30 novembre 2024

Cosa ha stabilito la COP29 sulla riduzione delle emissioni di gas serra?

di Lorenzo Marinone *

La conferenza sul clima di Baku non ha ribadito la necessità di avviare la transizione dalle fossili, il grande risultato ottenuto l'anno scorso alla COP28. Ha vinto l'ostruzionismo di petrostati come l'Arabia Saudita

Ostinazione, veti incrociati e rinvii hanno segnato il fallimento della COP29 sul tema della riduzione delle emissioni di gas serra. La 29° Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico è finita con un accordo vuoto e insignificante sulla mitigazione della crisi climatica (il Mitigation Work Program) e senza accordo su come attuare i risultati della COP28 di Dubai (la Global Stocktake), soprattutto la transizione dalle fossili.

COP29, fallimento totale sulla riduzione delle emissioni di gas serra

La COP29 è stata soprattutto la COP della finanza: gli aiuti climatici erano il punto più importante dell’agenda, perché a Baku bisognava stabilire il quadro della finanza climatica post 2025. Ma la conferenza in Azerbaijan doveva anche ribadire, consolidare e far progredire gli storici risultati della COP28 di Dubai.

L’anno scorso, per la 1° volta nella storia delle conferenze ONU sul cambiamento climatico, l’accordo finale del summit negli Emirati Arabi Uniti ha riconosciuto esplicitamente le fonti fossili come causa del riscaldamento globale. E ha stabilito la necessità di avviare la “transizione dalle fossili (transitioning away from fossil fuels).

A Baku, molte delegazioni guardavano proprio ai filoni negoziali sulla mitigazione, il Mitigation Work Program e il dialogo sulla Global Stocktake, come gli ambiti migliori dove riuscire a strappare un aumento dell’ambizione climatica.

Non è stato così. I testi finali approvati sono vuoti, da questo punto di vista. Altri, altrettanto deboli, non sono stati neppure approvati e saranno discussi ancora durante i negoziati intermedi di Bonn a giugno 2025.

L’Arabia Saudita non vuole parlare di fonti fossili. E blocca tutto

Perché un risultato così basso? Perché la COP29 non è riuscita nemmeno a mantenere il livello di ambizione raggiunto l’anno prima a Dubai? La risposta è una sola: alcune delegazioni hanno fatto carte false per far deragliare i negoziati COP29 sulla riduzione delle emissioni di gas serra. A partire dall’Arabia Saudita.

Riad non ha accettato l’esito della COP28. Già pochi giorni dopo la fine di quel vertice, nel 2023, i suoi rappresentanti provavano a far passare un’interpretazione dell’accordo che non li vincolasse ad abbandonare il petrolio. Da allora, ha lavorato alacremente per smantellarlo o, almeno, farlo arenare.

A nome del Gruppo negoziale dei paesi arabi, l’Arabia Saudita ha fatto ostruzionismo sia al tavolo del Mitigation Work Program (MWP), sia a quelli (sono 3) sull’attuazione della Global Stocktake (GST). Riad ha rifiutato che il MWP fosse la sede in cui parlare di riduzione delle emissioni di gas serra e di qualsiasi impegno concreto per la mitigazione, sostenendo che si dovesse concentrare solo sulla finanza climatica. Allo stesso modo, ha fatto naufragare qualsiasi passo avanti sul GST, il testo dove la COP28 ha sancito l’importanza della transizione dalle fossili.

Cosa dice e non dice l’accordo sul Mitigation Work Program (MWP)

Durante la plenaria finale è stato approvato l’accordo sul MWP, ma il testo definitivo paradossalmente non contiene quasi nulla di concreto riguardo la riduzione delle emissioni di gas serra.

Oltre all’Arabia Saudita, anche la Cina e alcuni altri paesi in via di sviluppo si opponevano all’inclusione nell’accordo di nuovi obblighi di riduzione e, più in generale, a quello che denunciavano come approccio “dall’alto al basso” da parte dei paesi più ricchi. Ma il no è arrivato anche per semplici riferimenti all’abbandono graduale del carbone e dei sussidi fossili e alla transizione verso le rinnovabili, che dovrebbero essere ormai dati acquisiti nel processo negoziale.

In sintesi, l’accordo finale della COP29 sulla mitigazione è caratterizzato da:

  • Sparizione degli obiettivi climatici dell’Accordo di Parigi – L’accordo finale del MWP ha rimosso ogni riferimento agli obiettivi fissati nell’Accordo di Parigi (pdf), compresi i limiti di riscaldamento globale di 1,5°C o 2°C. Questo segna una significativa riduzione delle ambizioni rispetto agli obiettivi fissati per contenere il cambiamento climatico.
  • Eliminazione della riduzione delle emissioni di gas serra – Il testo finale non fa menzione della riduzione delle emissioni di gas serra del 43% entro il 2030 e del 60% entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019, un obiettivo cruciale per fermare il riscaldamento globale che era stato incluso nelle bozze di accordo preliminari.
  • Mancanza di riferimento alla neutralità di carbonio – Il termine “emissioni nette zero” (net zero emissions) è scomparso dal testo. Avrebbe dovuto riflettere il lungo percorso verso la neutralità climatica. L’assenza di questo riferimento significa che non ci sono obiettivi chiari per l’azzeramento delle emissioni a lungo termine.
  • Assenza di riferimento al lavoro dell’IPCC
    Non è stato incluso alcun riferimento alle linee guida e alle scoperte scientifiche dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), inclusi gli inventari dei gas serra e le conclusioni dell’ultimo Rapporto di Valutazione del 2022 sulla mitigazione (AR6 WGIII). Questo elimina un importante fondamento scientifico per le politiche climatiche. L’Arabia Saudita sta spingendo per considerare anche altre fonti, meno solide dal punto di vista scientifico, come base per le politiche climatiche.
  • Mancanza di azioni concrete per la riduzione delle emissioni – Il testo finale non specifica misure concrete per ridurre le emissioni di gas serra, come la transizione dai combustibili fossili o l’adozione di energie rinnovabili. Non c’è alcun riferimento alle soluzioni necessarie per ridurre le emissioni a livello globale.

Il testo finale dell’accordo sul Mitigation Work Program (pdf) – lungo appena 3 pagine – contiene quasi unicamente riferimenti al contenuto del dialogo annuale che si è concluso alla COP29, sul tema delle soluzioni delle città contro il riscaldamento globale.

COP29, nessuna intesa sull’UAE Dialogue sulla Global Stocktake

Va anche peggio per il filone negoziale del Global Stocktake. La presidenza azera ha deciso di smembrare le trattative in 3 tavoli diversi, nel tentativo di aggirare l’opposizione fortissima di alcune delegazioni e riuscire a strappare un accordo almeno su uno dei filoni.

Speranze mal riposte. L’unico filone che ha portato un testo di accordo finale in votazione alla plenaria conclusiva del summit, quello dell’UAE Dialogue on Global Stocktake, è stato rimandato al prossimo anno a Bonn, ai negoziati intermedi.

Per questo tavolo negoziale, l’obiettivo era decidere come tradurre in azioni concrete i risultati della prima Global Stocktake. La GST è Il bilancio quinquennale sugli impegni nazionali sul clima, previsto dall’Accordo di Parigi. Valuta i progressi globali verso il raggiungimento degli obiettivi dell’accordo e fornisce indicazioni su come correggere eventuali deviazioni.

Le informazioni del Global Stocktake fungono da guida per l’elaborazione dei piani climatici nazionali (NDC), che devono essere rivisitati ogni cinque anni. Sebbene i risultati del GST non abbiano carattere vincolante e non impongano modifiche agli NDC, costituiscono comunque un punto di riferimento per verificare se i paesi stanno contribuendo adeguatamente agli obiettivi globali.

L’ultima bozza di accordo disponibile (pdf) – rigettata dalla plenaria finale – contiene molti riferimenti sia alla scienza del clima, sia agli obiettivi dell’Accordo di Parigi sottolineando il ruolo primario degli 1,5 gradi. Inoltre, fa esplicito riferimento all’art.28 del Patto di Dubai, quello che cita la transizione dalle fossili.

Tuttavia, dal testo sono scomparsi due punti importanti. Manca l’obbligo di produrre un rapporto annuale per monitorare l’andamento dell’attuazione della transizione dalle fossili. E mancano anche dei riferimenti che avrebbero permesso di ancorare in modo più saldo l’addio alle fossili al processo dei negoziati sul clima, evitando ritrattazioni e passi indietro.

leggi anche:

  C’è l’accordo finale alla COP29 sul clima: tutti i risultati della conferenza di Baku

COP29, fallimento totale sulla riduzione delle emissioni di gas serra

L’Arabia Saudita non vuole parlare di fonti fossili. E blocca tutto

Cosa dice e non dice l’accordo sul Mitigation Work Program (MWP)

* da www.rinnovabili.it - 25 Novembre 2024

18 novembre 2024

Il progressismo è solo per l’élite occidentale

di Donatella Di Cesare *

 C’era una volta il Progresso. E c’era l’enorme entusiasmo che suscitava: il domani sarebbe stato migliore dell’oggi, la prosperità avrebbe trionfato per tutti, la razionalità avrebbe sconfitto le tenebre, la società sarebbe stata più avanzata. Di tutto ciò dopo pandemie, guerre, riscaldamento climatico, violenze e brutalità di ogni genere, resta ben poco. Solo una vulgata chiamata progressismo che ha i suoi adepti e nostalgici nelle élites occidentali ed è un insieme di buoni sentimenti, luoghi comuni, slogan fatti di stereotipi e termini vaghi con cui si celebrano “modernizzazione”, “sviluppo”, “innovazione”, “crescita”. Questo progressismo diffuso, di grande povertà concettuale, è diventato il codice a cui attingono i politici di professione del centrosinistra. È un codice che funziona a mo’ di slogan pubblicitario – anzi la pubblicità ne ha tratto vantaggio. “Sì al cambiamento. Votate Apple”, “Il Pd è il progresso”, eccetera.

Dopo la liquidazione di tutti i contenuti della sinistra europea, soprattutto della sinistra italiana, il progressismo è diventato l’etichetta più neutra possibile, il passe-partout che si adatta alle posizioni più elusive – anche Draghi a suo modo è un progressista – di quel conformismo ideologico che costituisce la retorica delle élites occidentali. Può essere usato senza pensarci troppo e senza crederci troppo. Basta imparare la lezioncina. Meglio poi se, a conferma che tutto va per il meglio, ci si concentra su quelli che vengono chiamati “diritti”, e spesso non sono che i privilegi ulteriori di chi gode già di una sfera privilegiata. La risata di Harris, grottesca e intempestiva, è il simbolo di tutto ciò. La sua cocente disfatta è la sconfitta delle élites progressiste occidentali. Se da un canto portano il peso di enormi errori compiuti a più riprese nel corso degli ultimi anni, dall’Afghanistan a Gaza e ritorno, passando per l’Ucraina, dall’altro non hanno più nulla, o quasi, da dire sui grandi temi politici che dovrebbero essere all’ordine del giorno: la guerra, la povertà, l’inflazione, il lavoro, la migrazione, le devastazioni climatiche. E in Italia se ne aggiungono molti altri: la sanità, l’istruzione, il Sud, un vero progetto politico per le donne.

Non basta il pessimismo dell’intelligenza di chi riconosce che non si sta andando verso il meglio. E non basta neppure richiamare, come alcuni fanno, l’opposizione tra diritti civili e diritti sociali, anche questa un po’ stantia. La nuova destra trumpiana, che trova in Europa i suoi più schietti esponenti in Viktor Orbán e Giorgia Meloni, vince – e continuerà a vincere – per almeno tre profonde ragioni. La prima è che sa presentarsi come novità (e forse in parte lo è), rispetto al progressismo elitistico che suonava già obsoleto vent’anni fa. Questo linguaggio della vecchia borghesia liberale, che ha preteso di farsi universale, parlando anche per i ceti subalterni, semplicemente non funziona più.

La seconda ragione è che la fine delle certezze progressiste ha provocato smarrimento, rassegnazione, rancore, fuga nella vita privata, chiusura nella famiglia, corsa al successo individuale in una competizione all’ultimo respiro con gli altri. La nuova destra, oltre a riconoscere tutto ciò, sa dare una risposta, per quanto banale e spietata.

La terza ragione sta nella ricetta: offrire un saldo riparo da quel che avviene lì fuori, nell’ingovernabile caos del mondo, tra conflitti e catastrofi. Il che suona come musica per le orecchie dei preoccupati e ansiosi cittadini delle democrazie occidentali. E il riparo è ovviamente per loro, sebbene si precisi come scudo per alcuni gruppi, per alcune tribù (non sarebbe destra!), che in Italia, ad esempio, sono tassisti, balneari, autonomi, piccoli e grandi evasori, eccetera. Funziona così e funziona bene, visti anche i risultati. Perché promette di difendere gli interessi di alcuni, e li difende. Ma poi sa fare l’occhiolino ai ceti subalterni che appartengono pur sempre alla nazione. Questo insegna Trump, l’affarista entrato in politica solo per curare il corpo malato dell’America, il guaritore, che depurerà quel corpo da ogni minaccia sovversiva interna e da ogni pericolo esterno. Autarchia, grandezza mistica, purezza dell’ultranazionalismo.

Dall’altra parte c’è il progressismo astratto, che ostenta valori universali, che millanta di promuovere gli interessi di tutti e che, a ben guardare, persegue solo quelli di pochi. A questa scialba versione di routine non credono più neppure le élites occidentali che ne detengono il monopolio. Finché questa vuota ideologia non imploderà, finché questo linguaggio fatto di grotteschi ritornelli, non mostrerà fino in fondo tutti i suoi non-sensi, sarà impossibile costruire una vera alternativa in grado di essere all’altezza dei tempi.

* da ilfattoquotidiano.it ( via infosannio) – 17 novembre 2024