria e Iraq, da Kessab a Mosul: era funzionale ai piani anti-curdi di Erdogan
e alla sua ambizione di inglobare Aleppo. E quando il Califfato, dopo la caduta
di Mosul, ha negoziato nel 2014 con Erdogan il rilascio dei diplomatici turchi
ha ottenuto in cambio a scarcerazione di 500 jihadisti per combattere nel
Siraq. «La Turchia proteggeva la nostra retrovia per 300 chilometri: avevamo
una strada sempre aperta per far curare i feriti e avere rifornimenti di ogni
tipo, mentre noi vendevamo la maggior parte del nostro petrolio in Turchia e un
quantitativo inferiore anche ad Assad». Mansour per il suo ruolo era asceso al
titolo di emiro nelle gerarchie del Califfato. «Erdogan, con le sue aspirazioni
islamiste, ha lavorato con noi mano nella mano», dice Mansour dalla carceri
irachene. Oggi Erdogan promette a modo suo di «sistemare» la Siria: c’è da
fidarsi?
* il
manifesto – 31 marzo 2019 - leggi anche:
- Raid turchi contro il Pkk nel nord Iraq red. esteri
- In Turchia minaccia di annullamento per il voto delle città Dimitri Bettoni
- L’ambiguo «dopoguerra» dell’erede del Califfato Alberto Negri
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Il raìs sa
già dove reagire: a Rojava
Turchia post-voto. Erdogan resiste
nell'Anatolia profonda, ma cede nelle grandi città. La risposta è dietro
l'angolo: una nuova operazione contro i curdi. Quella che anche il rivale Chp
appoggerebbe.
di Alberto Negri ( 3 aprile 2019 )
La reazione del leader turco Erdogan alla sconfitta di
Ankara e Istanbul non si farà attendere. O’ Sarracino si sente tradito. Lui è
smanioso ma anche freddo, come un giocatore di poker, e vuole essere ammirato,
al punto che una sera a cena offrì a noi, attoniti giornalisti italiani, un
telefonino per parlare con Berlusconi allora presidente del Consiglio. Ha manie
di grandezza, quindi è imprevedibile. I raìs non sono tutti uguali. A
differenza di Erdogan, l’egiziano al-Sisi, giustiziere dei Fratelli Musulmani,
è un dittatore che ce l’ha fatta. Piace alla Russia, a Israele con cui
collabora nel Sinai, è gradito agli americani, alle ricche monarchie del Golfo
e in fondo anche a noi europei, nonostante l’orrore del caso Regeni. Erdogan
non piace neppure ai suoi amici, o presunti tali. I russi ne diffidano, anche
se gli vogliono vendere i missili S-400, gli americani lo detestano perché la
Turchia è un Paese della Nato che fa quello che vuole. E così il Pentagono gli
ha appena bloccato la consegna dei caccia F-35. Erdogan si oppone anche a
Israele, eppure con Netanyahu condivide l’idea di essere alla testa di una
nuova «grandeur» mediorientale. Il premier ebraico è forse il politico della
regione che gli somiglia di più: tutti e due sanno come usare le corde del
nazionalismo più esasperato, della religione e soprattutto della paura
popolare. A trattarlo bene sono gli iraniani che ne hanno bisogno per aggirare
le sanzioni Usa. Ma gli ayatollah di Teheran sono troppo astuti per non sapere
che Erdogan corre sul filo. La repubblica islamica è in agguato, tra Siria e
Iraq, per capire quali errori può compiere per dargli una mano interessata a
venire fuori dai guai.
L’errore più grosso Erdogan lo ha fatto con l’Isis. Ha
creduto alle promesse della signora Clinton che gli Usa avrebbero acconsentito
a uno Stato sunnita cuscinetto tra Siria e Iraq per contenere l’influenza della
mezzaluna sciita e poi lo hanno abbandonato al suo destino. Per questo Erdogan
è furibondo: pensa che gli Usa siano dietro al fallito tentativo di colpo di
stato gulenista del 15 luglio 2016. Non solo. Ritiene che le sue difficoltà
derivino dalla «lobby dei tassi di interesse» manovrata dalle banche americane
che ritirano gli investimenti e fanno precipitare la lira turca.
Sarebbe sbagliato credere che la perdita di Istanbul e
Ankara sia l’inizio della fine di Erdogan. Come ha annunciato, non intende
convocare elezioni fino al 2023, l’anno in cui si celebreranno i cento anni
della repubblica fondata da Ataturk. È vero che le classi urbane hanno in parte
voltato le spalle al suo messaggio incentrato sull’Islam politico ma è anche
vero che la Turchia è rappresentata non soltanto dalle grandi megalopoli ma
anche dalla provincia, quell’Anatolia profonda alla base del successo del
partito Akp, al potere da 17 anni, e che per ora non lo ha abbandonato. Certo
la crisi economica si fa sentire ma è ancora presto per capire se basterà a
rovesciare un leader che finora è stato capace di superare molte avversità, tra
cui il fallito golpe del 2016 quando già nelle cancellerie europee esultavano
per la sua defenestrazione. In realtà Erdogan si prepara a usare la sua arma
più acuminata, il nazionalismo radicale, quello che lo ha portato ad allearsi
con la destra fascista dei Lupi Grigi. A farne le spese saranno i curdi, in
primo luogo quelli del Rojava massacrati con l’avanzata delle forze turche nel
cantone di Afrin. Bastonare i curdi, accusandoli di terrorismo, è lo sport
nazionale, risfoderato ogni qual volta il Paese è in difficoltà. L’anticipo
dell’offensiva turca contro i curdi Erdogan l’ha data alla vigilia del voto.
«Risolveremo sul campo la questione curda, non con la diplomazia», ha detto.
Quando si tratta di attaccare i curdi anche il partito repubblicano Chp,
nonostante i favori ricevuti alle urne, si adegua alla sua ala kemalista e non
tollera deviazioni dalla turchizzazione. Inutile giraci intorno: Erdogan, anche
con i nostri inganni e il ricatto sui profughi siriani, ce lo siamo meritato.
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