22 giugno 2010

I beni comuni per una cittadinanza condivisa


di Fiorello Cortiana

Il disastro nel Golfo del Messico, il sorpasso triste della guerra all’integralismo in Afghanistan sui 103 mesi di conflitto nel Viet-Nam, la profonda recessione che accompagna la ridefinizione degli equilibri e delle geografie della globalizzazione, le migrazioni generate dagli squilibri planetari, sono nodi critici venuti al pettine all'inizio di questo terzo millennio. Essi sono in gran parte figli della separazione e anche della antinomia tra sapere e sapienza, cioè tra la dimensione calcolabile e codificata del lavoro cognitivo e quella legata a pratiche ed esperienze dell'attività umana la cui efficacia era verificata nella quotidianità di comunità. Così presi dall'affanno sociale individuale, dal potere terreno del sacro e delle ideologie, gli uomini non hanno occhi per riconoscere l’ambiente naturale, la qualità sociale e una cultura dei diritti condivisa come condizioni essenziali per la vita della specie umana sulla terra. Questa carenza impedisce il riconoscimento dei beni comuni come tali. Il ripetuto richiamo del Presidente Napolitano alla coesione sociale come elemento qualificante della democrazia repubblicana richiede di riconoscere la Costituzione ed i suoi principi come un Bene Comune. Così come l’affermazione del presidente della Camera Fini a difesa del principio di legalità e dell’appello lanciato da Stefano Rodotà affinché le libertà costituzionali non siano disponibili per nessuna maggioranza.

Cosa sono dunque i “beni comuni”? Sono le risorse naturali (aria, acqua, biodiversità), quelle culturali, gli alfabeti e le grammatiche, digitali e non, i linguaggi espressivi (musica, danza, teatro,fotografia, cinema, letteratura) e le loro narrazioni, le reti degli ecosistemi così come le reti digitali per la conoscenza. Così come le regole, le norme, che li riconoscono e li garantiscono nella disponibilità diffusa, di queste e delle future generazioni. Sono beni il cui accesso è aperto, senza discrezionalità discriminanti che ne pregiudicherebbero la titolarità e quindi disponibilità diffuse. Quello dei beni Comuni è un campo aperto entro il quale si ridefinisce una cultura della cittadinanza condivisa in armonia con il vivente e quindi un’etica della responsabilità. Per questo si rende necessaria una relazione interdisciplinare che interessa l’ecologia come la biologia, l’economia, come l’epistemologia, la filosofia come il diritto, l’antropologia come la sociologia. Ad un tempo si rende necessario l’incontro ed il confronto tra i diversi interessi che hanno a che fare con i beni comuni, con la loro gestione, la loro conservazione, la loro distribuzione, il loro accesso. Siano interessi imprenditoriali, degli utenti/consumatori, dei regolatori, dei garanti. Non ci sono piani separati o logiche sequenziali, un unico e convulso processo, ci chiede di adeguare i nostri strumenti interpretativi per fare i conti con questioni inedite, per la loro dimensione o per la loro natura.

In questo inizio di millennio la libertà significa una partecipazione informata a questo processo, perché di fronte a questioni nuove indubbiamente sono in gioco interessi particolari ad esse legati, ma le verità precostituite che hanno accompagnato i conflitti dello scorso secolo sono palesemente senza efficacia se non esse stesse parte dei problemi da affrontare. Nel secondo dopoguerra la cultura repubblicana e il suo dispiegarsi nel conflitto sociale e nelle innovazioni legislative, anno dopo anno, generazione dopo generazione, ha costituito il comun denominatore per tutte le famiglie politiche, indipendentemente dalla narrazione ideologica di partenza. Dopo le ideologie è in crisi l’idea di politica direttamente partecipata e con essa la coesione sociale; oggi la risignificazione della politica per una politica pubblica rispondente ad interessi generali e la ridefinizione di un comun denominatore passano per il riconoscimento e la condivisione dei “beni comuni”, fisici e non, che ci circondano.

C’è una straordinaria riserva di umanità presente nelle centinaia di migliaia di esperienze della sussidiarietà che chi ha la titolarità di rappresentanza politico-istituzionale sbaglierebbe a considerare come votata a logiche auto-compensative o come bacino di scambio elettorale. Per la prima volta nel nostro Paese l’aumento dell’astensionismo elettorale si sta prefigurando come separatezza dalla cosa pubblica e dalla presa di parola nel suo discorso: ciò non prospetta nulla di positivo per la qualità della democrazia e delle classi dirigenti. Eppure proprio in questa assunzione di responsabilità sussidiaria possiamo trovare risorse e approcci culturali utili alla ricostituzione di una comunità e di una cittadinanza condivise. Qui il dono agli altri di tempo o di risorse cognitive, non si configura come caritatevole cessione di quello che risulta superfluo ad una sobrietà esistenziale ed estetica. Molto più frequentemente il dono si configura come condivisione, condivisione di conoscenza e di pratiche, “know-how”. Qui in luogo dell’utilitarismo individualista funziona con efficacia il principio di equità che Salvatore Veca ben definisce: “ l’idea è che ciascun vantaggio o bene sociale primario di cittadinanza deve essere distribuito egualmente, a meno che una qualche ineguaglianza nella sua distribuzione non vada a vantaggio di chi è più svantaggiato”.

Insieme al principio di libertà di partecipazione informata, quindi di accesso non discriminato alla conoscenza e all’informazione a partire dalla propria identità e dalla sua gestione digitale, l’equità contribuisce a ricostituire il patto sociale e civile. Anche tra generazioni con prospettive previdenziali e di welfare differenti e anche contrastanti. La condivisione, di conoscenza, di diritti, dei beni comuni diventa una condizione per produrre valore, sociale, economico e politico. Ecco, quindi l’importanza della qualità delle connessioni e delle relazioni. Qui l’affermazione evangelica del cardinal Martini “Ogni uomo è mio fratello” o quella di Hannah Arendt sulla “gioia di essere con l’altro” ci offrono una chiave per rivolgerci all’ “altro da sé” non verso una alterità assoluta, ma verso una reciprocità possibile. Così da guardare agli straordinari cambiamenti prodotti dall’innovazione nel mondo non come ad una minaccia da neutralizzare o da ridurre, bensì come ad un’opportunità da cogliere.

Per questo beni comuni come la legalità e la partecipazione,l’informazione e l’acqua, vanno riconosciuti e garantiti agli attuali ed ai futuri cittadini con una cultura dei diritti e dei doveri adeguata, indisponibili ad essere relativizzati. La loro funzione, la loro disponibilità sono cruciali se vogliamo vivere la drammaticità dei nodi ambientali e sociali non come catastrofe ma come occasione per il cambiamento. I Beni Comuni sono al crocevia delle grandi questioni che interessano il mondo e ne costituiscono l'orizzonte da svelare, per questo devono essere presenti nell’agenda pubblica e solo la presenza e lo sviluppo di un’opinione pubblica avvertita può consentire di non derubricarli a questioni accademiche collaterali.

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