L’approdo
instabile al Rosatellum . Si potrebbe cominciare dalla riforma degli istituti
di democrazia diretta e dei regolamenti delle camere
di Antonio Floridia *
A un anno
dal referendum che ha affossato anche la legge elettorale – l’Italicum – che
della riforma costituzionale renziana era il naturale complemento, ci
ritroviamo con un nuovo sistema elettorale, di cui si è detto e si dovrà
continuare a dire tutto il male possibile. Tutto inutile, dunque? La vittoria
del “No” non ha lasciato alcun segno, come si sarebbe indotti a ritenere se ci
abbandonassimo ad una sorta di disfattismo sconsolato, così frequente a
sinistra? No, non è così. L’esito del referendum ha bloccato la via che si era
pericolosamente imboccata: quella di una crescente torsione plebiscitaria della
nostra democrazia anche per ciò che riguardava le regole elettorali. È stato un
grande risultato e tale rimane; ma, come prevedibile, non poteva essere
risolutivo.
La cecità
politica del Pd ha portato ancora una volta alla scelta di un sistema
elettorale disegnato sulla base delle presunte (molto presunte, invero)
convenienze del momento. L’ennesimo capitolo di una lunga storia: l’Italia
continua a godere di un poco invidiabile primato, tra le democrazie cosiddette
mature: nessun altro paese, nell’ultimo quarto di secolo, ha cambiato così
frequentemente la propria legge elettorale. Il sistema elettorale è una
questione sempre aperta: più che definire le regole della competizione
politica, appare esso stesso come una posta del gioco politico.
QUESTA
PRECARIETÀ congenita, questa incapacità di
definire regole elettorali che riescano ad acquisire un minimo di stabilità nel
tempo, sono il segno inequivocabile di una perdurante e progressiva
destrutturazione del sistema politico italiano: sono il sintomo del fallimento
delle idee, delle dottrine, degli schemi ideologici con cui la crisi della
prima Repubblica è stata affrontata, ma ancor prima letta e interpretata. La
scelta di un sistema elettorale si rivela sempre, in un modo o nell’altro, come
una scelta tra modelli diversi e alternativi di democrazia.
Se la legge
Mattarella ricercava ancora un punto di equilibrio tra la visione maggioritaria
e quella proporzionale, configurando un sistema che poteva ancora essere
definito effettivamente «misto», la storia successiva ci consegna un panorama
in cui domina da un lato il plebiscitarismo, – una visione della democrazia
come investitura del capo – e dall’altro l’annichilimento della rappresentanza
politica. Il fallimento delle forzature plebiscitarie di cui la legge Calderoli
era espressione è apparso ben presto chiaro; eppure, abbiamo assistito, con
l’Italicum, ad una sorta di coazione a ripetere, fortunatamente travolta dal
referendum, ma che trova ancora qualche nostalgico cantore.
E veniamo
così all’oggi. Nel dibattito di questi mesi, non è emersa una vera riflessione
sulle ragioni di fondo che dovrebbero ispirare una riforma elettorale, che
possa finalmente sottrarre il tema allo sguardo miope degli interessi
contingenti. Quale che sia l’esito delle elezioni, anche quest’ultima legge
elettorale appare destinata a essere rimessa in discussione, tanto palesi sono
le sue incongruenze. Il dibattito resterà aperto. E allora, la domanda da cui
si dovrà ripartire è la seguente: posta la condizione critica della democrazia italiana,
e dato il basso livello di legittimazione democratica delle sue istituzioni,
quali obiettivi primari è necessario perseguire?
NON BASTA
PIÙ ripetere la formula rituale
«contemperare governabilità e rappresentanza». In una condizione di grave delegittimazione
delle istituzioni, la ricostituzione di una legittima e forte rappresentanza
politica è la premessa per una qualsivoglia effettiva governabilità.
Ed è una
premessa ineludibile, almeno se vogliamo dare al governo il valore di un
esercizio del potere democratico fondato su un reale consenso. Certo, se
assumiamo che oggi la democrazia può assumere solo la forma di un atto puntuale
di autorizzazione al comando, e che ai cittadini basta chiedere di svolgere
solo il ruolo di giudici-spettatori, chiamati ad acclamare o ripudiare il
leader di turno, allora vanno bene anche sistemi elettorali che ci garantiscano
un vincitore che abbia le mani libere per cinque anni. Ma sarà poi, costui, in
grado veramente di governare, di esprimere – nel senso più forte – una capacità
di governo legittima e riconosciuta?
Questo
obiettivo, ricostruire la legittimità della rappresentanza parlamentare, va di
pari passo con un’altra finalità: adottare un sistema elettorale in grado di
incentivare – incentivare, non determinare – la ricostruzione di partiti, e di
un sistema di partiti, degni di questo nome. Per questo lungi dall’essere una
sciagura, il ritorno a un sistema limpidamente proporzionale – con una soglia
di sbarramento non aggirabile al 4 o al 5 per cento – può rappresentare il solo
terreno su cui almeno provare a invertire un radicale processo di
delegittimazione delle istituzioni democratiche, e a migliorare lo «spirito
pubblico» che si respira in Italia.
* da il manifesto, 2 dicembre 2018
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